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Scendo le scale di quel palazzo.
Esco da quel cancello.
Vado in discesa, scendo perché il mare è giù, è sotto.
Svolto.
Uno squarcio si apre, in fondo, sopra una linea solo immaginata.
Un frastaglio, la linea del con-fine nuvole. Un intaglio irripetibile. Spruzzato di rosa e viola.
Sopra, in fondo, un cielo blu-spazzato-dal-vento.
Scendo. Scendo veloce.
Cerco un mio squarcio. Uno sguardo sull’orizzonte. Sulla linea di bacio.
Invece no. Chiuso da giganti di cemento, ironici e sornioni, giganti che si abbracciano solo per chiudere il cielo.
Mi guardo attorno. Cerco due occhi. Uno sguardo. Cerco una direzione. Un’indicazione.
Mi basta un “vai di là”.
Invece no. Come globuli bianchi-pallidi senza vita-anima tanti nessuno trasportati dalla corrente frenetica e insulsa di un via-vai insensato, scontato e predeterminato.
Scendo ancora, mi guardo attorno, cerco uno spiraglio. Uno spiraglio fra la gente ammassata e mobile come una piramide di sabbia asciutta e secca su un piano inclinato e liscio.
Uno spiraglio impossibile.
Tutti chiusi nel proprio infero e, così, non c’è nessuno.
Nessuno che veda quel tramonto.
Non dovevo scendere.
Mi giro. Risalgo. Sconsolato. Triste. Bastonato.
Un tramonto perso. Un tramonto che non tornerà. Un tramonto (quasi) inutile.
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Punto.