HO FALLITO

03 marzo 2016 ore 09:04 segnala


di Odirke, data di prima pubblicazione 06 febbraio 2013 ore 21:19


Giovanni è un Primo Ufficiale di Coperta.

Giovanni è un amico.

Giovanni è un figlio.

L’incontro a bordo, tanti anni fà. Uno come tanti, quando imbarca un novellino. Da Allievo. Ne ho seguito la carriera passo passo. Vedevo me, in lui. Il carattere forte e la scarsa diplomazia ha fatto si che fossero più i nemici degli amici.

I soprannomi “Piedone l’Egiziano”... “Ringhio”... nati non a caso dopo vari scambi di opinioni accesi con interlocutori dei terminal sparsi per il mondo, ne danno giusta descrizione.

La dirigenza lo mal sopportava cercando di frenare la sua ascesa al Comando. Ma si fidavano del mio giudizio. Vedevo oltre. Vedevo un ottimo ufficiale. Polemico si, ma sempre con giusta causa. Polemico verso i superiori, ma benvoluto dall’equipaggio e questo è molto importante.

E’ andata più o meno così....

- Ciao Giovanni, siediti.
- Buongiorno Comandante ! Che bella sorpresa !
- Ti ricordi quando imbarcasti la prima volta con noi ?
- Si certo Comandà, perchè ?
- Ti ricordi cosa ti chiesi, il primissimo giorno ?
- No...
- Ti chiesi se veramente era questa la strada che volevi seguire. Se te la sentivi di prenderti tutte le responsabilità che questo mestiere ci accolla.
- Ah vero...
- Mi rispondesti di si. Ne eri convinto.
- Si, ma...
- Ascolta ora.
- Se ti guardi intorno cosa vedi ?
- Le pareti della sua cabina... ?
- Vai oltre.
- .... non capisco.
- Sai cosa vedo io ? 14 padri di famiglia. Che contano su di te. Come tu conti su di loro. Vedo 11 milioni di litri di benzina sotto il nostro culo. Una potenziale catastrofe.
- ....
- Sai cos’è questo ? (gli porgo un documento)
- .... l’esito del drug test....
- Esatto.
- Ma è impossibile ! E’ stato prima che io imbarcassi. Ero a casa! Più di un mese fà !
- Non ha importanza. Non ci sono due vite diverse. C’è una vita e un codice unico, da seguire a bordo come a casa. Ho pagato di tasca mia le contro-analisi. Non ci sono dubbi. L’Armatore voleva farti sbarcare immediatamente. L’ho convinto e sono venuto qui. Ho fatto 1300 km, ma dovevo essere io a dirtelo. Sono stato io a sostenerti questi anni. Ma ho fallito. Guarda com’è strano il destino. Qui cominciò, anni fà. E qui finisce.
- .....
- Comincia a liberare la tua cabina. Il tuo sostituto sta facendo le pratiche di imbarco. Tra poco sarà qui.
- Comandante la prego ! Che gli dico a mia moglie !
- Di la verità ad Angela. Dilla anche a tua figlia quando sarà più grande. Semplicemente la verità. Sicuramente lei saprà aiutarti più di quanto abbia fatto io.
- Ma..
- Nessun ma. Non chiedermi di farti lettere di referenze per altre Compagnie. Non potrei farlo. Sei in gamba Giovanni. Sono sicuro che riuscirai a trovare un altro imbarco. Non appena ti ripulisci. E non parlo di quello che ti hanno trovato. Ti devi ripulire la coscienza prima di tutto. Puoi andare.

Sento ancora il fuoco che quel foglio mi procurava nelle mani. Vedo ancora me stesso con lo sguardo freddo e senza emozioni. Percepisco ancora la mia voce secca e senza sbavature. Avverto il peso di un fallimento che difficilmente potrò dimenticare. Per le lacrime ci sarà tempo.

Si. Ho fallito. Perdonami Giovanni.

Semper Fidelis
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« immagine » di Odirke, data di prima pubblicazione 06 febbraio 2013 ore 21:19 Giovanni è un Primo Ufficiale di Coperta. Giovanni è un amico. Giovanni è un figlio. L’incontro a bordo, tanti anni fà. Uno come tanti, quando imbarca un novellino. Da Allievo. Ne ho seguito la carriera passo passo...
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03/03/2016 09:04:39
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IL QUADRO

02 marzo 2016 ore 13:04 segnala


di Odirke, data di prima pubblicazione: 01 febbraio 2013 ore 00.34


La giornata primaverile, illuminata dal primo sole del mattino, prometteva alla fauna ed agli abitanti di quel luogo un tepore rassicurante. Il Principe decaduto aspettava, seduto sulla sua vecchia poltrona di pelle, che i raggi fasciassero come un foulard di seta il giardino del parco ben curato che si estendeva sotto la sua visuale.
La sua stanza in Villa Martinengo era da anni ormai il suo rifugio solitario. Non ricordava più l’ultima volta che uscì da quelle mura. Anni. Decenni. La scenografia di quel locale rispecchiava il fallimento della sua vita, che in passato era stata vissuta con gloria ed intensità. Un televisore. Attraverso il quale guardava solo i suoi film preferiti, e che amava. L’epopea western era per lui un mito che lo accompagnava dalla sua giovinezza. Odiava le trasmissioni di questa epoca vuote e senza senso, ed ancor di più i telegiornali forieri di notizie prefabbricate ed orrori quotidiani. Un dvd con Dustin Hoffman stava girando nel lettore, rilasciando immagini e dialoghi che il Principe però, in quel momento, non percepiva. Un letto in disordine. Uno specchio annerito dagli anni. Un armadio troppo grande per contenere i suoi miseri averi.

Un quadro. Originariamente raffigurava il volto di una donna. Il Nobile ricordava bene quando lo comprò, anni prima, a Parigi. Frequentando i “salotti bene” della capitale francese ebbe modo di conoscere molti letterati, artisti, pittori. Non doveva insistere per farsi invitare. Era ricercato da tutti. Tutti volevano il Principe nei loro convivi. Come testimonianza della propria importanza, un sigillo da apporre sui pettegolezzi mondani che come un cancro avrebbero invaso le copertine patinate delle riviste più lette. Quelle stesse persone che oggi, come fosse un lebbroso, ne hanno dimenticato il nome e non ne sopporterebbero la vicinanza.

In uno di quegli incontri conobbe un pittore assai famoso all’epoca. Quando egli fece visitare al blasonato ospite la sua galerie, questi rimase folgorato da un dipinto. La donna raffigurata assomigliava in maniera impressionante a colei che gli rubò il cuore mesi prima. Non fece nessuna obiezione sul prezzo dell’opera. La fama del pittore contribuì notevolmente alla spesa esosa. Ma il valore di quella tela andava ben al di là del mercato, per il Principe.

Quella donna fu una dannazione per lui. Lo era ancora. Quando lei sparì senza motivo e senza una spiegazione plausibile, ne cancellò il volto dalla tela. La rabbia. Ma non solo. Disse a se stesso che se veramente aveva amato quella donna, ne avrebbe comunque ricordato i suoi occhi color ghiaccio, lo sguardo timido il naso perfetto i lineamenti da Principessa.

E così fu. Gli anni passavano ma quel viso era come una fotografia impressa nella memoria. Non serviva ridipingerla. Il giorno che non l’avrebbe più immaginata... avrebbe staccato il quadro dal muro. E lo avrebbe riposto per sempre nell’angolo più buio della villa.



Osservando il parco, i ricordi gli tornavano in mente come un caleidoscopio colorato. Rivide se stesso forte e fiero che teneva al guinzaglio una pantera, frutto di un viaggio nelle foreste africane. Circondato da persone che al tempo considerava amiche ma che lo portarono lentamente alla rovina, sanguisughe pronte a suggere senza ritegno dalla linfa vitale del suo patrimonio.

Vide gli ospiti degli innumerevoli ricevimenti che spesso calpestavano quel prato ma di cui non rammentava più i nomi. Tenendo stretta tra le mani la Settimana Enigmistica gli arrivarono i ricordi del Conte Sisini, uno dei pochi amici veri e sinceri della sua esistenza. Quella rivista gli arrivava puntualmente ogni settimana da decenni, in virtù di un abbonamento vitalizio che lo stesso Conte si era permesso di regalare al Principe, in segno di affetto.

Ormai era diventato un esperto. Gli schemi di Bartezzaghi li trovava troppo semplici. Si limitava a compilare gli “incroci Obbligati normali e sillabici”, “enigmi senza schema” e le “cornici concentriche”.

Stava completando anche l’ultima edizione, ma gli sfuggiva ancora la risposta ad una definizione, che faceva si che l’incrocio obbligato fosse ancora irrisolto. “Durante la partita non fa che parlare”. Non riusciva a capire quale potesse essere la soluzione. Aveva una settimana di tempo per pensarci, fino al prossimo numero. Dove avrebbe letto, se si fosse arreso, la soluzione.
Non avrebbe mai “barato” cercando nell’enciclopedia della Villa. No, troppo orgoglioso. Preferiva la resa.

Il palazzo, che aveva ospitato svariate generazioni della sua famiglia prima di lui, era diventato da anni proprietà del Comune di Sale Marasino. Il Sindaco, insieme alla Giunta unanime, gli permisero di rimanervi alloggiato fino a che avesse avuto vita. Un omaggio ad un personaggio che era comunque un simbolo della gente di quella Comunità. Gli affidarono una persona che lo curasse. I pasti gli venivano regolarmente forniti dalla mensa scolastica. Avrebbero voluto fare di più. Ma il Principe non lo avrebbe permesso, mai.

Già. La gente. I paesani. Bistrattati quando era un potente. Pronti a soccorrerlo quando si ritrovò in rovina. Non capì mai il perchè. Avrebbe restituito segretamente il favore fino a quando lo sosteneva il respiro. Con tutti i mezzi, se pur pochi, a disposizione. Nonostante tutto, qualche amicizia riconoscente gli era ancora rimasta.

L’ultimo tassello di quel mosaico di gratitudine era costituito dal figlio di colui che un tempo era il suo fattore. Un ragazzo disoccupato che, dopo la morte del padre, cercava disperatamente lavoro per poter far sopravvivere la madre e la sorella. Il fattore fu una delle tante vittime del suo crollo finanziario. Ritrovatosi dopo anni a non avere più un’occupazione, morì di crepacuore. Il senso di colpa per il Principe era ossessionante. Fu pensando a lui che girò lo sguardo verso il lago d’Iseo.

Splendido e placido come non mai. Acque che lui non ebbe mai il coraggio di toccare. Ne era terrorizzato e di conseguenza non aveva mai imparato a nuotare. Un paradosso per un uomo che in gioventù era pronto a lanciarsi col paracadute, o ad arrampicarsi sulle vette più impervie.

Vide il ragazzo. Sapeva che arrivava in paese con il primo traghetto della giornata, dopo la ricerca di occupazione in città. Ogni giorno.

Si. Ce l’aveva fatta. Al posto dei soliti jeans sdruciti e della t-shirt improponibile, indossava una divisa. Non ricordava il nome della catena commerciale. Ma il sorriso radioso del ragazzo non lasciava adito a dubbi. Sorriso che cercava di scorgere il Principe dietro le finestre della Villa, come per ringraziarlo, quasi sapesse in cuor suo, chi ringraziare.

Si. L’ultima promessa è stata assolta. Ma avrebbe voluto offrirgli di più.
“Oggi è un bel giorno per morire”... il Principe si voltò. La Tv. Il film. Il pellerossa stava parlando a suo nipote. Sorrise. Guardò per l’ennesima volta il quadro.

Non riusciva più a immaginarla. Come se un velo nero e buio si fosse avvolto sull’unico ricordo bello della sua vita. Rimase a lungo a fissare il quadro. Per la prima volta vedeva la tela per quella che era. Staccò il dipinto con delicatezza dalla parete. Lo accarezzò. Lo ripose nell’armadio.

Prese il cappello. Il bastone. Appoggiò la settimana enigmistica sulla poltrona, con il suo cruciverba che non si sarebbe mai completato.

Il pontiletto sul lago lo stava aspettando.


Si. Oggi è proprio un bel giorno per morire.


Questo post rappresenta un "gioco" tra amici che, partendo da 6 parole a caso (offerte questa volta da MalenaRM e che sono: un/una disoccupato; un/una nobile decaduta, un cruciverba irrisolto, una donna senza volto, un lago, un quadro di valore), sviluppano e raccontano una storia.
Partecipano al "gioco" oltre a me: Apocalixx, Backtothefuture, Bikiko1, Clarissa Dalloway, Dealma, Elazar, MalenaRM, MorganaMagoo, Pollastro.MI, Rivo.luzione.
E forse altri.



Semper Fidelis
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di Odirke, data di prima pubblicazione: 01 febbraio 2013 ore 00.34 La giornata primaverile, illuminata dal primo sole del mattino, prometteva alla fauna ed agli abitanti di quel luogo un tepore rassicurante. Il Principe decaduto aspettava, seduto sulla sua vecchia poltrona di pelle, che i raggi...
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02/03/2016 13:04:03
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Il "mio" Vespucci - In memoria di Alessandro (8)

20 febbraio 2015 ore 06:12 segnala


Nonostante il periodo estivo, l’avvicinarci al Nord europa non ci risparmiava dal clima nordico, spesso capriccioso e soprattutto uggioso.
La vita di bordo proseguiva comunque senza soste, a dispetto di Giove Pluvio.
I turni di navigazione in plancia scorrevano tranquilli, avevo preso ancor più dimestichezza con il timone e con tutte le operazioni previste per assicurare una rotta tranquilla. L’unica cosa che non mi era consentita era “l’assaggio”.

Uno degli Ufficiali di Navigazione era il Sig. Pasqualoni di Orvieto. Un Sottotenente di Vascello giovane e, fra tutti gli Ufficiali, quello che aveva uno spirito cameratesco molto più spiccato verso noi marinai piuttosto che verso i suoi colleghi. Un amico. Il destino mi avrebbe fatto incontrare, due anni più tardi, suo padre. Uno dei miei primi comandanti su quelle che sarebbero diventate il “leif-motiv” della mia vita, le petroliere. Pasqualoni era una bravissima persona, ma tanto gentile quanto pavido. Così come suo padre. Non ho mai capito negli anni cosa li avesse spinti a scegliere quel mestiere.

L’assaggio era una “cerimonia”. Prima dell’ora di pranzo, il responsabile di cucina inviava un cameriere che saliva in plancia con un vassoio contenente una parte di tutte le portate che sarebbero state propinate all’equipaggio in quel giorno e che doveva avere la “benedizione” dell’Ufficiale di Guardia in quel momento. In quell’atto Pasqualoni era uno spasso. Afferrava la forchetta con indice e pollice... alzava il dito mignolo come fosse un pennone... e con aria fintamente “schifata” assaggiava le varie pietanze guardando il malcapitato cameriere. Al termine dell’assaggio avveniva l’immancabile scena da aereo, in cui, da attore consumato, simulava di vomitare in un sacchetto appositamente portatosi appresso allo scopo. La faccia terrorizzata del cameriere (che non era mai lo stesso) ci ripagava di quello scherzo che finiva in un’enorme risata da parte di tutti...

ZEEBRUGGE (19/26 luglio)

Bum.... Bum.... Bum.... 42 salve di cannone salutarono il nostro ingresso nel porto belga, sbocco a mare di quella splendida città immersa nel cuore delle Fiandre, Bruges.

Li era prevista la sosta in porto più lunga di quelle programmate per la Crociera. Espletato il mio compito obbligatorio (la raccolta della posta in Consolato, dove notai che il sacco contenente le missive era “cresciuto”), io Ciro, Damiano, e altri ci prendemmo la libera uscita. Ci incamminammo verso la stazione, decisi a prendere il treno che ci avrebbe portato a Bruges. Dopo le soste obbligate in una pasticceria, un bar, un edicola, un negozio di souvenir arrivammo alla biglietteria. Feci per pagare il mio “ticket” quando, con sgomento, mi accorsi di non avere più il portafogli. Me lo avevano rubato ? Proprio li ? Non ci credevo. Insieme ai miei compagni, tornammo a ritroso cercando, con l’aiuto della memoria, di ripercorrere gli stessi passi fatti per arrivare in stazione. “Dove l’hai usato l’ultima volta ?” continuavano a chiedermi. Ma avevo un blocco mentale. Non ricordavo. Avevo già perso le speranze di ritrovarlo, quando entrammo nel primo negozio visitato dopo essere scesi dalla nave. La pasticceria.
C’erano ancora le due commesse che ci avevano servito, due ragazze veramente carine, e una in particolare che mi piaceva per il suo modo di guardarmi e per il suo sorriso. Ci accolsero con una risata. “Hey Sailor... You’ve lost this ?” mi disse quella che mi garbava di più, porgendomi l’oggetto perduto. Il mio portafogli. Lo avevo dimenticato li, dopo aver comprato un dolce locale. La memoria riapparve di colpo. Sollevato, controllai velocemente che ci fossero tutti i franchi che sapevo di avere... e poi, soddisfatto, la ringraziai in fretta, promettendole che sarei tornato, ma avevamo un treno che ci aspettava.

Sulla carrozza che ci portava a destinazione, mi venne l’istinto di prendere nuovamente il portafogli. C’era qualcosa nella risata delle ragazze (e nelle parole in fiammingo che si scambiarono e che naturalmente non compresi) a cui non riuscivo a dare un nesso logico al contesto.
I soldi c’erano... il documento pure... la foto di mio padre.... Ecco. Mancava qualcosa. Il profilattico.
E già. La Marina, per i suoi figli, oltre che a moneta e sigarette, provvedeva anche alla sua salute. Mai e poi mai un soldato dell’Italico Popolo sarebbe dovuto incorrere nel disonore di una malattia venerea. Io lo presi (il preservativo) solo perchè era mio dovere, ma ero convinto che sarebbe invecchiato come whisky pregiato nel mio logoro taccuino di pelle.
Ora al suo posto c’era un biglietto. Vi stava scritto Il nome di una discoteca di Bruges, un orario, le 23.00 e un nome. Sophie.
Bè... cominciavo a pensare che il detto “marinai, una donna in ogni porto” avesse qualche fondamento. Ma il merito era sicuramente della divisa.

Visitammo la città, e me ne innamorai subito. Cattedrali, edifici, i canali... tutto riportava indietro negli anni d’oro di quel popolo laborioso.
Io feci finta di dimenticarmene, ma Ciro e Damiano no. Mi portarono a forza in quella discoteca indicataci nel biglietto. Erano solo le 9 di sera obiettai, ma senza successo.

All’interno del locale fummo accolti con un’espansività a cui non eravamo abituati. C’erano già altri commilitoni ma, insieme a loro, una quantità incredibile di ragazze. Un paradiso. C’era solo l’imbarazzo della scelta. Ma non per noi. Per loro.

Fui letteralmente “abbordato” prima da Annemarte, graziosa biondina che però alle 10 vedeva scattare il coprifuoco familiare e dovette tornare a casa non senza dimostrarmi il suo “affetto” e lasciarmi il suo indirizzo.
Le dette il cambio, quasi immediatamente dopo, Juultje. Il DJ per enfatizzare la nostra presenza mise sul piatto il disco di Toto Cutugno “Sono un italiano vero” e quello fu un momento veramente imbarazzante. Mi sentivo letteralmente frastornato.

Ero ancora abbracciato a quest’ultima, quando mi si avvicina con un atteggiamento non proprio amichevole un ragazzo atletico e molto più alto di me. Puzzava d’alcool in maniera bestiale. Mi gridò parole incomprensibili. Mi alzai guardandolo negli occhi ma soprattutto guardando la bottiglia di vodka che teneva in mano a mò di martello, e come d’incanto mi trovai accanto quasi tutti i commilitoni presenti e che si erano accorti della scena.

Alla vista delle divise, l’esagitato sembrò calmarsi un pò. Juultje si mise di mezzo e mi spiegò, in inglese e con aria molto seccata, che l’ubriacone era un tenente della Regia Marina del Belgio convinto pure di essere il suo fidanzato. Ci mancava solo quello. La ragazza sembrava volesse fulminare con gli occhi il suo connazionale. Che prese a parlare inglese, finalmente. Mi spiegò che avrebbe fatto rapporto al mio Comando sul mio comportamento “riprovevole”.

Io, eh.
Mi chiese nome, cognome, grado e posizione. I miei compagni fremevano, soprattutto Mario detto la “bestia”, un nocchiere di 140 kg per 190 cm di origine cagliaritana, e avrebbero voluto chiudere la partita subito, convocando il “Signore” oltretutto in borghese fuori dal locale. Nessuno poteva permettersi di “toccare” il loro postino.

Li calmai. Non c’è problemi, dissi. Mi rivolsi al tenente: “ha da scrivere, Signore ?”. Come d’incanto prese bloc notes e penna. “Allora, segni. Scusi ma il documento è rimasto a bordo, ma mi chiamo Galileo Galilei, sottocapo elettricista come può vedere dalla categoria sulla spalla (quella di radarista aveva per simbolo qualcosa che assomigliava ad un fulmine), Nave Vespucci, come può vedere dal cappello”. Il tenente sorrise soddisfatto e, tronfio, mi confermò che avrebbe spedito il suo rapporto al mio Comando di Bordo.

Io speravo che nessuno dei miei connazionali si tradisse, e li guardavo di sottecchi. Ma fortunatamente stettero al gioco, soffocando una risata che sarebbe comunque esplosa nelle settimane successive durante le lunghe notti in navigazione, al racconto del “Tenente Belga, vuole un nome ? se lo scelga”.

Confidavo che, passata la sbornia, si sarebbe dimenticato tutto.

Juultje convinse ad uscire dalla discoteca quel poveraccio e lo accompagnò a casa, presumo, promettendomi che sarebbe tornata a breve. Ma nel frattempo era arrivata Sophie. Che si era goduta la scena ed aveva ancora le lacrime agli occhi per le risate. Mi abbracciò forte. Mi prese per mano... e mi portò fuori dal locale. Il bacio che seguì prometteva incanti.... Non rividi più Juultje. Non volevo rischiare che sortissero fuori altri pretendenti e per giunta ubriachi.

Tornando a bordo da solo, era ormai molto tardi, trovai per la strada Ciro di cui avevo perso le tracce nelle ultime ore. Lo vidi con lo sguardo perso nel vuoto. “Ciro, che hai ? ”. Mi preoccupai. Lui era napoletano dei Quartieri Spagnoli, un ragazzo secco secco e spilungone. Tanto alto quanto brutto. La sua risposta fu un suono incomprensibile di puro slang partenopeo. “Eh ? che hai detto ? ”. Andammo avanti così per 10 minuti. Fin quando mi guardò dritto negli occhi e, con un sorriso da beato angelico, mi disse in un italiano perfetto... “Ho fatto l’amore ! Per la prima volta in vita mia, ho fatto l’amore !”. La risata mi venne spontanea e genuina. Gli misi un braccio al collo e gli detti una pacca sulla spalla che quasi gli volava via il berretto. Qualcuno, a bordo, si sarebbe ricreduto sulla vita sessuale di Ciro.

Nonostante le poche ore di sonno, mi alzai presto. Volevo vedere Sophie. Avviandomi alla sua pasticceria passai davanti ad un’edicola. Detti uno sguardo distratto ai titoli esposti. Il fiammingo per me era incomprensibile. Feci due passi forse. Poi tornai indietro con il cuore in gola. C’era la foto in prima pagina di una devastazione. Tante parole che non capivo. Ma “Italia – Trento – 250 dood” era scritto a caratteri cubitali. Dood. In tedesco Tot. In Inglese dead. Morti. Il pensiero volò a mio padre.

Mi precipitai nella prima cabina telefonica che trovai. Grazie a Dio avevo delle monetine. Composi il numero di casa con la preghiera che lui rispondesse. Nessuna risposta. Cos’era successo ? Angosciato provai a chiamare il suo ufficio. Mi rispose dopo 8 interminabili squilli. Sentire la sua voce fu come rinascere. E mi raccontò quello che ancora oggi viene considerata una delle più grandi tragedie in terra trentina. Il disastro di Stava.

Mi rividi con Sophie tutti i giorni. Era una ragazza dolcissima. Invitai a bordo lei, sua madre e la sorellina per far visitare loro la nave. Mi consideravano della famiglia ormai.

Intanto Nocchieri e Allievi si addestravano per quello che sarebbe stato un evento memorabile nel porto successivo.



Ma arrivò il giorno della partenza. Sophie, quella mattina, mi portò nella spiaggia poco distante. Sabbia e dune a perdita d’occhio. Fu un’ora indimenticabile. Anche perchè, ma me ne accorsi solo a cose fatte, eravamo in piena vista della passeggiata litoranea, sotto gli occhi di parecchie famiglie che passavano il tempo a camminare in quell’area meravigliosa. L’imbarazzo mi accompagnò per parecchie settimane.

Il suo pianto, invece... no, non me lo dimenticherò mai.

Eravamo già quasi pronti a salpare. Lo sguardo di tutti, a bordo, fu rapito da una splendida Cadillac decapottabile che parcheggiò vicino alla scala. Alla guida c’era un nostro commilitone, e lo stupore continuò nel vedere le due splendide donne che vi erano sedute. Venimmo a sapere in seguito che il Nocchiere (effettivamente un bel ragazzo che avrebbe trovato posto in qualsiasi passerella di moda ) s’era innamorato (e felicemente contraccambiato) della splendida figlia di una facoltosa (e bellissima anch’essa) donna del luogo. Leggende marinare narrano che il commilitone, a fine Crociera, chiese il congedo e si stabilì nelle terre fiamminghe. Glielo augurammo tutti di cuore (e con un pizzico di invidia salmastra).

Era tutto pronto. In plancia c’eravamo tutti, compreso il Comandante che doveva dirigere la manovra.

Stavo osservando la carta nautica, e Defranceschi mi si avvicinò, serio, porgendomi un fascicolo. “Ne sa niente di questa roba ? ”, disse. Notai lo stemma della Reale Marina del Belgio. Allora quell’ubriacone l’ha fatto sul serio. Arrossii come un’aragosta. Stavo già cercando le scuse più improbabili, quando il Comandante scoppiò in una risata.

“Galileo, la prossima volta magari, dì che sei Cristoforo Colombo. Almeno risulti più credibile”. Sempre col sorriso sulle labbra si voltò e comandò al timoniere... “Tutto a dritta, rotta 020 e via così ! ”....

(continua)




*



Questo è l'ultimo frammento rimasto, ancora non ripubblicato, e che fa da unione tra i precedenti - dalla puntata 3 alla puntata 7 - salvati qui da me, e gli altri, dalla puntata 9 in poi, ancora esistenti nel blog di Odirke. La prima e la seconda puntata non sono più rintracciabili nel web. Buona lettura e ricordatevi di seguire il blog di Odirke.
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« immagine » Nonostante il periodo estivo, l’avvicinarci al Nord europa non ci risparmiava dal clima nordico, spesso capriccioso e soprattutto uggioso. La vita di bordo proseguiva comunque senza soste, a dispetto di Giove Pluvio. I turni di navigazione in plancia scorrevano tranquilli, avevo pres...
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Il "mio" Vespucci - In memoria di Alessandro (7)

27 gennaio 2015 ore 09:30 segnala


O.Dirke 01 ottobre 2012 ore 22:56
I PREPARATIVI (7/28 giugno)

Dall’arrivo a La Spezia, di ritorno da quella che era stata definita pre-crociera, fino alla partenza da Livorno fu un susseguirsi di preparativi febbrili e di “maquillage” navale per far risplendere nuovamente la nostra “Signora dei mari”.

Ci fu anche il tempo, a turno e per ognuno di noi, di concederci qualche giorno di licenza. Tornare a casa dopo due mesi, fu uno stacco necessario. Questa volta non tornai a bordo con il “Ferrari”. Il Comandante Sauro aveva terminato il suo periodo di distaccamento, e fu trasferito a Roma, al Ministero. Mi dispiacque molto. Oltre che un ottimo Ufficiale ed un gentiluomo, sentivo di aver perso un amico. Al suo posto il Capitano di Fregata Spinato. Che era, caratterialmente e professionalmente, all’estremo opposto del suo predecessore. Purtroppo.

Mi arrivarono anche i gradi di “Sottocapo” che in termini di “terra” equivale a “Caporalmaggiore”. Era la prassi, se non ci si metteva nei guai. A 4 mesi sottocapo, ai 12 sarebbero arrivati quelli da sergente. Con la cospicua crescita del salario.

Il trasferimento dalla città ligure a quella labronica si svolse senza sussulti. Poche ore di navigazione, una giornata di sosta all’ancora e poi, in porto.


Appena ormeggiati salirono a bordo, in una lunga processione, gli Allievi Primo Anno dell’Accademia Navale cioè coloro i quali sarebbero diventati, un giorno, gli Ufficiali della Marina Militare. Loro, più gli insegnanti preposti al loro addestramento, fecero sì che l’equipaggio da 270 unità salisse ad oltre 400.

Per me Livorno rappresentava un ritorno e ritrovai i vecchi compagni di scuola ed amici. Luoghi a me ormai familiari e che mi sarebbero entrati nel cuore sempre di più, negli anni successivi.

Alla vigilia della partenza si avvicinò a me Capo Benelli. Era il responsabile dei “segnalatori”, cioè il personale addetto alla guardia in navigazione e che imparai a conoscere durante le oltre tremila miglia di cammino percorse il mese precedente. Adoravo il Maresciallo. Di una simpatia unica quando faceva l’ottima imitazione di Enzo Braschi versione “paninaro”. Sapeva come tenere alto il morale ed allo stesso tempo riusciva a far capire a noialtri le cose che non andavano, con serietà e nessuno strepito militaresco. Una dote rara. “Senti Paolo, che ne dici di unirti alla nostra squadra ? Te sei diplomato al nautico e l’esperienza ti potrebbe servire. Oltretutto ne sai più degli altri che non hanno fatto la tua scuola. Così sareste in quattro a dividervi i turni. Invece che 4 ore di guardia e 8 di riposo ne fareste 4 e 12 . Che dici ce la dai una mano ?” . E serviva chiederlo ? “Certo Capo, ma scherza peddavvero ! Ma il Capo Servizio Edoardo sarà d’accordo ?”. Lui mi rispose allargando il sorriso “Bè.. a dir la verità l’idea è stata sua...”.

A Livorno c’è un termine volgare ma che ben illustra e sintetizza un concetto. “Far da potta e da culo”.

Dovevo occuparmi del radar, della segreteria, della posta e, ora, delle rotte. Con i turni di guardia a scalare, avrei dovuto passare anche qualche notte in plancia. Ma non mi importava. Se il significato del lemma precedente ad un livornese ricorda fastidio o disappunto, a me non creava nessun disagio. Anzi.

Arrivò il giorno.

Un abbraccio a mio padre (che non si sarebbe perso la partenza per nulla al mondo) e salii a bordo. Sotto gli occhi di centinaia tra parenti ed amici con le mani tese a salutare ognuno di loro il proprio caro, mollammo gli ormeggi. La giornata era stupenda. Calda. Buon presagio per i giorni a venire.

NAVIGAZIONE (28 giugno / 7 luglio) – 1173 miglia.



Giornate senza vento e piene di afa. Le attività quotidiane procedevano come da tabella e senza sosta. Mi dividevo tra plancia, segreteria e coperta.
I primi frutti della promozione a sottocapo furono subito evidenti il primo giorno di navigazione. Ogni mattina mi veniva affidato un manipolo di sei allievi dell’Accademia che dovevo dirigere e sorvegliare nella pulizia degli ottoni di bordo. Io potevo stare a guardarli, ma non succedeva mai. Lavoravo con loro, nonostante le occhiatacce di disapprovazione di Spinato. Erano ragazzi come me, dopotutto, ed impauriti da quel grado ridicolo che portavo. In più erano sottoposti ad una mole di studio e lavoro che lasciava loro davvero poche ore al giorno di riposo. Gli Allievi al mio “comando” mi presero subito in simpatia, tanto che mi fecero provare la mitica “amaca”. Si, loro non dormivano su comode (si fa per dire) brande. Ma su quegli aggeggi infernali che dovevano montare, rismontare e riporre tutti i santi giorni.
Non fu un’esperienza felice. Montai a ponente e venni catapultato per terra a levante in un sol batter di ciglia. Gli Allievi si permisero di ridere solo dopo la mia battuta irripetibile ed il mio sorriso. Alla fine però, caparbiamente ci riuscii. Non ripetei mai più l’esperimento.

I nocchieri sono abilissimi con il sartiame, cime, vele. Mi hanno insegnato loro a fare una serie di nodi che a scuola ci avevano fatto osservare solo sui libri di testo. Gasse, parlati, savoia, nodo bandiera... facile a vederli fare, ma complessi da attuare.
Tutti i giorni chiedevo al Nostromo, Capo Garuti, se mi poteva concedere il permesso di salire sull’albero di Maestra, insieme a loro. Durante il periodo scolastico, nel corso di una gita organizzata, ebbi la possibilità di arrampicarmi sul “Brigantino”, in Accademia Navale. Sensazione bellissima. Ma il Brigantino è l’imitazione di un albero da veliero piantato sulla terraferma.
Niente a che vedere con un “palo” di oltre 30 metri in movimento sotto il costante rollìo del mare. E come tutti i giorni il Nostromo si girava, mi guardava, e serio mi diceva “Non dire puttanate, postino. No” . Recitata la solita frase si girava con il volto proteso verso l’alto a guardare i “suoi” Nocchieri ed Allievi darsi da fare sui pennoni per poi prenderli a colpi di “coglionazzi” ad ogni manovra non perfettamente riuscita. Pazienza.
Giurai a me stesso che, comunque, prima di sbarcare da quella nave lo avrei fatto a discapito di tutti gli ordini e dei Nostromi.
Sperimentai ulteriormente l’abilità dei Nocchieri un pomeriggio più caldo del solito. Ero smontato di guardia alle due. La stanchezza era tale ed il vento relativo creato dalla nave così invitante, che invece di andare a dormire nel mio alloggio (dove l’aria condizionata non esisteva) mi sdraiai come molti altri sul castello di prua, sotto la plancia, all’aperto. Mi addormentai subito. Tanta umanità intenta a godersi il sole faceva sembrare quel posto uno dei tanti “lidi” che costellano le nostre coste.

Fui svegliato da una scarica d’acqua in viso incredibile. Mi alzai di soprassalto pronto a “ringraziare” l’autore di quel gavettone. Ma non c’era nessuno. Solo io ed un altra decina di marinai che si guardavano intorno con il volto sciacquato. Poi capii.

I nocchieri, in accordo con alcuni colleghi che fingevano di dormire al “lido”, ebbero il tempo di tessere una fitta trama di cime intrecciate a pochi centimetri sopra le nostre teste. In prossimità di ognuno dei nostri visi, invece, vi era legata una bottiglia. Non mi ero accorto di nulla. Nè io nè gli altri. Tutta la rete di cime faceva capo ad un cavetto di manilla che arrivava fin sul ponte di comando, in plancia. E’ bastato uno strattone (di chi non l’avremmo mai saputo) per far capovolgere i recipienti e versare il contenuto direttamente sui nostri occhi.

Un capolavoro. Non potei fare a meno di sorridere. Era il definitivo “benvenuto” a bordo, riservato alle reclute. Ed il dazio da pagare per chi passava, per la prima volta, lo Stretto di Gibilterra.

LISBONA (7/10 luglio)



Al nostro ingresso nel porto lusitano, salutammo i nostri Ospiti con 21 colpi di cannone a salve. Mi spiegarono che era l'etichetta. Se la Nazione ospitante fosse stata anche sotto Monarchia, le salve sarebbero state 42. 21 Al Paese, 21 al Re/Regina. Vedere il nostro "cannoncino" che mi ricordava l'arpionatrice di Capitan Achab, faceva quasi tenerezza.

Fu, in un certo senso, anch’esso un ritorno. Avevo conosciuto la capitale lusitana solo qualche anno prima, in una memorabile vacanza in quelle terre con mio padre.
Conoscevo già il Fado. La Torre di Belem e quell’aurea di tristezza che sembra avvolgere quella gente. Un pò come me, ora.

Prima di scendere a terra, a tutto l’equipaggio fu elargito l’”aggio”. Era una somma, in valuta locale, che veniva “regalata” ad ogni persona imbarcata (ma solo all’estero), in proporzione al grado ed ai giorni di permanenza in porto. Non era un granchè, ma permetteva di telefonare a casa e comprare qualche souvenir, quanto meno. Aggio che, sommato ai pacchetti di sigarette anch’essi spettanti gratuitamente, consentivano di non intaccare il misero (almeno il mio) salario.

Dopo aver espletato il servizio di posta all’Ambasciata italiana (la posta ricevuta non era molta, solo un minuscolo sacco di iuta) toccò la classica “comandata” che mi portò proprio a vedere quella torre, simbolo della città ed il Museo della Marina.



Il giorno successivo, l’ultimo a disposizione vista la breve sosta, portai alcuni amici con me a vedere Cascais. E’ il paesino (famoso per l’esilio dell’ultimo dei Savoia) alle porte della capitale, sull’Atlantico, che io e mio padre non avemmo il tempo di vedere in quella vacanza. Avrei colmato la lacuna. Una volta arrivati li, l’intenzione di vedere la casa dell’Umberto nostrano c’era. Ma conobbi Angelique. Di nome e di fatto. Una bellissima ragazza bionda, di Amsterdam. Il tempo volava ed era poco. Pari alla sua bellezza era solo la sua chiacchera. Non si fermava mai.

Non sapevo che scusa trovare per poter raggiungere i miei commilitoni che, con rispetto ed eleganza, mi abbandonarono a quella visione nordica (non senza un beneaugurante “tieni alto il nome della bandiera” e “scusaci ma non sappiamo l’inglese”) per raggiungere un pub. Mi venne in aiuto la madre di lei, che portò via la figlia con la scusa di non so quale appuntamento. Ero sollevato.

Al pub, dopo aver “ringraziato” gli amici ed aver raccontato loro una serie di frottole stile “playboy” (la loro invidia, che feci durare per qualche ora, mi appagò per la vendetta), facemmo conoscenza con un gruppo di marinai inglesi, imbarcati sulla loro Fregata ed anch’essi ormeggiati a Lisbona. Il ricordo doloroso dell’Heysel era ancora presente in tutti noi, ma non fu motivo di ulteriore scontro. Anzi. Ci offrirono un primo giro di ottimo Porto con la scusa di brindare all’Amerigo Vespucci.
(Io, che ero e sono astemio, ricordavo ancora la “madre di tutte le sbornie” di cui fui vittima anni addietro durante la mia permanenza ai Salesiani. Alcuni Testimoni di Geova avevano sparso la voce, poi rivelatasi falsa e tendenziosa, dell’imminente fine del mondo. E io, insieme ad altri idioti come me sedicenni, dopo un’accurata spesa alla Coop di Martini, Vodka e Vino, cogliemmo la “palla al balzo” per darci dentro. Un mix micidiale che, al sottoscritto, fece più danni di un uragano livello 5).
Ero quindi titubante.
Ma non potevo rifiutarmi. Avevo paura di offenderli. Purtroppo sottovalutai anche la loro resistenza all’alcool e, soprattutto, la loro generosità. I brindisi seguenti furono dedicati alla Regina, al Liverpool, alla Juventus, alla nazionale italiana ancora campione del mondo.... via e via fino all’ultimo cugino di terzo grado della Famiglia Reale Britannica ed all’ultimo raccattapalle dello stadio della Nocerina F.C.

Persi il conto di quanti “giri” furono offerti intorno a quel tavolino vista atlantico. La “fregatura” fu che quel liquore scendeva proprio bene e, al momento, non dava fastidio.

A mezzanotte fui riportato a bordo dai miei colleghi. Mi tenni aggrappato alle loro spalle per tutto il tragitto in treno da Cascais a Lisbona e per il tratto a piedi dalla stazione al bordo.

Il sergente, al corpo di guardia, ci accolse con un sorriso. Chissà in tutti i suoi anni di carriera quanti ne aveva viste di reclute nelle mie condizioni. Si raccomandò ai miei “accompagnatori” di portarmi direttamente in branda, senza farsi vedere dall’Ufficiale di Ispezione. Potevo rischiare l’arresto. E poi si rivolse a me... “e tu smettila, sottocapo, sveglierai tutti !”

Si. Erano ore ormai che stavo intonando le note di “God save the Queen” con il sorriso più ebete che mai possano aver visto in Portogallo....

Prima di addormentarmi, guardando i tubi a pochi pollici dal mio viso e "vederli" ballare il rock'n roll, mi ripromisi di aggiornare la classifica di "madre di tutte le sbornie"....

(continua)

NON CHI COMINCIA MA QUEL CHE PERSEVERA

Semper Fidelis
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« immagine » O.Dirke 01 ottobre 2012 ore 22:56 I PREPARATIVI (7/28 giugno) Dall’arrivo a La Spezia, di ritorno da quella che era stata definita pre-crociera, fino alla partenza da Livorno fu un susseguirsi di preparativi febbrili e di “maquillage” navale per far risplendere nuovamente la nostra ...
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BENTORNATO !

08 gennaio 2013 ore 10:05 segnala


Ieri finalmente abbiamo avuto l'enorme piacere di ritrovare il nostro amico Paolo in Chatta! La maggior parte di voi se ne sarà già accorta, comunque è bene avvertire anche chi non lo ha ancora saputo. Ha aperto il suo nuovo blog al quale già stanno accorrendo tutte le persone che lo avevano in grande stima e gli auguriamo tanta nuova strada da percorrere insieme a noi. Ragion per cui qui, nel blog a lui dedicato e che funge da piccola libreria delle sue vecchie cose, finirò per mettere soltanto i post della serie de "Il mio Vespucci", lasciando a lui il proseguimento nel suo spazio per qualsiasi altra cosa, vecchia o nuova, vorrà regalarci. Non mancate di andare a trovarlo!

http://blog.chatta.it/odirke/default.aspx
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« immagine » Ieri finalmente abbiamo avuto l'enorme piacere di ritrovare il nostro amico Paolo in Chatta! La maggior parte di voi se ne sarà già accorta, comunque è bene avvertire anche chi non lo ha ancora saputo. Ha aperto il suo nuovo blog al quale già stanno accorrendo tutte le persone che lo...
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IL "MIO" VESPUCCI - In memoria di Alessandro (6)

03 gennaio 2013 ore 12:12 segnala


O.Dirke 24 settembre 2012 ore 23:15
NAVIGAZIONE (2/3 maggio) – 60 miglia.

RAVENNA (3/6 maggio)

La navigazione da Venezia a Ravenna fu brevissima. Nemmeno il tempo di rassettare i cavi che già dovevano essere preparati per la manovra di ormeggio.

Avevo già cominciato ad imparare nel capoluogo veneto che, dove attracca la Amerigo Vespucci, il porto che la ospitava ne avrebbe onorato la presenza con eventi più o meno importanti.

La città romagnola organizzò una serie di manifestazioni che avrebbero dato lustro alla nave ed al suo equipaggio. Una di queste era la serata in onore di un Ammiraglio in pensione del luogo, da svolgersi in una discoteca con la presenza dell’orchestra del famoso Raul Casadei. Venne proprio lui di persona a bordo, attorniato da una serie di donne bellissime, a lanciare l’invito per noi marinai.

Cosa sono le “comandate” ? Si potrebbero definire come gruppi di lavoro o di rappresentanza che venivano formati da parte dell’equipaggio (numero e “gradi” a seconda dell’evento) scelti a dovere da ogni caposervizio. Si poteva essere “nominati” per la comandata atta a caricare le provviste a bordo, oppure per quella preposta a rappresentare la nave in un evento mondano. Quella sera dovevano essere scelti i marinai (30) da mandare alla festa in onore dell’insigne Ufficiale in pensione. Discoteca. Ne ero e ne sono allergico.

Quando ci radunarono tutti, allineati e coperti, cominciò l’appello dei nomi dei “volontari”. Mi rividi anni dopo in quella scena del film di Fantozzi. “Cazzo, siamo più di cento, vuoi che chiamino proprio me ?” pensavo....

“Radarista PAOLO!!” gridò invece l’Ufficiale. Come non detto...

La serata non fu l’incubo che pensai. Anzi. Mi divertii parecchio. Casadei sapeva come intrattenere un pubblico, e la sua musica trasmetteva allegria contagiosa. I balli tipici di quelle terre furono uno spettacolo, con le fruste in mano ad avvenenti signorine dalla perizia encomiabile che le facevano fluttuare sopra le nostre teste con sibili minacciosi. Gli “avventori”, data la serata di gala, erano per lo più donne e uomini che potevano essere i nostri genitori. E noi tutti venivamo trattati proprio come dei figli.
Una signora, avvolta in un elegantissimo tailleur nero, mi rapì per un valzer. “Signora guardi che a ballare sono proprio una frana ! Non le conviene” esclamai rosso d’imbarazzo.... “Mo vieni che è fazilissimo, lasciati portare bel burdel !”.
Ballai quel valzer pestandole i piedi solo due o tre volte... Alla fine la ringraziai, e lei mi salutò con uno splendido sorriso ed un abbraccio... “mo lo vedi che non era così difizile ?”. Già... ma per me il ballo è e rimarrà sempre un mistero...

Finita la sosta prevista, ripartimmo. Per qualche miglio ci affiancò in navigazione quella splendida barca che era “Azzurra”, reduce dalle glorie di Coppa America. Al suo timone c’era Cino Ricci, originario di quei posti. Ricordo l’incredibile velocità che riusciva a raggiungere pur in apparente assenza, o quasi, di vento. Salutammo lo skipper con prolungati suoni di sirena.... il nostro viaggio continuava.


NAVIGAZIONE (6/8 maggio) – 287 miglia.

E io intanto imparavo... osservavo... miglioravo me stesso....

BARI (8/11 maggio)

Non ricordo quasi nulla di quella sosta. A parte la processione in mare per il Patrono. S.Nicola. Osservarla da bordo è stato uno spettacolo davvero suggestivo.

NAVIGAZIONE (11/18 maggio) – 850 miglia.

Sette giorni di navigazione... lavoro, esercitazioni, lavoro... ma ricordo anche quei cinque minuti strappati quotidianamente al “dovere” per potermi fumare finalmente una sigaretta.... sublimi attimi di pace con se stessi ed il mare...


CANNES (18/22 maggio)

Il primo porto all’estero. E la presenza della nave più bella del mondo non casuale...
Era in pieno svolgimento il Festival del Cinema. Come arrivammo alla fonda, fummo assaliti da una serie impressionante di attori, registi, produttori, comparse, leccapiedi... e soprattutto superbia. Ormai conoscevo il Comandante Defranceschi. Dietro al suo sorriso nel salutare quella massa, si nascondeva un disprezzo tutto militare, e perchè no, umano.
Di tanti visi noti mi è rimasto impresso solo quello di Virna Lisi. Era davvero bella. E la mole impressionante di Bud Spencer. Sembrava fosse la custodia di sette marinai messi insieme. E di un’affabilità incredibile. Mai snob. L’amico che vorresti avere per vicino di casa.

Il giorno seguente all’arrivo ci sarebbero stati due eventi importanti. La serata conclusiva del Festival ed il Gran Premio di Montecarlo. Due “comandate”. Un gruppo a vedere i bolidi di Formula 1, l’altro a fare da picchetto di onore all’ingresso del palazzo del cinema. Tra i due, secondo voi, dove sono stato mandato ?


Due file di marinai ai due lati del tappeto. Quattro ore sull’attenti. Un male ai piedi allucinante. E per finire la serata in gloria, una troupe televisiva locale che mi piazza il microfono davanti al muso chiedendomi in francese (un mio compagno di sventura tradusse per me) cosa ne pensassi di Claude Lelouch. “Sonasega chi è Lelush” gli risposi nel peggior slang labronico. L’intervistatore non la prese bene. Il suo “Cochon” e “Cambronne” non ebbero bisogno di traduzione.
Sentire poi la sera il racconto dei miei compagni di reparto su come sia stato fantastico vedere la gara dalla terrazza di un Hotel, vista curva Tabaccaio, non faceva altro che farmi cogliere da istinti omicidi.

Rimanemmo altri due giorni in Costa Azzurra. Li capii quanto valesse avere una divisa, all’estero. Il fascino della Vespucci mi permise di conoscere molte ragazze. Cosa che in Italia difficilmente riusciva. Anita e Marie di Bastia. Sarah di Cannes. Le ricordo tutte. Simpaticissime. Aperte. Ricordo di essere rimasto in corrispondenza con loro per anni. Ma, ahimè, chi ci superava in “fascino” erano i molti signori che guidavano per le strade della Croisette varie, Ferrari, Maserati, Bugatti, Rolls...
Damiano, il sergente radiotelegrafista, con cui allacciai un’amicizia vera che ancor oggi resiste, osservando il passaggio di una ferrari gialla alla guida di un ragazzo della nostra età e che scarrozzava sei, dico sei, bionde mozzafiato esclamò, in quel sublime dialetto gaetano... “Secondo me dev’essere la sua cravatta. Gli devo chiedere dove l’ha comprata..”. Penso che smisi di ridere solo dopo mezz’ora...

NAVIGAZIONE (22/24 maggio) – 231 miglia.

Immagini nella mente, indelebili. Partimmo da Cannes con un discreto vento di Maestrale il quale aumentava via via che ci allontanavamo dalla costa. A bordo viaggiavano ospiti 3 giornalisti che dovevano effettuare un servizio per non so quale rivista.
Un vento in poppa così non s’era ancora visto da quando eravamo partiti, da La Spezia. Al Comandante si illuminarono gli occhi. Bastò un cenno al Nostromo che, fischietto alla mano, cominciò a impartire gli ordini. Come per incanto i nocchieri sbucarono da ogni anfratto della nave e salirono sugli alberi.
Trevi, parrocchetti, stralli, fiocchi, gabbie, mezzane... tutte le vele furono liberate al vento.

Signori miei. Uno spettacolo unico.

Furono spenti i motori. Si navigava solo a vela.
La nave sembrava ringraziare l’equipaggio.. come se l’avessero liberata da un giogo invisibile...

5... 6.. 8... 12... 14 nodi di velocità. Un’enormità per quello scafo. Le mura di sinistra che quasi fendevano le onde. Talmente “piegati” che chi teneva i piedi in coperta faticava a sorreggersi. I giornalisti, aggrappati al primo corrimano che capitasse loro sotto tiro, erano terrorizzati. Glielo si leggeva negli occhi. L’equipaggio, invece, pervaso da furore agonistico. Chiedevamo tutti al Dio dei Venti di aumentarne l’intensità.

Non riuscimmo a battere il record assoluto detenuto da Straulino, che era di 14,6 nodi. Ma nessuno ebbe il coraggio di dirlo al “nostro” Comandante.

CIVITAVECCHIA (24/27 maggio)

NAVIGAZIONE (27/29 maggio) – 248 miglia.

PALERMO (29 maggio /1 giugno)

NAVIGAZIONE (1/2 giugno) – 167 miglia.

NAPOLI (2/5 giugno)

NAVIGAZIONE (5/7 giugno) – 299 miglia.

Di quell’ultimo periodo di pre-crociera ricordo poco. La vana ricerca di Gigi a Civitavecchia (ve lo ricordate?) per sapere se avesse fatto progressi nella sua istruzione. I parenti siculi che mi fecero conoscere le bellezze di Monreale e Mondello. La visita su una nave da crociera ormeggiata accanto a noi, a Napoli.
E tanta esperienza acquisita sul tavolo da carteggio.

LA SPEZIA – IL SECONDO RITORNO – 7 giugno

Ed un’altra volta ancora tutto finì da dove iniziò.
Ma ora.... bisognava prepararsi per la Crociera.

(continua)

NON CHI COMINCIA MA QUEL CHE PERSEVERA
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« immagine » O.Dirke 24 settembre 2012 ore 23:15 NAVIGAZIONE (2/3 maggio) – 60 miglia. RAVENNA (3/6 maggio) La navigazione da Venezia a Ravenna fu brevissima. Nemmeno il tempo di rassettare i cavi che già dovevano essere preparati per la manovra di ormeggio. Avevo già cominciato ad imparare ne...
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IL MIO "VESPUCCI" - In memoria di Alessandro (5)

15 dicembre 2012 ore 23:41 segnala


Il mio "Vespucci" -In memoria di Alessandro (5)
O.Dirke 21 settembre 2012 ore 00:40
LA VIGILIA ( aprile)

La partenza era imminente e quella domenica avrei cominciato quel viaggio che non avrei mai dimenticato.

Alla vigilia, di sabato, in cui quasi tutto l’equipaggio era in libera uscita, io e pochi altri rimanemmo a bordo. Chi era di guardia, chi, come me, non avrebbe comunque avuto il tempo di raggiungere casa o chi sentiva la pressione degli incarichi che avrebbe dovuto svolgere a partire dal giorno seguente cercava qualcosa da fare per ingannare l’attesa.
Il “passatempo” ci fu proposto, a sorpresa.
Dalla scala reale vedemmo arrivare a bordo due splendide donne, di origine olandese, seguite da un codazzo di personaggi mai visti prima. Era una troupe fotografica che doveva realizzare un servizio per conto di Fendi, lo stilista. Le due modelle erano gemelle. Molto belle. E lo sfondo per gli scatti, lì a bordo, era quello che cercavano.
La cosa che spiazzò noi, curiosi, intenti ad osservare i preparativi, fu la richiesta da parte di quello che sembrava fosse il “regista” all’Ufficiale di Guardia. Aveva bisogno di sette comparse. Quando cominciai a realizzare cosa stava succedendo stavo defilandomi in silenzio e, attento a non essere osservato, stavo raggiungendo la zona sotto castello, in salvo. Ma era troppo tardi.
Sentii l’Ufficiale alzare la voce... “Marinaio Paolo ! Dove crede di andare ? Venga e si metta a disposizione di questo signore!”. Io ed altri sei fummo così “volontariamente” selezionati. La divisa da lavoro che indossavamo non era adatta allo scopo, e ci toccò mettere quella di ordinanza, bianca.
Ero imbarazzatissimo. Il regista non sembrava mai contento quindi pose e "click" susseguivano senza pausa.
Per le ultime immagini, ci fecero salire sulla rete (la giapponese) tesa sotto il bompresso. Non vedevo l’ora di finire. Di tutto stavo facendo, da quando ero imbarcato, fuorchè quello che veramente mi interessava.


LA PARTENZA (21 aprile)

Ma finalmente arrivò il giorno. L’Amerigo Vespucci, insieme ai suoi 270 membri d’equipaggio salpò quella mattina. Senza fanfare, quasi in silenzio. Con discrezione.
La manovra di disormeggio (e di ormeggio) è laboriosa. Decine e decine di nocchieri dediti a recuperare i cavi sotto gli occhi vigili del Nostromo. Il Comandante, buona parte dello Stato Maggiore, segnalatori, radaristi, timonieri e vedette sul Ponte di Comando. Poi finalmente il mare.

Cominciava la mia prima navigazione in assoluto, se vogliamo togliere insignificanti traversate in traghetto di corto raggio. Destinazione Venezia.

NAVIGAZIONE (21 aprile – 29 aprile) – 1082 miglia.

I miei compiti, durante la navigazione, così come quelli degli altri commilitoni venivano stabiliti alla prima riunione del giorno, alle 08.00. Il mio superiore diretto era Sperandeo. Oltre che Ignazio. Nella catena di comando sopra di loro v’era il Capo Servizio Edoardo, un Tenente di Vascello ed Ufficiale di Rotta. Era lui che doveva stabilire come avremmo passato il resto della giornata. Due ore dedicate alla lucidatura degli ottoni. Ognuno di noi aveva il suo perimetro da curare. Ed imparai cosa fosse il "sidol". Poi, per quanto mi riguardava, lavoro di ufficio in Segreteria Comando. Il pomeriggio sarei stato libero. Ma lo passavo regolarmente in Plancia, dove ero autorizzato a sostare. Aiutavo i “segnalatori” a tracciare rotte, fare punti nave, ed ogni tanto davo il cambio al timoniere.
La ruota del timone era enorme. Per variare la rotta di un solo grado, dieci giri non erano sufficienti. Ci voleva una perizia ed un’esperienza straordinarie per mantenere la nave in rotta, ed io mi limitavo ad usarlo solo nei tratti in mare aperto e senza accostate evidenti. Avevo sete di imparare. E voglia di farlo.

La vita “militare” con tutte le imposizioni del caso non mi spaventava. Avevo un buon allenamento. Anni di collegio a Livorno dai Salesiani mi avevano insegnato molte cose. La disciplina prima di tutto. Il saper arrangiarsi nella buona tenuta del proprio alloggio. E, non meno importante, il rispetto verso l’Autorità. Ero già “navigato” in un certo senso.

I ricordi più belli delle giornate in navigazione sono senz’altro legati alla cerimonia dell’”Ammaina bandiera”. Accadeva al tramonto. Tutto l’equipaggio (escluso il personale di guardia in Plancie ed in Sala Macchine) schierato a poppa, Comandante compreso. Il silenzio degli uomini era sempre assoluto. Solo alla nave ed alla natura era permesso esprimersi. Si riusciva a sentire il fruscio delle onde create dal passaggio dello scafo ed il vento creato dal suo movimento. Gli scricchiolii dei pennoni sugli alberi ed il leggero sbattere di vele ormai raccolte facevano da contorno a quell’atmosfera che non era mai uguale. Il tambureggiare della bandiera sulla propria asta come se sapesse che era il momento del suo riposo notturno.
Poi il cenno del Comandante al Nostromo. Che impugnava il suo fischietto suonando note non a caso ma con un preciso significato. E la bandiera lentamente veniva ammainata. La mano tesa che automaticamente si portava dinanzi alla fronte. Emozioni intense, che ancor oggi mi mettono i brividi.

Il fischietto. Arnese essenziale per il Nostromo ed i Nocchieri. Per dare gli ordini che non venivano pronunciati a voce. Ogni azione. Ogni movimento. Ogni operazione era eseguita seguendo le note di quello strumento. Tutti coloro che erano addetti alle vele ne conoscevano tutte le inflessioni, trilli, cambi di tonalità. Io non le compresi mai. Il fischietto serviva, tra le altre cose, a riconoscere chi saliva o scendeva da bordo attraverso la Scala Reale, durante le soste ufficiali. Il sergente nocchiere di guardia più a lungo fischiava, e più importante era la persona che transitava. Ricordo che, al passaggio dei Reali inglesi, quei trilli pareva non finissero mai...

La mattina precedente al nostro previsto arrivo in laguna, sentii fermarsi i motori. Non erano potenti, riuscivano a far raggiungere alla nave solo cinque nodi di velocità, ma necessari in caso di assenza di vento. Mi affacciai dal parapetto del ponte principale per cercare di capire cosa stesse succedendo. Vedevo una costa poco distante da noi. Montagnosa. Sicuramente non era Venezia. Salii in Plancia.

C’erano il Comandante Defranceschi, il Comandante in Seconda Sauro ed il Signor Blasutig. Tutti con il binocolo in mano intenti ad osservare terra. Venni a sapere dopo che i tre erano di origine dalmata. Le loro famiglie cacciate dalle loro terre dal Maresciallo Tito. Stavano osservando quella che una volta era la Jugoslavia. Rimpiangendo quella che una volta era la loro “Patria”.

VENEZIA (29 aprile – 2 maggio)

Arrivammo finalmente. La città era in piena celebrazione sin dal 25 aprile, giorno del Patrono. L’attracco della Vespucci, molto in prossimità di Piazza San Marco, fu salutato da migliaia e migliaia di persone. Tra quella folla c’era pure mio padre. Mia zia. I miei parenti. Amici. Una festa. Erano tutti orgogliosi di me. Ed io di appartenere a quella splendida realtà.

Espletati i miei obblighi da “postino” (fu bellissimo e divertente camminare col borsone attraverso le calli del capoluogo veneto, per raggiungere l’ufficio postale. So per certo di comparire in qualche album fotografico di svariate famiglie giapponesi che mi chiedevano, anzi pregavano, di essere immortalati con me) mi dedicai ai miei cari.

Tronfio col petto in fuori e con il portafoglio riempito dalla paga appena ricevuta, li portai a Piazza San Marco. “Vi offro un caffè”, dissi loro. Vidi un locale che mi sembrava davvero carino. Non ero pratico di Venezia e non conoscevo la fama del “Florian”. Mi vennero i primi sospetti vedendo sulle pareti immagini e scritti dei personaggi che transitarono in quel locale... Rousseau, Giacomo Casanova, Silvio Pellico, Goethe, Lord Byron, Ugo Foscolo, Charles Dickens, D’Annunzio.... Quando mi portarono il conto, credetti di svenire. Non fu tanto per le tremila lire a caffè. E vi parlo di parecchi anni fà. Ma quelle cinquemila lire per “l’orchestrina”.
Ci sedemmo ai tavolini interni oltretutto. Ma l’orchestra all’esterno era assente, forse anche per le poche gocce di pioggia che stavano cadendo. “Scusi”, feci al cameriere “Ma è rotto il juke box per caso, perchè non ho sentito nessuna nota musicale...”. Evidentemente dovevano avergli fatto altre domande dello stesso tenore, perchè non sembrò sorpreso dalle mie parole, anzi rispose sorridendo “xè el contributo per i musicisti ciò, i lo paga tuti. Adeso i xè in pausa.”. Pazienza. La paga finì nelle casse di quel glorioso locale senza colpo ferire.

Guardai il cielo. Mi parve che Charles Dickens, da lassù, mi guardasse e sorridesse....
(continua)

P.s. mentre sto scrivendo, stasera, la Vespucci è qui, a Livorno. Arrivata oggi dal suo percorso estivo. Quasi avesse sentito il richiamo del mio “racconto”. All’ancora, davanti all’Accademia Navale. La posso vedere da casa mia. Venendo via dall’ufficio non ho potuto fare a meno di fotografarla... Non è bizzarro, il destino, a volte ?



NON CHI COMINCIA MA QUEL CHE PERSEVERA
Semper Fidelis
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« immagine » Il mio "Vespucci" -In memoria di Alessandro (5) O.Dirke 21 settembre 2012 ore 00:40 LA VIGILIA ( aprile) La partenza era imminente e quella domenica avrei cominciato quel viaggio che non avrei mai dimenticato. Alla vigilia, di sabato, in cui quasi tutto l’equipaggio era in libera u...
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Il mio "Vespucci" - In memoria di Alessandro (4)

30 novembre 2012 ore 19:29 segnala


O.Dirke 19 settembre 2012 ore 01:38
A BORDO (aprile)

Tutto ricominciò da dove avevo iniziato. Questa volta ad accogliermi non c’era la caserma Duca degli Abruzzi, ma la Nave Scuola Amerigo Vespucci, ormeggiata all’Arsenale di La Spezia. Era il primo di aprile, la paura che qualcuno mi bussasse alla spalla e mi dicesse che il tutto era il classico “pesce” ancora mi pervadeva.

Arrivai al molo e ricordo di aver appoggiato per terra i pesanti zaini che mi facevano da fardello da due giorni. La guardai. Era stupenda. Maestosa. Gli alberi di Maestra, Mezzana e Trinchetto sembravano altissimi da quella prospettiva.

Intravedevo la fervente attività a bordo. Tutti sembravano occupati a fare qualcosa. Mi venne in mente la famosa “Facite ammuina” il falso decreto regio della Marina Borbonica in cui si ordinava...
“tutti chilli che stanno a prora vann' a poppa
e chilli che stann' a poppa vann' a prora:
chilli che stann' a dritta vann' a sinistra
e chilli che stanno a sinistra vann' a dritta:
tutti chilli che stanno abbascio vann' ncoppa
e chilli che stanno ncoppa vann' bascio
passann' tutti p'o stesso pertuso:
chi nun tene nient' a ffà, s' aremeni a 'cca e a 'll à”
E che doveva essere messo in atto in occasione di visite importanti. Ma non era così. Dopo la consueta sosta invernale, in cui tutto veniva rimesso a nuovo, la nave si stava preparando per la imminente Crociera di Addestramento estiva per gli Allievi dell’Accademia Navale di Livorno. Tutto doveva essere pronto per la partenza. Tutto curato nei minimi dettagli. Ogni cima (ce ne sono per oltre trenta chilometri a bordo) controllata e “curata”, le vele (quasi tremila metri quadrati) suddivise in tre mute dal valore (allora) di quattrocento milioni di lire l’una, ispezionate nei minimi dettagli. Gli ottoni, di cui la Vespucci è adornata in più parti, dovevano splendere sotto i raggi del sole. Duecentocinquanta persone di equipaggio occupate dai febbrili preparativi di quella che sarebbe stata una lunga stagione di navigazione attraverso il Mediterraneo prima (e senza Allievi) ed il Mare del Nord successivamente.

Per salire a bordo ci sono due scale. Le “scale reali”.
Una a poppavia, riservata agli Ufficiali ed un’altra a proravia per il resto della “ciurma”. Imboccai la seconda, ed a metà della salita mi voltai verso poppa. Salutai la bandiera, così come avevo visto fare agli altri.
Mi emozionai fino alle lacrime....
Il Corpo di Guardia alla fine delle scale, sul Ponte Principale, consisteva in uno scrittoio in legno, alto, che quasi nascondeva il sergente addetto alla registrazione delle entrate-uscite del personale. Gli consegnai i documenti contenenti miei “ordini”.

“Ah, la recluta. Ti aspettavamo” mi disse, atono. “Aspetta qui che chiamo Capo Sperandeo”. Annuii ed intanto mi guardavo intorno, sempre più rapito dalla bellezza di cui ero circondato. Come un bambino per la prima volta a Disneyland. Avevo paura di svegliarmi. Notai la targa sopra l’ingresso di quelli che dovevano essere gli alloggi Ufficiali. “Non chi comincia ma quel che persevera ” c'era scritto. Il motto della Vespucci. Ogni nave militare ne ha uno. Quello mi piaceva. Lo condividevo.

Il Capo Radarista mi venne incontro sorridendo. Era minuto come una marionetta. Una massa di capelli riccioli neri, impressionante per essere un militare, su cui fluttuava il cappello come fosse un aliante sulle nuvole. “Ciao, Paolo. Benvenuto a bordo”. E cominciò a spiegarmi cosa mi avrebbe aspettato nei prossimi giorni.

“Gli unici radaristi a bordo siamo io e te, ed il radar è uno solo, preistorico oltretutto. Non c’è molto da fare quindi, e non è un servizio coperto da guardie. Il Comandante in Seconda dovrà decidere quale altro compito assegnarti. Alle 15 zero zero presentati davanti al suo Ufficio. Vieni ti accompagno alla tua branda”.
Con ancora nella mente le parole del Maresciallo, ci avviammo verso prua, sotto castello. Lì si trovavano vari uffici. Amministrazione, barberia, Nostromo quelli che mi ricordo. E l’ingresso per le cucine e la mensa Marescialli. Gli altri membri dell’equipaggio mi guardavano con curiosità, un pò perchè ero nuovo, un pò perchè portavo sul braccio il simbolo di una categoria, il radarista, semisconosciuta a bordo di quella nave. Scendemmo una rampa di scale per ritrovarci al ponte sottostante. Ambiente angusto dove trovava posto la mensa marinai, e quella sergenti. Disseminati nelle aree circostanti e sottostanti gli alloggi riservati a coloro che non fossero Ufficiali.

Sopra una porta chiusa lessi: "Grotta del cane". Candidamente chiesi a Sperandeo: "ma ci sono animali a bordo? ". Lui rise di gusto. "No no ! E' l'alloggio dei sergenti nocchieri. Si chiama così sai perchè ? perchè è il posto sulla nave dove si sentono meno gli effetti del mare. Nei velieri antichi era il posto dove si rifugiavano i cani. Furbi, eh ? "

La mia branda si trovava poco distante dalla mensa. Una zona immersa nella semioscurità, di giorno. Era quella posta più in alto delle tre che formavano una sorta di letto a castello. L’armadietto riuscì a contenere a malapena i miei due zaini.

Provai a sdraiarmi in branda. Confesso che ebbi delle difficoltà. Il tutto stava nel memorizzare dove appoggiare piedi e mani per fare l’arrampicata ideale ed infilarsi a letto. Così come inserire un cd nell’alloggiamento obbligato del pc. Una volta sdraiato, a pancia in su, l’attenzione doveva essere posta alle miriadi di tubazioni che attraversavano la nave da poppa a prua e che mi sorridevano a pochi cm. dal viso. Confesso anche che, nonostante l’attenzione posta, nello scendere da quel cucuzzolo sbattei la testa sul tubo che probabilmente era dedicato alla linea antincendio. Poco male. Ero così felice di essere li che tutto passava in secondo piano.

Mi avviai verso l’Ufficio del Comandante in Seconda. Il Capitano di Fregata Dalmazio Sauro, prima che riuscissi a raggiungere i Corridoi Ufficiali, mi precedette in Coperta. “Te devi essere il Radarista ! ” con un largo sorriso. Mi misi sull’attenti e salutai come mi avevano insegnato in due mesi di assiduo addestramento. Ero di fronte al nipote di Nazario Sauro, il patriota che scrisse una delle pagine memorabili dell’Irredentismo italiano.

Con lo stesso sorriso mi disse... “Riposo, marinaio”. “Allora. Innanzitutto benvenuto a bordo. Poi due cose. La prima, come ti avrà spiegato Capo Sperandeo, ti devo trovare un’altra sistemazione. Sarai assegnato alla Segreteria Comando, di supporto al Maresciallo Ignazio e farai il Postino. La seconda, da questo momento sei in licenza. Va a casa e ritorna tra una settimana”.

Il mio sguardo doveva essere proprio la fotografia della delusione, perchè il CF mi rincuorò subito: “per il discorso del postino, mi ringrazierai. Per quanto riguarda la licenza, non ti permettere di tornare senza una bottiglia di Ferrari”. E rise.
Evidentemente aveva letto il mio “dossier” fino in fondo. Le cantine dello spumante Ferrari erano a poche centinaia di metri da casa mia, a Trento. Mi strinse la mano e si allontanò.
Postino ? Ero ancora basito. Mi venne in mente Cesare, che nel frattempo era andato a godersi la meritata pensione e si era ritirato. Una specie di passaggio di consegne a distanza, a quanto pare. Che destino. Speravo di essere coinvolto sulla Plancia. Nemmeno messo piede a bordo e già dovevo andarmene. Volevo girare in lungo e in largo il vascello. Ogni anfratto. Conoscere. Imparare. Pazienza. L’amarezza fu mitigata al pensiero di rivedere mio padre, dopo due mesi di assenza.

Nel periodo in cui trascorsi la licenza tra le mura di casa, un nostro amico Carabiniere ci informò che dal Ministero della Marina stavano facendo dei controlli sul mio conto tramite l’Arma. Ci allarmammo. Perchè ? L’Appuntato ci spiegò che era la routine, perchè io ottenessi il NOS (Nulla Osta Segretezza) di livello più elevato rispetto a quello normale riservato a chi espletava il servizio di leva. Probabilmente, essere impiegato nella Segreteria del Comandante, comportava anche questo.

Tornai sulla Vespucci con due bottiglie (scelte dal mio genitore, più intenditore di me) di spumante d’annata. Il Comandante Sauro apprezzò con una pacca sulle spalle che ancora mi duole.

Il Postino titolare, in fase di congedo,un ragazzone di Trieste, mi passò le consegne. E capii perchè avrei dovuto ringraziare il mio superiore. Fare il Postino aveva un privilegio particolare. Espletato il servizio mattutino (spedire e raccogliere pacchi di missive all’Ufficio Postale di La Spezia o dei porti che avremmo scalato, protocollarle e dividerle per i reparti) si era “franchi” da guardie.
Cioè liberi di andarsene a spasso tutti i pomeriggi. Inoltre era la figura più amata a bordo. Tutto l’equipaggio si aspettava ogni giorno una lettera da parte dei propri cari. E quindi per “traslazione” il postino diventava foriero di attimi di felicità. Ma non era comunque quello che volevo. Alla fine pensai, che importa. Ero comunque sulla nave più bella del mondo.

Il mio secondo superiore diretto, dopo Sperandeo era quindi Capo Ignazio. Il Segretario del Comandante. Con lui capii subito non ci sarebbe stato un buon “feeling”. Il Maresciallo era permeato di un servilismo verso gli Ufficiali a dir poco vomitevole. Ed allo stesso tempo, con i sottoposti si comportava come un vero e proprio stronzo, scusate il francesismo. L’antesignano del “Dottor Linguetta” di televisiva memoria.

Il Comandante. Il Capitano di Vascello Aldo Defranceschi. Lo stereotipo del vecchio lupo di mare. Un vero signore. Capo Ignazio mi presentò a lui nel magnifico salone a poppavia. Vederlo in uniforme, circondato da quell’arredamento splendido, antico e curato nei minimi particolari mi dette l’impressione di essere proiettato in un’altra dimensione. In un altra epoca. Fu molto gentile al primo, breve, incontro.

Ignazio si raccomandò di non nominare mai, in sua presenza, l’Ammiraglio Straulino. Vera leggenda vivente della Marina Militare e già Comandante della Vespucci. Gli chiesi il perchè, e mi raccontò questo incredibile aneddoto.

Quando Defranceschi era un allievo dell’Accademia alle prime armi (non ero ancora nato) si trovava con la sua Unità alle Isole Hawaii. Il suo comandante era Straulino. La sosta prevista in quelle isole era di una decina di giorni. Il “nostro” allievo conobbe subito la figlia di quello che ancor oggi è uno dei maggior produttori di ananas e banane. L’ambita “Mrs Dole”. Nacque un amore. Che fu subito stroncato dal padre di lei, costringendo Straulino a trovare una soluzione atta ad evitare che i due ragazzi si incontrassero ancora. L’Ammiraglio non se lo fece dire due volte, evidentemente. Per diplomazia, cattiveria... non si sa. Consegnò a bordo (in pratica arresti domiciliari) Defranceschi per tutti i giorni di sosta della nave alle bellissime isole del Pacifico. E lui non rivide più quella ragazza.
Ecco perchè lo odiava. E ci credo.

Passai i giorni seguenti a conoscere meglio la nave, i suoi segreti. La Segreteria Comando era di fronte alla cabina del Comandante in Seconda, Sauro. A fianco invece un punto nevralgico. La stazione radio. Da quelle due porte iniziava il corridoio che portava al Salone di rappresentanza di poppa, alla mensa Ufficiali, alla mensa Comandante ed ai loro alloggi. Sul lato sinistro della nave e sotto la timoneria di riserva. Il corridoio, parallelo, al lato dritto era off limits e privilegio solo del Comandante della nave.

Il “carrugetto” (veniva chiamato anche così il corridoio) era tappezzato all’inverosimile di “crest” ovverosia targhe ricordo di ogni luogo in cui la nave aveva fatto scalo nella sua storia. E dal 1931 di porti ne aveva toccati davvero tanti. Credo di non essere riuscito a leggerli tutti, nei dodici mesi successivi.

DIANA SPENCER (aprile)

Un giorno, tornando dall’Ufficio Postale vidi in fase di ormeggio, a poche centinaia di metri da noi, la “Britannia”. Lo yacht reale di Sua Maestà Britannica. Voci di “corridoio” dicevano che a bordo vi fossero Carlo e Diana, ma sembravano solo chiacchere.
Pochi giorni dopo, prima della partenza per quella che doveva essere la Pre-Crociera mediterranea, vidi sotto la targa del motto un piedistallo. Sopra il quale c’era un cartello, dalle fattezze eleganti.

“Il Ministro della Difesa invita il Comandante di Nave Vespucci domani al Ricevimento che si terrà a bordo della stessa in onore del Principe di Galles”.

Pensavo di aver letto male. Spadolini invitava il NOSTRO comandante sulla NOSTRA nave ?? Cos’era uno scherzo ? Protocollo Statale mi dissero. Ma sono sempre dell’opinione che sia stato e sia tuttora un oltraggio. Immaginare quel barilotto, oggetto prediletto delle caricature di Forattini, comportarsi da padrone anche lì mi faceva salire il sangue al cervello.

Nonostante tutto l’euforia pervase tutto l’equipaggio. Carlo d’Inghilterra a bordo ! E forse pure Diana !

Le immagini di quello che fu definito il matrimonio del secolo era ancora davanti ai nostri occhi. Poi la doccia fredda.

Come diceva l’elegante annuncio, solo il Comandante poteva godere del privilegio. Tutti gli altri, Ufficiali compresi dovevano stare rigorosamente nascosti sotto coperta. E non farsi vedere. Protocollo ? Eccesso di sicurezza ? Noi tutti lo chiamammo solo oltraggio su oltraggio. Che delusione.

L’apparato militare, per essere sicuro che gli ordini fossero rispettati, il giorno dopo schierò una decina di marò-cannonieri sulla banchina che avevano il compito di dissuadere, segnalare ed arrestare chiunque avesse avuto l’ardire di affacciarsi per curiosare.

Mi venne un’idea. Con Capo Sperandeo andammo, attraverso i corridoi e ponti interni, all’altezza dell’oblò che dava sulla scala in cui sarebbero saliti e scesi i “reali”. Forse, con un pò di fortuna, li avremmo almeno intravisti pur tenendoci ben lontani dall’apertura.

Non li vedemmo salire. Qualcuno deve aver avuto la stessa idea, da un ponte sottostante e fu richiamato con grida potenti, dalla banchina. La paura attanagliava me e la macchina fotografica che tenevo in mano.

Ma li vedemmo scendere. Non Carlo. Diana. Scese per prima, dopo il ricevimento durato si e no mezz’ora. Colsi l’occasione al volo e scattai. Come veniva veniva, mi dissi. La Principessa Triste quel giorno aveva un sorriso magnifico. Non aspettai che arrivasse Carlo. Scappai. Non volevo correre il rischio di rovinare tutto proprio alla vigilia della partenza. Sperandeo rimase. Successivamente mi raccontò di aver visto anche Carlo. Mi disse anche che era più brutto di come lo fosse in televisione e avrebbe fatto meglio ad andarsene via con me.



Feci sviluppare il rullino da un amico molto tempo dopo, a Livorno. Lui era appassionato di fotografie ed il suo hobby era immortalare gli animali in genere. Sapevo fosse fornito di attrezzatura amatoriale da camera oscura. Quando tirò fuori dalla vaschetta l'immagine, rimase a bocca aperta. “Sai se la vendi ad un giornale, quanti soldi ci fai ??? ”.

Non lo feci mai. Avrei potuto, finito il servizio di leva. Anzi, buttai il negativo subendo parole irripetibili da parte di quell’amico.

No. Più della paura di finire nei guai, era la percezione di un’immagine rubata ad una persona meravigliosa. Mi sentivo in colpa. Non avrei mai speculato su questo.

Ora, che Lei non c’è più, trovo che condividere questa foto sia un pò come onorarne la memoria. E di immortalarne il sorriso.

(continua)

NON CHI COMINCIA MA QUEL CHE PERSEVERA
Semper Fidelis
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« immagine » O.Dirke 19 settembre 2012 ore 01:38 A BORDO (aprile) Tutto ricominciò da dove avevo iniziato. Questa volta ad accogliermi non c’era la caserma Duca degli Abruzzi, ma la Nave Scuola Amerigo Vespucci, ormeggiata all’Arsenale di La Spezia. Era il primo di aprile, la paura che qualcuno ...
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Il mio "Vespucci" - In memoria di Alessandro (3)

28 novembre 2012 ore 00:39 segnala


O.Dirke 14 settembre 2012 ore 00:32
IL CORSO (Marzo)



Il trasferimento avvenne in treno. La tratta La Spezia – Taranto avrebbe visto passare un convoglio stipato di reclute, piene di entusiasmo per aver appena finito il pesante addestramento. Radaristi, marò cannonieri, marò siluristi, telegrafisti... tutti destinati all’altra Scuola Sottufficiali esistente in Italia (dopo La Maddalena) per partecipare ai rispettivi corsi ed essere formati sul “dovere” che avremmo espletato in seguito.

Io speravo di andare subito a bordo, ma un altro mese, mi augurai, sarebbe passato presto.

Durante la sosta in una delle stazioni di Roma, nonostante l’ora tarda (erano le tre di notte) eravamo tutti affacciati al finestrino. Non seppi mai chi iniziò. Non seppi mai il perchè. Ma prima una, poi dieci... venti.. centinaia di voci si elevarono in un coro da stadio. Un’ euforia misteriosa ci pervase tutti, e cantammo quel refrain finchè il treno ripartì per il suo itinerario. I pochi viaggiatori presenti sulle banchine dei binari ci guardavano sorridendo, apparentemente non infastiditi da tale fracasso. Chissà cosa fece scattare in noi quell’entusiasmo.

Altra caserma.

Le regole erano poche e chiare. Studio. Marce. Mangiare. Dormire. Studio. Marce. Libera uscita solo il mercoledì e la domenica pomeriggio, per tornare entro le 23. A turno, per tutti, sessioni di guardia armata al cancello.

Per uno scherzo del destino mi ritrovai in camerata Marino. Di Livorno. Proveniva, per uno sbaglio burocratico, dal CAR di Taranto, piuttosto che quello limitrofo di La Spezia. Avevamo percorso i cinque anni di Istituto Nautico labronico insieme, pur se in classi diverse. Lui nella sezione “A” dove venivano accolti i rampolli della “Livorno bene” ed io nella “B” dove erano radunate le “pecore nere” ed i “forestieri” come me, insieme agli elbani, cecinesi, castiglioncellesi...
Lo conoscevo solo di vista. A Taranto invece diventammo grandi amici, e lo siamo tuttora, condividendo molto, in quel mese di naja. Lui era lì per diventare “silurista”. Oggi lui è Pilota del Porto di Livorno, come lo fu suo padre. Marino, il mio “frà”.

Passoooo !!! Cadenz !

Non era cambiato assolutamente nulla dal mese precedente. L’unica differenza era che le marce erano interrotte dalle ore interminabili di corso.
Cinematica, bersagli, magnetron, banda X, banda S, saper distinguere tra un piovasco ed un oggetto... miriadi di nozioni che già conoscevo e che alla lunga mi annoiavano. Per altri invece la comprensione risultava più difficile.

I pasti. A La Spezia il “rancio” era rispettabile. Qui un incubo. “Gamelle” di acciaio e contenuto spesso e volentieri immangiabile. Chi riusciva a buttare giù il cibo, alla fine doveva andare a lavarsi il proprio vassoio in un catino di acqua sudicia e maleodorante con l’ausilio di uno spazzolone che di solito si compra solo per pulire la tazza del bagno.

Io e Marino diventammo così sempre più clienti affezionati dello “spaccio” (bar) interno. Un litro di latte, e quantità industriale di merendine confezionate ad ogni acquisto. Ma c’era un’altra alternativa. Scavalcare il muro della caserma ed “invadere” la struttura adiacente, dove si addestravano i “cannonieri”.
Il perchè era presto detto.
Nel nostro centro stazionavano duemila persone, e la mensa era il risultato di cotanta umanità. Dai nostri vicini la capienza massima era di duecentocinquanta soldati. E si mangiava come al ristorante. Non sempre era possibile effettuare quella “fuga per la polpetta”. Il rischio era enorme, e lo spettro di giorni di consegna o, peggio, di carcere ci ha spesso frenati. Ma le poche volte che ci riuscimmo fece sì che il nostro fegato ripigliasse fiato.

Il poco tempo libero a disposizione si passava a riposare mente e vesciche nella nostra camerata. E a studiare. Il rischio di rimanere bocciati era sempre reale. Marino s’era portato la chitarra con se. Memorabile una sera in cui intonammo “Albachiara” di Vasco Rossi. Altri commilitoni si aggiunsero al nostro improbabile “duetto” e, per pochi minuti, ci sembrò di essere a casa.

Passoooo !!! Cadenz !

Le libere uscite erano attese come il Messia. Due volte a settimana una serie di autobus cittadini entrava all’interno della struttura, ci caricava (noi rigorosamente ed obbligatoriamente in divisa) e ci conduceva in centro città.

Quattro, cinque ore di “franchigia”. Ma che davano l’illusione di rivivere. Girare per Taranto con la divisa non era consigliabile, all’epoca. La popolazione non vedeva di buon occhio i marinai. Trovammo la soluzione anche per quello. Io, Marino e altri tre amici ci portavamo nello zaino gli abiti “borghesi”. Andavamo al Bar Manhattan (o New York, non ricordo) sullo stupendo lungomare cittadino dove il gestore, diventato nostro “complice”, ci metteva a disposizione una stanza per cambiarci “d’abito”. Brevi momenti di spensierata normalità, la ripresa di una dimensione di ragazzi diciottenni.... Fino a quando gli stessi autobus ci risvegliavano dal sogno... e ci riconsegnavano al nostro destino.

Passoooo !!! Cadenz !

Arrivò il giorno di fine corso. E con esso l’annuncio, ad ognuno di noi, del nome della nave su cui avremmo proseguito il nostro Servizio.

Non parlavamo d’altro, da un mese a quella parte. “Chissà dove ci mandano”... “A me garberebbe andà sul Maestrale, c’è il mi cugino”... “Ajò, basta che sia in Sardegna e qualsiasi bagnaròla ve benne”... “Minchia, ma vuoi mettere supra a Vittorio Veneto ? iè la più grande ! ”... “Uagliò, io non voglio andà ‘ncopp a nu sommergibbile...”...
Speranze. Paure. Curiosità.

Io un sogno lo avevo. E non solo io. La Vespucci. La vidi la prima volta da bambino perchè mi ci portò mio padre un giorno. Dalla banchina del porto di Venezia ne ammirammo le fattezze, e ricordo mi disse... “se tuo nonno non m’avesse costretto a fare altro... è qui che sarei voluto essere...” . Mi è sempre rimasto impresso. Ma sapevo sarebbe stato quasi impossibile. Un pò perchè i radaristi, al 99%, erano destinati alle navi cosiddette “grigie”, tecnologiche.
Sulla Nave Scuola c’era spazio solo per nodi, ottoni, sartiame e vele. E un pò perchè l’Amerigo era meta per i migliori del corso, raccomandati o casi eccezionali che rappresentavano l’uno per cento mancante. Ma alla fine a me bastava andare a bordo di una qualsiasi Unità. E poter navigare.

Lo scenario del tanto atteso annuncio fu molto simile alla scena di quel mirabile film, “Full Metal Jacket”, in cui il terribile sergente, finito l’addestramento, snocciolava leggendo la lista nomi e assegnazioni.

“Marinaio Crotone! Promosso ! NAVE MAESTRALE!”
“Marinaio Milazzo! Promosso ! NAVE SCIROCCO!”
“Marinaio Macomer! Bocciato! torni a La Spezia per riassegnazione!”
“Marinaio Venezia! Promosso ! NAVE VITTORIO VENETO!”

.... eravamo 50 più o meno. Ed il Maresciallo sembrava si fosse dimenticato di me. Non venivo mai nominato.... fino a quando mancavo solo io.

“Marinaio Paolo! Promosso ! .... sticazzi.... NAVE VESPUCCI, complimenti montanaro!!”

Ho ancora nelle orecchie il boato di giubilo che seguì subito dopo. I miei compagni mi saltarono addosso per stringermi in un abbraccio, all’unisono. Io ero incredulo. Felice. Anzi.. credevo di volare...

Marino, che frequentava altro corso rispetto al mio, la sera mi disse che sarebbe imbarcato sulla Espero. Ci salutammo con un abbraccio che non finiva mai.

Poi telefonai a mio padre. Gli dissi la destinazione . Non pronunciò una sola parola. Ma lo sentivo piangere....


(continua)

“Non chi comincia, ma quel che persevera”

Semper Fidelis.
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« immagine » O.Dirke 14 settembre 2012 ore 00:32 IL CORSO (Marzo) Il trasferimento avvenne in treno. La tratta La Spezia – Taranto avrebbe visto passare un convoglio stipato di reclute, piene di entusiasmo per aver appena finito il pesante addestramento. Radaristi, marò cannonieri, marò siluri...
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28/11/2012 00:39:09
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