Un’ora (o forse no), un giorno, una settimana, un mese, un anno (o forse no), nel tempo, del tempo, quanto, tanto, il tempo per tutto il tempo, per il tempo se tengo al tempo che serve, che c’è, che arriva (che c’è?), che attendo, che incede, che spreco, che anelo, che rimodulo, che sento ogni volta (che c’è!), che apprezzo, che sopporto a stento, che schivo illudendomi di non cadervi ancora una volta e ineluttabilmente, lo stesso, procede, indifferentemente, inevitabilmente, precipitevolissimevolmente lungo distopici binari entropici che per quanto casuali, de facto, perdurano, attraversano, delineano, imperversano, strappano, coincidono, superano e (strappano!) imperterriti continuano.
La mia memoria viaggia e sono per terra nel soggiorno dei miei otto anni, una sera così buia e fredda di dicembre e non ho voglia di andare a dormire per non dormire e voglio solo una storia che mi aiuti a (non) farlo.
Devi scrivere, hai da scrivere, certo, certissimo (che c’è?), probabilmente alla fine scrivo, ho da scrivere, c’è sempre da scrivere di qualcosa, (strappano!) ogni cosa, di nessuna cosa, il problema semmai è scriverne. Non sono al mio meglio se è per questo, nemmeno al mio peggio ma scegliere al riguardo è invero dura perché sono stato decisamente meglio e sono stato decisamente peggio.
Il rapporto con la propria conflittualità interiore si (dis)impara nel tempo e col tempo si diventa più o meno efficaci nelle misure da adottare. Ho come l’impressione… di voler (che tu voglia) saltare una parte introduttiva, (che tu voglia) affondare direttamente al cuore del canovaccio e poi uscirne in modo più o meno (distruttivo) costruttivo. Ho come l’impressione che ci sia da scrivere se si abbia da scrivere, non ho mai smesso e il fatto più o meno esplicito che possa o meno farlo anche qui tra queste inutili righe o pagine, è irrilevante (non significa nulla!) ai fini di ciò che voglia scrivere. Le cose continuano a mutare, vorticosamente, due anni ormai... due anni e zero anni, molte cose e (che c’hai?) nessuna cosa ha molto senso ormai, conta eventualmente chi ci sia e chi non ci sia più.
Per chi non c’è più non c’è rimedio perché chi va lascia un vuoto tale da restare incolmabile ed è ito, è fatto e il passo è asfaltato ormai consolidato, è sotto un lastra, sotto una tavola, in una buca tra mille altre, è lapalissiano ma è anche possibile e, per un periodo di tempo molto limitato, provare e tentare un approccio meno (costruttivo) distruttivo. Il buon senso mio è ramengo, le mie buone maniere sono a lezione costante da peripatetica raggiante, la mia volontà piega inesorabilmente verso l’autodistruzione, l’anima echissenefotte, il resto… non c’è (echissenefotte!) alcun resto da segnalare.
Ho sognato e ho annotato come sempre, cadevo e cadevo e cadevo e cadevo, una perenne caduta ma senza alcun punto di riferimento, unico elemento constatabile semmai la caduta stessa, una inarrestabile ed incontrovertibile attrazione verso qualcosa molto molto lontano ma sufficiente a generarla, gravità… può darsi.
Scriverei di entusiasmi, di miasmi, di piccole e lucide lische opprimenti, di argute parole compresse, di alti ideali di opere tanto stradali quanto incompiute e di verità. Ma quod veritas? La mia, la sua, la vostra, quellachemmenefotte o quella chennomenefotteaffatto. Certo potrei attenermi al programma, alla mia scaletta, alla mia idea primaria di antitesi originaria, potrei e vorrei ma di fatto non servirebbe non sarebbe comunque un utile esercizio di checosanonso. Però è scrivere quello che ho in mente, è scrivere incontrovertibilmente, io scrivo e questo deve essere sufficiente, questo deve essere ciò che possa allentare la caduta, l’irrefrenabile discesa, scrivere fino all’inevitabile resa.
- vuoi contrattare? Avanti contrattiamo! Che fai desisti? Contratta! Contratta! Avanti! AVANTI! Che cosa vuoi? E che cosa mi dai? Hai qualcosa da darmi? Sai cos’hai da potermi dare? Quello che puoi perdere o quello che vuoi abbandonare? Te ne puoi separare? Potrei semplicemente strappartelo e non avresti da fiatare lo sai? LO SAI??? Sai che cosa serve in una contrattazione? Hai le palle per mercanteggiare?
Orbene... io penso, a volte anche io lo faccio, è stato certamente un tempo passato, l’aver scritto e immaginato di azioni e reazioni e cavalli e mandragore e cerchi e coperchi e trame di lame e nodi diversi, da ramo al gordiano. Sono ero persisto sarò inutile. Sono ero persisto sarò più che inutile. E se (dio…) esistesse non si dovrebbe vagare perennemente alla ricerca di se stessi. Potremmo abilitare uno sportello suggerimenti, rimostranze, incazzature, invettive, richieste. Facile da trovare, facile da usare, persino facile da ignorare ma presumo non sarebbe, quest’ultima, una opzione considerata e/o considerabile al più ai più. Vale il concetto del “se c’è allora perché non usarlo se c’è?”. Scrivo e descrivo quello che accade e non quello che avverto, questo in effetti potrebbe anche avere maggiore interesse ma personalmente è privo di utilità, non muta il percorso, non vi influisce, non aggiunge e non toglie, è l’uno che moltiplica o divide e che può essere tranquillamente eliso dall’espressione generale. Tu fai sempre e solo quello che devi fare, io faccio ciò che m’appartiene, sempre così è stato, sempre e costantemente è incontrovertibile.
Ho eliminato molte cose da fare nei tempi canonici, ho riversato il tempo sul lavoro, e in effetti vivo o non vivo (certamente questo dipende da ciò che si pensa del “vivere”) per lavorare, la giornata passa in fretta, ogni giorno è uguale da lunedì a domenica, simili le mie pause oniriche, non dissimili le mie sane cattive abitudini, se c’è spazio per una nuova ferita c’è spazio per due, il ritmo si uniforma e la notte è solo un giorno meno popolato e il giorno una notte solo leggermente più rumorosa. Se c’è spazio per due ferite c’è anche spazio per tre e per quattro, è solo una questione di tempo e di sopportazione non di spazio o di volontà.
Devo fare ammenda, molta ammenda, devo fare (mea culpa) un sacco di ammenda perché così facendo ho relegato altrove quei pochi pensieri più strettamente canonici, quelli da savio e quelli che mi tengono in qualche modo ancorato a ciò che mi serve ricordare, (che mi hai insegnato) che ho imparato, che è parte profonda di me e che può solo essere alla buona accantonato per un tempo più o meno lungo in modo più o meno dissimulato.
Limito a zero le mie interazioni perché sarei di scarsa compagnia, non avrei nulla di arguto da sollecitare e anche un luogo comune, talmente comune da diventare provincia, non potrebbe farmi alcunché se non portarmi ancor più ad ignorare. Limito me stesso, limito le mie mani, limito il mio intelletto e a volte, resto in silenzio fissando il niente quasi ad attendere che lo stesso muti in qualcosa e che si faccia annunciare. Resto irrimediabilmente segnato ogni volta che cede la mia volontà che cedo al facile abbandono, ogni volta che cedo l’elemento più razionale e spaiato, ogni volta che cedo e che cado avvertendo il sibilo e quindi il dolore tanto immediato quanto subito ignorato.
Se (dio…) avesse un qualche motivo di esistere riprenderei a giocare a scacchi, taglia e incendia, scansa e colpisci, ardi e perisci, che c’è? Non è chiaro forse? Non importa non ho l’abitudine di declinare per esegesi ogni concetto, non declino la vita per etichette, nonmenefotte alcunché dell’xxxxxxxxxxxxxx che non ti fa dormire la notte, il tuo, il mio, il tempo è quello che è e lo puoi impiegare io farò lo stesso ma non per questo devo essere solidale con la tua paura e preoccupazione, evento E.L.E.? Amen! E cosi sià! Non chiedermi di scendere al tuo livello, il mio è sufficiente ed altamente isolato e se (dio…) volesse, non vi sarebbe alcuna distinzione, sarebbe tutto in linea con il creato, uniforme, armoniosamente equiparato. Ma a fare i semplici si perde sostanza, ci si impoverisce e la ruggine cresce tra ogni nervatura, quella ruggine che non attacca il metallo ma che mangia la mia carne e sai o forse non sai che ha sempre fame, è una dannata lampreda che si attacca e scava e mangia e scava e si ingozza e sai di cosa? Delle tue abitudini, delle tue piatte dimostrazioni, dei limiti che produci in abbondanza e che ti uniformano come ogni altro e come ogni altra cosa. Se (dio..) schioccasse le dita, quella sarebbe la tendenza, ma i migliori di tendenza lo scambierebbero per un raffazzonato modo di tenere e scandire il tempo della loro eccelsa (inutile!) esistenza.
La gravità regola, regge, governa e modella ogni cosa; se dio esistesse, la sua mano sarebbe la gravità… e incede e divelle e irrompe a divellere il velo sulla mia memoria quasi perduta. Ricordo che avesse una inflessione molto particolare, non un vero e proprio accento ma era comunque sufficiente a tradirne l’origine ormai lontana e una vita ben più longeva di quella che io potrei mai sperare di avere.
“Tu ne veux pas encore t'endormir, il est très tard et tu devrais te coucher car sinon tu seras en retard à l'école demain matin.”
Se (dio…) volesse ed io avessi più amore (rancore) verso me stesso, mi impiegherei in modo più utile e meno distruttivo, non avrei solo (getti) pezzi da scansare ma qualche piccola scintilla da preservare. A volte attendo in silenzio, anche Lei attende in questo silenzio, attende una mia parola che però non arriva mai, è legata ad un pensiero che non corroborerà alcun intento, non avrà alcuna costruzione reale e resterà perso tra mille innumerevoli altri perché così è adesso. Se (dio…) esistesse allora io e Lei avremmo anche una forma, seppur raffazzonata, di dialogo, oltre il tempo, oltre lo spazio, oltre il dolore, oltre quel velo della memoria flebile eppure così persistente, ecco cosa posso fare e faccio, declino la mia vita per forme ossimoriche, per incisi assoluti e va bene o va come deve andare per tutto il tempo che possa andare.
Non le chiedevo mai di raccontarmi una storia né, in particolar modo, una storia così paurosa da non farmi dormire ma, inevitabilmente, restavo seduto a terra con le gambe incrociate mentre l’odore del carbone arso saturava le mie narici ad ascoltarla parlare. E perché… perché… io, enfant, chaque soir d'hiver, devant le brasero, ma tante me racontait toujours une histoire effrayante pour que je puisse mieux dormir. Mes préférées étaient les histoires de loups-garous.
La voce le tremava a causa del Parkinson e questo aggiungeva al tutto una certa inquietudine e se ancora la paura sembrava sopita, due o tre sue parole erano sufficienti a destarla. Non riuscivo a stare fermo ma restavo ad ascoltare e anche se non era la prima volta che ascoltavo quella storia, pur conoscendone perfettamente a memoria lo svolgimento, nulla poteva farmela apprezzare di più che ascoltargliela raccontare. Per un lungo periodo mi raccontava in francese, lo parlava benissimo pur avendolo solo studiato a scuola ma lo aveva usato e tanto durante la sua giovinezza.
Se (dio…) potesse riprendere fiato, non ci sarebbe stato un altro giorno per fare il ripasso, sarebbe stato sufficiente il tempo già impiegato. Anna, mia zia, la Zia dalle storie fenomenali e terrorizzanti, dalla voce tremula che sembra cozzare nell’apparenza della sua figura, un tempo davvero statuaria ma adesso lì a raccontarmi, quella di una signora con solo un po’ più di vita percorsa alle spalle e curva con esse.
Angusta la posizione come la ristrettezza mentale, tanto deleteria quanto assuefacente, perdere un po' di volontà con piccole dosi di alta temperatura circoscritta e controllata. Nuovi piccoli candidi e umidi segni, come verità distorte. Ma quod veritas? Quella che vuoi ascoltare, quella che (mi) piace raccontare, quella tanto suadente quanto mendace. Quella propedeutica allo scopo che (ti) ammorba molto più efficacemente di una qualunque altra menzogna. Un piccolo dolore trasfigurato da torpore, brucia alla stregua di una lama aguzza, hai il tempo di soffrire l'istante esatto di comprendere o progredire.
Anima et Ignis.
Giovane Clizia quod veritas, quale verità vuoi imparare a raccontare di te per te al mondo. Ti avvolge ma non scalda, ti accompagna ma non ti fa da guida, ti illumina ma non traccia alcuna rotta, ti cambia ma ti mantieni uniforme all’apparenza, ti arricchisce ma lo spirito deve essere inflessibile, puoi perderla e ritrovarla ma qual è, allora, la verità che racconterai attraverso la vita beffarda di chi scruterà a fondo oltre la pelle, oltre il velo dei tuoi occhi, oltre le tue ossa.
Danzano nel vento, in corse e rincorsa, attendono, incalzano e mutano scia, leggere e pesanti di ombre scostanti, erratiche e certe nel tempo incostanti, foglie piumate d’inverno o parvenze di tiepide e vane speranze, sono fiati appannati, sono sibili sottili, disegni strani di più strane ricordanze.
Posso restare in silenzio ma non posso piangere, pur avvertendo una tristezza aberrante, posso restare e decidere di scrivere e prescindere... e questo faccio perché anche scrivere è ciò che mi hai insegnato. Ciao Mamma.
La mia memoria viaggia e sono per terra nel soggiorno dei miei otto anni, una sera così buia e fredda di dicembre e non ho voglia di andare a dormire per non dormire e voglio solo una storia che mi aiuti a (non) farlo.
Devi scrivere, hai da scrivere, certo, certissimo (che c’è?), probabilmente alla fine scrivo, ho da scrivere, c’è sempre da scrivere di qualcosa, (strappano!) ogni cosa, di nessuna cosa, il problema semmai è scriverne. Non sono al mio meglio se è per questo, nemmeno al mio peggio ma scegliere al riguardo è invero dura perché sono stato decisamente meglio e sono stato decisamente peggio.
Il rapporto con la propria conflittualità interiore si (dis)impara nel tempo e col tempo si diventa più o meno efficaci nelle misure da adottare. Ho come l’impressione… di voler (che tu voglia) saltare una parte introduttiva, (che tu voglia) affondare direttamente al cuore del canovaccio e poi uscirne in modo più o meno (distruttivo) costruttivo. Ho come l’impressione che ci sia da scrivere se si abbia da scrivere, non ho mai smesso e il fatto più o meno esplicito che possa o meno farlo anche qui tra queste inutili righe o pagine, è irrilevante (non significa nulla!) ai fini di ciò che voglia scrivere. Le cose continuano a mutare, vorticosamente, due anni ormai... due anni e zero anni, molte cose e (che c’hai?) nessuna cosa ha molto senso ormai, conta eventualmente chi ci sia e chi non ci sia più.
Per chi non c’è più non c’è rimedio perché chi va lascia un vuoto tale da restare incolmabile ed è ito, è fatto e il passo è asfaltato ormai consolidato, è sotto un lastra, sotto una tavola, in una buca tra mille altre, è lapalissiano ma è anche possibile e, per un periodo di tempo molto limitato, provare e tentare un approccio meno (costruttivo) distruttivo. Il buon senso mio è ramengo, le mie buone maniere sono a lezione costante da peripatetica raggiante, la mia volontà piega inesorabilmente verso l’autodistruzione, l’anima echissenefotte, il resto… non c’è (echissenefotte!) alcun resto da segnalare.
Ho sognato e ho annotato come sempre, cadevo e cadevo e cadevo e cadevo, una perenne caduta ma senza alcun punto di riferimento, unico elemento constatabile semmai la caduta stessa, una inarrestabile ed incontrovertibile attrazione verso qualcosa molto molto lontano ma sufficiente a generarla, gravità… può darsi.
Scriverei di entusiasmi, di miasmi, di piccole e lucide lische opprimenti, di argute parole compresse, di alti ideali di opere tanto stradali quanto incompiute e di verità. Ma quod veritas? La mia, la sua, la vostra, quellachemmenefotte o quella chennomenefotteaffatto. Certo potrei attenermi al programma, alla mia scaletta, alla mia idea primaria di antitesi originaria, potrei e vorrei ma di fatto non servirebbe non sarebbe comunque un utile esercizio di checosanonso. Però è scrivere quello che ho in mente, è scrivere incontrovertibilmente, io scrivo e questo deve essere sufficiente, questo deve essere ciò che possa allentare la caduta, l’irrefrenabile discesa, scrivere fino all’inevitabile resa.
- vuoi contrattare? Avanti contrattiamo! Che fai desisti? Contratta! Contratta! Avanti! AVANTI! Che cosa vuoi? E che cosa mi dai? Hai qualcosa da darmi? Sai cos’hai da potermi dare? Quello che puoi perdere o quello che vuoi abbandonare? Te ne puoi separare? Potrei semplicemente strappartelo e non avresti da fiatare lo sai? LO SAI??? Sai che cosa serve in una contrattazione? Hai le palle per mercanteggiare?
Orbene... io penso, a volte anche io lo faccio, è stato certamente un tempo passato, l’aver scritto e immaginato di azioni e reazioni e cavalli e mandragore e cerchi e coperchi e trame di lame e nodi diversi, da ramo al gordiano. Sono ero persisto sarò inutile. Sono ero persisto sarò più che inutile. E se (dio…) esistesse non si dovrebbe vagare perennemente alla ricerca di se stessi. Potremmo abilitare uno sportello suggerimenti, rimostranze, incazzature, invettive, richieste. Facile da trovare, facile da usare, persino facile da ignorare ma presumo non sarebbe, quest’ultima, una opzione considerata e/o considerabile al più ai più. Vale il concetto del “se c’è allora perché non usarlo se c’è?”. Scrivo e descrivo quello che accade e non quello che avverto, questo in effetti potrebbe anche avere maggiore interesse ma personalmente è privo di utilità, non muta il percorso, non vi influisce, non aggiunge e non toglie, è l’uno che moltiplica o divide e che può essere tranquillamente eliso dall’espressione generale. Tu fai sempre e solo quello che devi fare, io faccio ciò che m’appartiene, sempre così è stato, sempre e costantemente è incontrovertibile.
Ho eliminato molte cose da fare nei tempi canonici, ho riversato il tempo sul lavoro, e in effetti vivo o non vivo (certamente questo dipende da ciò che si pensa del “vivere”) per lavorare, la giornata passa in fretta, ogni giorno è uguale da lunedì a domenica, simili le mie pause oniriche, non dissimili le mie sane cattive abitudini, se c’è spazio per una nuova ferita c’è spazio per due, il ritmo si uniforma e la notte è solo un giorno meno popolato e il giorno una notte solo leggermente più rumorosa. Se c’è spazio per due ferite c’è anche spazio per tre e per quattro, è solo una questione di tempo e di sopportazione non di spazio o di volontà.
Devo fare ammenda, molta ammenda, devo fare (mea culpa) un sacco di ammenda perché così facendo ho relegato altrove quei pochi pensieri più strettamente canonici, quelli da savio e quelli che mi tengono in qualche modo ancorato a ciò che mi serve ricordare, (che mi hai insegnato) che ho imparato, che è parte profonda di me e che può solo essere alla buona accantonato per un tempo più o meno lungo in modo più o meno dissimulato.
Limito a zero le mie interazioni perché sarei di scarsa compagnia, non avrei nulla di arguto da sollecitare e anche un luogo comune, talmente comune da diventare provincia, non potrebbe farmi alcunché se non portarmi ancor più ad ignorare. Limito me stesso, limito le mie mani, limito il mio intelletto e a volte, resto in silenzio fissando il niente quasi ad attendere che lo stesso muti in qualcosa e che si faccia annunciare. Resto irrimediabilmente segnato ogni volta che cede la mia volontà che cedo al facile abbandono, ogni volta che cedo l’elemento più razionale e spaiato, ogni volta che cedo e che cado avvertendo il sibilo e quindi il dolore tanto immediato quanto subito ignorato.
Se (dio…) avesse un qualche motivo di esistere riprenderei a giocare a scacchi, taglia e incendia, scansa e colpisci, ardi e perisci, che c’è? Non è chiaro forse? Non importa non ho l’abitudine di declinare per esegesi ogni concetto, non declino la vita per etichette, nonmenefotte alcunché dell’xxxxxxxxxxxxxx che non ti fa dormire la notte, il tuo, il mio, il tempo è quello che è e lo puoi impiegare io farò lo stesso ma non per questo devo essere solidale con la tua paura e preoccupazione, evento E.L.E.? Amen! E cosi sià! Non chiedermi di scendere al tuo livello, il mio è sufficiente ed altamente isolato e se (dio…) volesse, non vi sarebbe alcuna distinzione, sarebbe tutto in linea con il creato, uniforme, armoniosamente equiparato. Ma a fare i semplici si perde sostanza, ci si impoverisce e la ruggine cresce tra ogni nervatura, quella ruggine che non attacca il metallo ma che mangia la mia carne e sai o forse non sai che ha sempre fame, è una dannata lampreda che si attacca e scava e mangia e scava e si ingozza e sai di cosa? Delle tue abitudini, delle tue piatte dimostrazioni, dei limiti che produci in abbondanza e che ti uniformano come ogni altro e come ogni altra cosa. Se (dio..) schioccasse le dita, quella sarebbe la tendenza, ma i migliori di tendenza lo scambierebbero per un raffazzonato modo di tenere e scandire il tempo della loro eccelsa (inutile!) esistenza.
La gravità regola, regge, governa e modella ogni cosa; se dio esistesse, la sua mano sarebbe la gravità… e incede e divelle e irrompe a divellere il velo sulla mia memoria quasi perduta. Ricordo che avesse una inflessione molto particolare, non un vero e proprio accento ma era comunque sufficiente a tradirne l’origine ormai lontana e una vita ben più longeva di quella che io potrei mai sperare di avere.
“Tu ne veux pas encore t'endormir, il est très tard et tu devrais te coucher car sinon tu seras en retard à l'école demain matin.”
Se (dio…) volesse ed io avessi più amore (rancore) verso me stesso, mi impiegherei in modo più utile e meno distruttivo, non avrei solo (getti) pezzi da scansare ma qualche piccola scintilla da preservare. A volte attendo in silenzio, anche Lei attende in questo silenzio, attende una mia parola che però non arriva mai, è legata ad un pensiero che non corroborerà alcun intento, non avrà alcuna costruzione reale e resterà perso tra mille innumerevoli altri perché così è adesso. Se (dio…) esistesse allora io e Lei avremmo anche una forma, seppur raffazzonata, di dialogo, oltre il tempo, oltre lo spazio, oltre il dolore, oltre quel velo della memoria flebile eppure così persistente, ecco cosa posso fare e faccio, declino la mia vita per forme ossimoriche, per incisi assoluti e va bene o va come deve andare per tutto il tempo che possa andare.
Non le chiedevo mai di raccontarmi una storia né, in particolar modo, una storia così paurosa da non farmi dormire ma, inevitabilmente, restavo seduto a terra con le gambe incrociate mentre l’odore del carbone arso saturava le mie narici ad ascoltarla parlare. E perché… perché… io, enfant, chaque soir d'hiver, devant le brasero, ma tante me racontait toujours une histoire effrayante pour que je puisse mieux dormir. Mes préférées étaient les histoires de loups-garous.
La voce le tremava a causa del Parkinson e questo aggiungeva al tutto una certa inquietudine e se ancora la paura sembrava sopita, due o tre sue parole erano sufficienti a destarla. Non riuscivo a stare fermo ma restavo ad ascoltare e anche se non era la prima volta che ascoltavo quella storia, pur conoscendone perfettamente a memoria lo svolgimento, nulla poteva farmela apprezzare di più che ascoltargliela raccontare. Per un lungo periodo mi raccontava in francese, lo parlava benissimo pur avendolo solo studiato a scuola ma lo aveva usato e tanto durante la sua giovinezza.
Se (dio…) potesse riprendere fiato, non ci sarebbe stato un altro giorno per fare il ripasso, sarebbe stato sufficiente il tempo già impiegato. Anna, mia zia, la Zia dalle storie fenomenali e terrorizzanti, dalla voce tremula che sembra cozzare nell’apparenza della sua figura, un tempo davvero statuaria ma adesso lì a raccontarmi, quella di una signora con solo un po’ più di vita percorsa alle spalle e curva con esse.
Angusta la posizione come la ristrettezza mentale, tanto deleteria quanto assuefacente, perdere un po' di volontà con piccole dosi di alta temperatura circoscritta e controllata. Nuovi piccoli candidi e umidi segni, come verità distorte. Ma quod veritas? Quella che vuoi ascoltare, quella che (mi) piace raccontare, quella tanto suadente quanto mendace. Quella propedeutica allo scopo che (ti) ammorba molto più efficacemente di una qualunque altra menzogna. Un piccolo dolore trasfigurato da torpore, brucia alla stregua di una lama aguzza, hai il tempo di soffrire l'istante esatto di comprendere o progredire.
Anima et Ignis.
Giovane Clizia quod veritas, quale verità vuoi imparare a raccontare di te per te al mondo. Ti avvolge ma non scalda, ti accompagna ma non ti fa da guida, ti illumina ma non traccia alcuna rotta, ti cambia ma ti mantieni uniforme all’apparenza, ti arricchisce ma lo spirito deve essere inflessibile, puoi perderla e ritrovarla ma qual è, allora, la verità che racconterai attraverso la vita beffarda di chi scruterà a fondo oltre la pelle, oltre il velo dei tuoi occhi, oltre le tue ossa.
Danzano nel vento, in corse e rincorsa, attendono, incalzano e mutano scia, leggere e pesanti di ombre scostanti, erratiche e certe nel tempo incostanti, foglie piumate d’inverno o parvenze di tiepide e vane speranze, sono fiati appannati, sono sibili sottili, disegni strani di più strane ricordanze.
Posso restare in silenzio ma non posso piangere, pur avvertendo una tristezza aberrante, posso restare e decidere di scrivere e prescindere... e questo faccio perché anche scrivere è ciò che mi hai insegnato. Ciao Mamma.