
Quasi 52 anni.
Ti fermi, ti volti dietro e?
Nebbia.
Fitta e bianchissima come quella dei film dell’orrore.
Il buio e nessuna voglia di andare avanti… e poi, per cosa? Per chi?
Se finora non sei riuscita a far niente di buono, prendi atto del tuo essere ‘insignificante’ e spostati di lato, che ostacoli il cammino a chi ha tutte le carte in regola per emergere.
Non sono stata una brava figlia perché troppo testarda e mai disposta a piegarmi alle regole della famiglia.
Non sono stata una brava moglie perché ho sempre difeso la mia libertà di individuo rifiutandomi di prendere le abitudini e il cognome di chi consideravo compagno, non padrone.
Non sono stata una brava mamma perché ho insegnato ai miei figli a seguire le loro passioni e non quello che “chiede il mercato”.
E ora questo scrivere: senza forma, senza senso, con la tua dannata assenza che ingombra ogni foglio e satura le mie parole solo di te. Da quando sei andato via mi sento di nuovo sbilenca perché erano i tuoi rimproveri a sorreggermi e raddrizzarmi, caro amico mio.
Non ho mai creduto fino in fondo nelle mie capacità e questa insicurezza mi ha portata, a vent’anni, a scegliere la strada più ‘comoda’ e non quella giusta per me. Dovevo crearmi in fretta una mia vita, allontanarmi da una famiglia opprimente. Mi è mancato, però, il coraggio di seguire il mio sogno: diventare insegnante. La caparbietà che avrei dovuto usare per far digerire ai miei genitori e a mio zio la partenza per l’università, l’ho dirottata verso un matrimonio organizzato nel giro di pochi mesi. Lasciando tutti esterrefatti: perché tanta fretta? Eh, sì, dal giorno in cui io e il mio futuro marito abbiamo annunciato che, di lì a qualche mese ci saremo sposati, son cominciati bisbigli e calcoli dei ‘nove mesi’.
Una vita in comune decisa dal mio perentorio “O ci sposiamo, o ci lasciamo”, non parte nel migliore dei modi, ma ero giovane e pensavo che le cose si sarebbero sistemate. Ho fatto finta di non sapere che l’amore deve essere una scelta condivisa da entrambi. Io l’ho imposta al mio futuro compagno di vita. Ecco il mio primo fallimento: imporre una scelta a chi non era pronto a percorrere quella strada, e solo per la fretta di andar via di casa. E mi sento fallita nell’aver gettato in un angolo buio il mio sogno più grande, insegnare, per paura di non esserne all’altezza.
La vita poi corre, mica ti lascia il tempo di riprendere fiato prima della salita! Ha gambe robuste e ampi polmoni. Ti ritrovi a 25 anni a gestire due nuove vite che assorbono tutte le tue energie ed in cambio riempiono i tuoi giorni di fatica e risate gioiose; di ninnenanne e favole prima del bacio della buonanotte. Fino al giorno in cui quel bacio non lo cercano più… ma in fondo, sei felice: vedi che riescono a volare più in alto di te e quelle ali così grandi e bianche le hanno anche un po’ per merito tuo.
Dentro, però, ti senti rimescolare tutto: saranno proprio quelle ali a portarli via da te. Ti ritrovi sola e devi comunque sorridere e dire: sto bene! Ma bene non stai perché ora la casa è troppo vuota e quel sogno che avevi accantonato è sempre lì, in un angolo, ma non puoi più realizzarlo poiché la vita corre e il tempo non aspetta. Quel sogno è ormai scolorito e sepolto da strati di polvere grigia. Inutile che soffi: non va via, è appiccicata, pesante. Un pugno allo stomaco per chi, come me, non ha avuto il coraggio di vivere. Come faccio a perdonarmi?
Poi un giorno, per cercar di spazzar via un po’ di quella polvere, ho deciso di ricontattare i poeti del “Circolo Letterario”. Soprattutto quel matto che incantava cuori e serpenti con le parole. Quel ragazzo che, anni prima, mi aveva scritto “…prima di essere una buona madre, prima di diventare una buona moglie o una buona amante bisogna essere un buon individuo. Ma esserlo per se stessi, non per gli altri. Sii te stessa, fai delle scelte. Comode o scomode che possano essere, falle! E tutto andrà meglio”
Inutile dirti che quel saggio consiglio non l’ho seguito. Ho continuato a far finta che tutto – dentro di me – andasse bene e ho rimandato le scelte.
Dopo sedici anni da quel messaggio, ho rivoltato il mondo virtuale per poterti ritrovare. Sei stato tu a trasformare la mia ferita in ‘feritoia’. Solo merito tuo se ho ripreso in mano la mia penna blu – quella che definisci ’da 1800’. Ma cazzo!
Due mesi e poco più… non dovevi morire. Mi hai lasciata a metà: senza fiato, senza parole, senza più poesie.
Senza l’amarone o il caffè che dovevamo bere insieme e che sono rimasti solo odori scoloriti sui nostri fogli.
Senza gli abbracci che non sono riuscita a darti a valanghe – maledetti i chilometri infiniti a separare le mie mani dal tuo viso e le mie braccia dai tuoi fianchi.
Quel viaggio a luglio avrei dovuto farlo per venire a scrivere con te, ricordi? E non per stringere un’urna al cimitero.
Mi manchi talmente tanto che la feritoia è ridiventata ferita, ma non sanguina nemmeno più. C’è solo vuoto e questo mio ostinato parlare di te e con te.
Nel mio scrivere solo tu e non va bene.
Vedi? Non sono così brava come mi ripetevi, perché chi ha talento trasforma il dolore. Lo plasma, ne fa arte e va oltre, come facevi tu. Io mi ci sono schiantata contro e non vado più avanti.
Nonostante lo scrivere, nonostante le giornate che finalmente si allungano, nonostante la radio sempre accesa per poter cantare, nonostante la gioia di veder volare i miei figli sempre più in alto, nonostante nuovi amori e vecchie amicizie.
Nonostante la tua voce che continua a sussurrarmi: “Se te lo dico è perché credo in te”.
E. V.