
scritto da Odirke, prima pubblicazione 04 agosto 2013, ore 20:19
(non è stato possibile salvare il quinto capitolo, già rimosso da Google)
Ship to Ship. L’allibo, in lingua nostrana. L’operazione che permetteva il trasferimento da una nave all’altra del prodotto presente a bordo. Ad Arzanah era un evento che avveniva mediamente ogni tre mesi. Ed evento lo era in tutti i sensi.
La routine quotidiana veniva sconvolta dalle prime luci dell’alba con l’arrivo della gemella della Tropical Lion arrivata dai mari caraibici. Maestosa anch’essa. Con lei giungevano, in una lunga sequenza di imbarchi, americani e arabi che avevano il compito di supervisionare le operazioni.
Quel giorno avevamo a bordo esattamente un milione di barili di petrolio, frutto di un continuo travaso dal sottosuolo durato novanta giorni. L’equipaggio si muoveva come un’orchestra ben collaudata. Settimane di preparazione e simulazioni trovavano sfogo nell’ “x-day” che tutti aspettavamo per spezzare la monotonia del tempo.
Tutto doveva essere al suo posto e funzionante. Dalle pompe del carico ai manifolds, dai cavi di accosto ai Yokohama Fenders, quei palloni giganti che venivano calati in mare con potenti gru allo scopo di frapporre un cuscinetto di sicurezza tra le due navi. Mentre la “Sea Lion” si affiancava con l’aiuto di quattro rimorchiatori, tutti erano occupati a fare qualcosa. La preparazione ed il controllo dei collettori di carico attraverso i quali sarebbe defluito l’oro nero. Il “Meter” invece era di esclusiva americana. Una complessa ed enorme attrezzatura composta da sofisticatissime apparecchiature elettroniche, tubi, cavi che aveva lo scopo di calcolare con un errore massimo di un decimo di litro, la quantità di greggio che veniva trasferita. Quella creatura dal costo esorbitante veniva controllata regolarmente ed era coccolata da sei tecnici d’oltreoceano. Gli arabi presenti erano soltanto dirigenti, imbrattacarte e comunque padroni di tutto quel teatro.
Su tutti Mohammed Nonmiricordoilrestodelnome. Un uomo mingherlino dai modi effeminati che a quanto pare deteneva un potere enorme in quello Stato. Lo avevo visto solo una volta prima di quel giorno, e ricordavo ancora il suo modo di fare mellifluo che dava i brividi di disagio. Ad operazioni di affiancamento ancora da concludere venni chiamato dal Primo Ufficiale. Dovevo portare dei documenti a Mohammed, nella sua cabina. Quando bussai alla porta di quello che non era un alloggio normale come i nostri, ma una vera e propria suite ricavata dall’unione di 4 cabine, non vedevo l’ora di tornare in coperta per non perdermi niente di quello che stava succedendo. Si aprii la porta e mi si presentò davanti Mohammed appena uscito dalla doccia. Coperto solo nelle parti intime con un asciugamano che sembrava dovesse cadere da un momento all’altro. Mi disse “come in, Paolo” con un sorriso. Risposi al suo sguardo viscido con una freddezza ed un’occhiata che poteva fulminare un plotone intero di navy seals. “Sorry Sir, but I have a lot of work to do”. Gli sbattei in petto i documenti che tenevo in mano, girai le spalle e me ne andai senza aspettare la replica. Quello fu il primo momento in cui pensai seriamente di essere rispedito a casa per ordini superiori. E pensai anche che, dopo quell’episodio, i test HIV a cui eravamo sottoposti avevano finalmente un senso. Senso che si perdeva al pensiero di quel cameriere di bordo che, risultato positivo, passò 15 giorni di tragedia interiore pensando alla moglie ed ai figli a casa. Chiedendosi come potesse essere successo. Per poi ricevere due righe di scuse per il risultato del test errato.
Ma non fui mandato via. Mi chiesi anche se, in passato, qualche mio predecessore avesse accettato di entrare in quella cabina.
L’evento intanto continuava regolarmente e senza intoppi. Anche sulla “Sea Lion” c’era equipaggio interamente italiano. Ed era bello ritrovare dei connazionali in quel luogo dimenticato da Dio. Un corridoio di cime e cinture di sicurezza permetteva il passaggio da una nave all’altra e viceversa.
E questo permise un altro genere di allibo, che niente aveva a che vedere con il petrolio.
Dalla nave gemella mi accorsi di un traffico insolito. Bidoni, fusti, damigiane, bottiglie che venivano trasportate verso la nostra cambusa. Il tutto sotto l’occhio vigile e famelico della “Bestia”. Stavamo imbarcando una quantità industriale di vino e alcoolici vari. Il tutto pagato in dollari sonanti.
Il divieto di bere alcoolici sulla Tropical Lion nacque anni prima non perché la nave sostava in acque islamiche, ma perché due poliziotti locali, dopo una cena conviviale a bordo esagerarono con la bevanda di Bacco. Tornati all’isola si capottarono con la jeep di servizio ubriachi fradici alla prima curva. Dei due militi si persero le tracce, ma la dirigenza, furiosa, estese la proibizione coranica anche all’equipaggio italiano. E per le nostre genti, far mancare un bicchiere di vino a tavola fu peggio di una tragedia greca.
Il traffico a cui stavo assistendo, pur se effettuato nella maniera più discreta e nascosta possibile, non poteva non essere visto dai dirigenti presenti. Ma evidentemente chiudevano tutti e due gli occhi per quieto vivere e per premiare comunque un equipaggio che faceva sempre in pieno il proprio dovere.
L’evento si concluse al tramonto. La potenza delle pompe di bordo fece si che quel milione di barili trovasse dimora in un’altra pancia nel giro di poche ore.
Quando la Sea Lion salpò per tornare negli Stati Uniti e si allontanò all’orizzonte, noi tutti cominciammo a sentire un senso di vuoto. Così come erano vuote le nostre cisterne. Dall’indomani sarebbe iniziata la solita routine.
PERSONAGGI: IL DIRETTORE
Del Direttore avevo già raccontato il primo approccio a tavola, in quella cena che difficilmente dimenticherò.
Nella mia vita in mare ho conosciuto tanta varia umanità. Da ognuno di loro ho appreso qualcosa. Ma sicuramente nella mente restano più vivi i ricordi di quei personaggi che, per una ragione a cui non so dare spiegazione, sporadicamente ti si affacciano davanti agli occhi anche a distanza di anni.
Giorgio, il Direttore di Macchina, è uno di questi. Assomigliava a Clark Gable in versione capelli e baffi bianchi. Di statura elevata e, nonostante l’età, con un portamento che lo faceva sembrare ancor più alto. In sei mesi di “convivenza” a bordo non l’ho mai visto scendere in sala macchine. Mai. Tranne che per una volta, quando venne il famoso ispettore di New York. Stava seduto davanti alla sua scrivania dalle otto di mattina fino a mezzanotte. Si muoveva solo per i tre pasti giornalieri. Il suo diretto sottoposto, il Primo Ufficiale di Macchina, gli rapportava regolarmente due volte al giorno ciò che succedeva nei meandri dei motori. La sua cabina era poco distante dalla mia, e per scendere in coperta dovevo obbligatoriamente passare davanti alla sua così che non potevo fare a meno di vederlo attraverso la sua porta sempre aperta. All’inizio ci scambiavamo solo un cenno di saluto. Poi invece prese ad invitarmi a sedere con lui, per scambiare quattro chiacchere. Io accettavo volentieri.
Noi tutti incontriamo persone nella vita che rimangono simpatiche al primo istante e non sai il perché. Un “feeling” immediato che spesso non trova un perché. Giorgio era una di queste.
Quello che non accettavo invece erano i bicchierini di whisky, frutto di allibi precedenti, che regolarmente mi offriva ad ogni incontro. Declinavo l’offerta con un sorriso e lui, in perfetto accento genovese, mi diceva sempre.. “Belìn, ma prima o poi ti convinco eh” con un viso ancor più sorridente misto a finta disapprovazione.
E poi stavo ad ascoltarlo per ore. I suoi viaggi. I suoi imbarchi. Le sue avventure con il mondo femminile. Forse storie inventate ma raccontate così bene che non potevo pensare non fossero vere, anche perché regolarmente documentate con fotografie dove lui appariva insieme a donne bellissime.. E storie di vita. Tante storie di vita. Un insegnamento lo ricorderò su tutti. “Paolo, ricordati che il mestiere non si impara. Ma si ruba. Osserva in silenzio, studia chi ti sta intorno e chi potrebbe insegnarti qualcosa. Non chiedere. Non mendicare. Impara con i tuoi occhi e fa tuo ciò che è di altri”.
Mai parole furono più vere, ed ebbi modo di capirlo negli anni successivi.
Ma sotto quel sorriso capivo che c’era una solitudine ed una tristezza a cui non riuscivo a darne fonte. Ricordo quel giorno che lo vidi per l’ultima volta. Stavo sbarcando per tornare in Italia. Mi mise in mano tremila dollari da portare a sua moglie. La cosa mi sembrò strana perché la paga veniva versata dalla Compagnia direttamente alle famiglie a casa. Lui invece se la faceva mandare a bordo. Non gli chiesi nulla, ma accettai volentieri di fargli quel favore.
La pioggia scendeva battente il giorno dell’appuntamento a Genova. Arrivai con cinque minuti di ritardo, perso in quei dedali di vicoli a cui non ero uso. La moglie, una megera esteticamente all’opposto di Giorgio, mi aggredì con parole poco educate per il lieve ritardo. E con epiteti ancor meno eleganti verso il marito. Le consegnai la busta in fretta e mi allontanai senza una parola.
Non ho mai capito cosa avesse trovato Giorgio in quella donna. E forse una risposta alla sua tristezza nascosta l’avevo trovata sui marciapiedi inzaccherati di pioggia della capitale ligure.
PERSONAGGI: DIEGO
Diego era un marinaio. Lo notai il primissimo giorno che arrivai a bordo. Sessant’anni, basso, ma un fisico scolpito che lo facevano assomigliare ad un bronzo di Riace. Di una educazione sconcertante. Quando veniva chiamato da qualche superiore, anche per la più piccola questione di servizio, prima di presentarsi si toglieva la tuta da lavoro, si faceva la doccia ed alla fine bussava alla porta di chi lo aveva convocato. Sempre impeccabile. La sua abbronzatura perfetta si intonava meravigliosamente con i capelli, ancora folti ma ben curati, nerissimi, ed il baffo sottilissimo ancor più nero e perfettamente tagliato.
Nel tempo libero andava a prendere il sole sulla monoboa. Ma quello che mi fece rimanere a bocca aperta fu vederlo, la prima volta, nuotare intorno alla Tropical Lion. In un mare infestato di barracuda e squali lui con delle bracciate perfette percorreva due giri di nave, per poi risalire a bordo soddisfatto. Io quei giri li facevo a piedi, in coperta, e mi sentivo massacrato. Non avrei mai avuto forza e fiato per farli a nuoto.
Gli chiesi “O Diego ma non hai paura dei pescicani ?”. Con un sorriso mi rispose, tirando fuori un coltellaccio di 20 cm., “Siò, io penso che debbano essere loro ad aver paura di me”.
Schivo. Riservato. Non partecipava mai agli scherzi di bordo, tenendosi in disparte da tutte le attività ludiche che riuscivamo a concederci. Amico di tutti, amico di nessuno. Il tempo libero, oltre che a nuotare o ad abbronzarsi, lo passava in cabina. Molto ligio al dovere. Sempre. Quando c’era da fare qualcosa che andasse al di fuori della routine lui era sempre presente. Il marinaio che ogni Comandante vorrebbe avere. Qualsiasi membro dell’equipaggio, finito il turno di tre mesi, sbarcava allo stesso orario, le quattro di mattina, per intraprendere il viaggio a ritroso che lo avrebbe ricondotto a casa. Diego si faceva svegliare prima. Bussava alla porta dello sbarcante. Ne prendeva le valigie e le portava in prossimità del basket. Quando gli chiesi “ma chi te lo fa fare?”, lui mi rispose semplicemente.. “Siò, potrebbe essere che io veda quelle persone per l’ultima volta nella vita. E non riuscirei mai a perdonarmi di non averle salutate e abbracciate, ringraziandole per aver condiviso questi giorni con me”. Non riuscii a replicare.
Su di lui circolavano tante leggende. Bisbigli di notizie frammentate arrivate chissà come. Ma nessuno aveva il coraggio di approfondirle. Un giorno in cabina mi ritrovai un biglietto, scritto da una mano che poca dimestichezza aveva con la grammatica e l’ortografia. “Siò, le sarei grato se potesse venire a trovarmi in cabina alle ore 15, oggi, per poter parlare con lei”. Rimasi sconcertato. Ma, dopo aver messo la divisa per rispetto alla sua educazione, mi avviai a rispondere a quella “chiamata”.
La sua cabina era un’oasi a parte. Piante, fiori ne adornavano ogni angolo possibile. Pulitissima ed ordinata. E fu quel giorno che mi raccontò la sua storia. Non la conosceva nessuno.
Diego era di origini liguri. Gli ultimi anni della seconda guerra mondiale lo videro ragazzino con idee ben chiare che lo portarono ad indossare la divisa della gioventù hitleriana. La fine del conflitto lo videro sconfitto nel corpo e nelle proprie convinzioni. L’interdizione perenne dai pubblici uffici e la caccia dei partigiani nei suoi confronti fecero sì che dovette fuggire oltralpe. Legione Straniera. Tre turni in Indocina. Raccontava di guerre, agguati ed uccisioni con la stessa naturalezza con cui una mamma racconta una favola al proprio piccolo. E foto. Diari. Ricordi dell’epoca. Non riuscivo ad aprire bocca. Dalla Francia emigrò in Argentina. Dove conobbe la moglie. E dove si costruì finalmente una famiglia.
Sotto la sua cuccetta notai una quantità enorme di confezioni tetrapak, usate per il latte, perfettamente tagliate, pulite e ben riposte. Il mio sguardo interrogativo fu subito colto da Diego, che mi spiegò.
Per poter imbarcare, i Cosulich gli posero una condizione. Il viaggio da Zurigo ad Arzanah lo avrebbero pagato loro. Ma per il volo da Buenos Aires a Zurigo e ritorno doveva arrangiarsi lui.
Il prezzo era esorbitante per la sua paga. Così, giocoforza, si era trovato il sistema per coprire la cifra. Nel periodo di tre mesi di licenza si addentrava nelle foreste paraguaiane per conto di un ente che controllava la fauna locale. Catturava giaguari ed altri animali, li consegnava ai suoi datori di lavoro che avevano lo scopo di metter loro dei collari numerati. La clausola era ben precisa. Se Diego avesse solo sospettato che a quelle bestie veniva fatto del male, l’avrebbe fatta pagare cara a tutti. Il tetrapak gli serviva per raccogliere acqua piovana nelle lunghe giornate in attesa, nella foresta.
Alla fine del racconto, che durò tre ore, ma sembrava fosse iniziato solo pochi istanti prima da quanto ero rapito, mi consegnò una lettera. Era scritta in tedesco. Diego aveva saputo non so come che era un idioma a me conosciuto. Mi pregò di tradurla. “Siò è quasi vent’anni che la conservo, ma non sono mai riuscito a capire cosa ci fosse scritto. Potrebbe dirmelo lei ?”.
Lessi con interesse ad alta voce. Era di un ex ufficiale della Wehrmacht. Tedesco, ma non un nazista. La lettera proveniva da Vienna ed era indirizzata a Buenos Aires. Non rivelerò mai il contenuto. Gliel’ho promesso. Ma se mai ce ne fosse stato bisogno, ammirai quell’uomo ancora di più.
A bordo le notizie volano presto. Tutto l’equipaggio mi guardava con aria diversa. Con più rispetto forse. In fin dei conti ero l’unico di tutti loro a poter dire… io so chi è Diego. Uomo dalle idee che potremmo considerare dubbie, ma che non ha mai rinnegato. Uomo leale. Sincero. E di una gentilezza a cui non ho mai trovato eguali.
Il giorno del mio sbarco, l’ultimo. Diego trascinava la mia valigia come fosse stato il peso più grande che avesse mai portato. Entrambi sapevamo che non ci saremmo più rivisti. L’abbraccio con cui si accommiatò non lo scorderò mai. E nemmeno le nostre lacrime silenziose.
ASSASSINO
La miglior conoscenza che possiamo acquisire è quella di noi stessi. E noi… ci conosciamo fino in fondo?
Quante volte nei tg ci raccontano di uccisioni senza un motivo apparente ? Quante volte avete giudicato quegli assassini dicendo a voi stessi… “a me non capiterà mai”….
Lo facevo anch’io. Fino a quel giorno.
Il secondo di Macchina era molto più grande di me, come età. Quasi cinquant’anni rispecchianti l’evidenza di una carriera che si sarebbe conclusa con quel grado. Non molto ben visto a bordo, di carattere spesso rissoso e non socievole. Si chiamava Stefano.
Si presentò alla mia postazione con la tuta da lavoro e con una puzza di alcool che non lasciava dubbi sul suo stato mentale. Tutti i bevitori di bordo sapevano dosare bene il bicchiere di vino e non si sarebbero fatti mai trovare in stato di ebbrezza. Ma lui evidentemente non sapeva farlo. E fu strano, perché mai lo avevo visto in quelle condizioni. Sarebbe dovuto sbarcare il giorno dopo, aveva finito il suo sesto turno di servizio.
“Stronzo, famme telefonà”. L’accento marchigiano molto marcato.
“Siò… sono le otto, sa che prima delle nove non si può, vero?”. Facendo finta di non aver capito l’offesa.
“Non menteressa un cazzo oh. Famme telefonà e movite”.
“Siò, non posso. Chiami il Comandante e si faccia autorizzare da lui”.
Le consegne erano ben precise. Non le avrei trasgredite per un ubriacone. Forse era meglio chiamare il Direttore, il suo superiore. Chiamare il Primo o la Bestia avrebbe fatto passare una brutta mezz’ora al macchinista. Ma se fosse salito un arabo a bordo avremmo passato sei guai seri tutti quanti.
“Senti mezza sega crucca del cazzo, non me rompe li cojoni e comincia a fa el numero”. Sempre più aggressivo.
“Siò. Chiamo il Direttore”. Lo guardavo dritto negli occhi con un mezzo sorriso. Fremevo. Ma riuscivo a controllarmi.
Un marinaio era presente. Cominciò a parlargli con calma, cercando di fare ragionare il Secondo. Quest’ultimo dette una manata per allontanarlo.
“A gran fijo de na troia ! Famme telefonà!!!!”
Ed avvenne il black out.
Quello che successe da quell’istante in poi, mi fu raccontato dai testimoni, successivamente.
Accanto a me ed alla mia sedia c’era appesa un’accetta alta un metro. Serviva per sfondare porte o paratie in caso di incendio. La presi. E cominciai a correre dietro a Stefano.
Il marinaio testimone, ancora a terra, mi vide passare con uno sguardo che non avrebbe dimenticato. Gli occhi dilatati di furore che ricordavano quelli di Schillaci delle notti magiche.
Gli urli di terrore di Stefano che correva, e che richiamarono l’attenzione di tutti. Io ero silenzioso. Invece di rifugiarsi in cabina, scese in coperta e cominciò a correre verso prua. Io dietro. Allenato. Giovane. La mia preda era un uomo grasso ed ubriaco. Che correva. Volava. Io dietro. Tirai un fendente in corsa che gli lacerò la tuta, senza però ferirlo. E questo gli mise ancor di più le ali ai piedi.
Furia omicida, mi dissero.
Il tankista ed il Nostromo che erano a prua ci videro arrivare. All’inizio non capivano cosa stesse succedendo. Pensavano ad uno scherzo. Poi capirono. Mi placcarono come un rugbista sul ferro in coperta, tanto che mi slogai una spalla.
E mi svegliai.
Non capivo come potessi trovarmi a prua. Vedevo il sole che stava imboccando il sentiero del tramonto. Il viso dei due marittimi che mi osservavano come se guardassero un alieno. L’accetta in mano al tankista.
Non capivo. Non ricordavo.
Stefano all’alba seguente partii per tornare a casa. Non sarebbe più tornato. Lo cacciarono. Io pensai che lo avrei seguito subito, nonostante mi mancasse ancora un mese di servizio. La Bestia invece liquidò tutto con poche parole. “ O Paolo, ma mi spieghi a che ti son serviti l’allenamenti se ti sei fatto fregà da una palla di lardo?”. Finì tutto li. L’accetta riposta in un punto più sicuro ed il mio posto ancora a disposizione.
Ma non finì per me. E non è ancora finita. La domanda che spesso mi investe come un treno in corsa, corredata dall’immagine di quell’accetta, recita… “ e se succedesse ancora? Chi sei, in realtà, Paolo?”.
Un altro interrogativo che mi assillerà fino alla fine dei miei giorni è… come ha fatto a correre più di me ?
Quando lasciai per l’ultima volta la “Tropical Lion” era il 27 luglio 1990. Il 2 agosto di quell’anno Saddam Hussein invase il Kuwait, poco lontano. Da quel giorno tutto cambiò, e finì l’era di una regina del mare.
La visita medica biennale è un obbligo per tutti i marittimi. I centri che la effettuano normalmente impiegano giorni per finire tutti gli accertamenti. Unica eccezione la Cassa Marittima di Genova che permette di espletare il tutto nel giro di mezza giornata. Ed è li che vado sempre.
Inverno 2000. Stavo aspettando il mio turno per la visita oculistica. Davanti a me un viso familiare. Che mi guarda… e dice… “cazzo, non ci saranno mica accette qui, vero ??”. Era Stefano. Una gran risata. Un abbraccio forte. Un caffè. Ed è come se non fosse successo mai nulla.
Ma come fanno i marinai… ?
ma come fanno i marinai
a fare a meno della gente
e rimanere veri uomini però
FINE
Semper Fidelis