ARZANAH (3)

21 marzo 2016 ore 09:46 segnala


scritto da Odirke, prima apparizione 07 luglio 2013 ore 21:35


Il copilota mi snocciolò distrattamente alcune poche regole da seguire nelle prossime due ore. Andai oltre le istruzioni e legai la cintura di sicurezza così forte che mi sembrava di essere incollato al sedile. Non ho nessuna immagine mentale del decollo, perché tenni gli occhi chiusi. Le due mani stringevano la maniglia come se da essa fosse dipesa la mia vita. Non sentii nemmeno l’intorpidimento delle falangi.

Quando riaprii gli occhi eravamo già alti. La vista di ciò che stavamo sorvolando mi fece sparire come per incanto la paura.
Il deserto. L’autostrada che avevo percorso pochi giorni prima, di notte.
Si svelò il segreto della bellissima vegetazione accanto ad essa. Il verde finiva a pochi metri per parte dalla carreggiata. Un’illusione, per chi la percorreva in macchina, di eden in terra ma che sarebbe miseramente crollata affacciandosi oltre quei muri floreali. Dove regnava il deserto.
Poi fu la volta di Abu Dhabi. Bellissima vista di giorno, dall’alto. Sempre di più una sensazione di città americana in un contesto sbagliato.

E quindi il mare. Di un colore stupendo, Da lassù.

Mi sentivo come quel bambino che… “ooohhhh”.

Ogni tanto i vuoti d’aria e le turbolenze, in aggiunta ai bagagli che sbattevano su schiena e sedile, facevano si che mi ricordassi dov’ero. Alla mia mente cercavo di imporre l’immagine di Gardaland. “Si Paolo, sei su una attrazione. Tra poco finisce e scenderai. E’ solo un divertimento”.
Ma le immagini che scorrevano oltre il finestrino ebbero comunque la meglio. Riuscivano a rilassarmi.
I due piloti britannici sembravano invece non fare assolutamente caso a quei sballottamenti. Chiacchieravano senza tregua, forse dimenticando anche la mia presenza. Passò infatti un’ora prima che il Secondo si girasse con un sorriso e mi chiedesse “ Sir, it’s all ok ? ”. La risposta mi venne spontanea, con un sorriso tanto stirato che voluto. “ Yes thank You Captain.But I think that today the Hostess will not serve beer, right ? ” (Si grazie Capitano. Ma penso che oggi la Hostess non serva la birra, giusto?).

I due scoppiarono in una risata fragorosa. Sarà stata la battuta. O l’accento anglosassone curato, che non si aspettavano (sapevano che ero italiano).
Ma fatto sta’ che fu come se si fosse rotto il ghiaccio. I miei “autisti” erano un gallese di Cardiff ed un inglese di Liverpool. Conversammo nell’ora rimanente in allegria. Mi spiegarono parecchie cose sul funzionamento del “trabiccolo” e ad ogni risposta la mia curiosità aumentava. Si parlò di famiglie. Della lontananza. Mi sembrava quasi di essere protagonista di una storiella… “Su un aereo ci sono un inglese, un gallese ed un italiano….” Fu veramente piacevole.

Poi la vidi. Arzanah.


Dio quanto era piccola quell’isola, vista da lassù. Due, forse tre chilometri di diametro. Uno scoglio in mezzo al Golfo Persico. Ma il peggio era che proprio lì dovevamo atterrare.

E ricominciò la paura. Guardavo attraverso il finestrino anteriore come fossi il terzo pilota. I rudimenti che mi furono insegnati pochi minuti prima mi dettero la presunzione di credere di capire se stavano facendo le mosse giuste. Evoluzioni, contatti con la torre di controllo a terra, istruzioni, informazioni sul vento, trovare l’assetto sbandando un po’ le ali da una parte e l’altra… poi il Comandante prese di mira la pista, che ai miei occhi sembrava troppo corta.

L’atterraggio fu perfetto. L’aereo si fermò a pochi metri dal limite della striscia d’asfalto.

Scendere fu comunque come una liberazione. Presi i miei bagagli e camminando accompagnato verso gli uffici, guardavo il mare alla ricerca della nave su cui avrei dovuto imbarcare. Ma non la vidi. Quando ero “in aria”, preso dalle chiacchere, non pensai ad avvistarla.

Sbrigate le pratiche, fui accompagnato nel complesso centrale dell’isola. Mi dissero che avrei dovuto aspettare ancora, prima di poter salire a bordo. Il “viaggio” non era ancora finito.

Nella struttura, enorme, mi sembrava di essere solo. Una specie di cattedrale nel deserto dotata di innumerevoli servizi. Sale ricreative, palestra, mensa, biblioteca, sala tv… tutto a disposizione del personale di stanza sulla piattaforma petrolifera poco distante, e dei lavoratori sull’isola. La maggior parte di loro erano americani e arabi (o, meglio, cittadini di paesi musulmani). La Società proprietaria di tutto ciò che era li e nei dintorni (nave compresa) era l’Amerada-Hess. Non ho mai capito bene se il 51% delle azioni appartenessero agli Stati Uniti o agli Emirati, ma poco mi importava.

Per ingannare l’attesa girai per i vari corridoi, dove era consentito farlo. Quello che mi colpii fu una serie di fotografie appese alla parete, con tanto di spiegazione posta al di sotto di ognuna di esse, che formavano una cronistoria in immagini. Le guardai una ad una. Dalla prima all’ultima.
Gli scatti raccontavano, in pratica, la preparazione e la festa di inaugurazione, anni prima, di quel complesso petrolifero.

Non riuscivo a crederci.
L’isola che veniva pitturata (sì, pitturata) completamente di verde. Il tappeto rosso, enorme, steso dall’aeroporto fino all’ingresso principale della struttura. L’elicottero che posa dolcemente una Rolls Royce all’inizio del tappeto. Lo Sceicco Bin Sultan Non So Cosa che atterra, sale sulla macchina di lusso, percorre i 50 metri di strada sul tappeto, scende, taglia il nastro sotto gli occhi entusiastici dei presenti, e dopo tre minuti se ne va. Cosi come era arrivato.
Ma dov’ero finito? A Disneyland?

Ero ancora meravigliato dalla visione di poco prima, che mi dissero di andare alla mensa. Era l’ora di pranzo.
Chiamarla mensa è riduttivo. La parola più giusta sarebbe stata Luxury Self Service. Con il vassoio scorrevo i vari contenitori di cibi che avrebbero fatto invidia a qualsiasi ristorante a 5 stelle nel mondo. Cuochi libanesi in perfetta tenuta da Chef si affrettavano a consigliarmi questa o quella portata. Riempii alla fantozziana maniera i miei piatti con ogni ben di Dio. Gli inservienti mi dissero che comunque potevo ripassare quante volte volevo. Ma quello che avevo davanti era la quantità di cibo che generalmente consumavo in una settimana. Il tutto troppo allettante. Mi ripromisi di iniziare la dieta il giorno dopo. Altrimenti sarei tornato in Italia rotolando.

Con il termine “panatica giornaliera” si intende la quota che viene versata dall’armatore alla società di catering che gestisce la cambusa a bordo, per pagare il vitto giornaliero dei propri marittimi. Oggi, mediamente, è di 6/7 euro al giorno, per persona.

Ad Arzanah la panatica elargita dalla Amerada-Hess era di 36 dollari. A testa. Al giorno. In pratica ogni singolo lavoratore, li, disponeva di un “buono spesa” mensile di oltre mille dollari. Gli impiegati erano a centinaia. E parlo di inizio anni 90.

Per gli “irriducibili” americani c’era a disposizione un grill-restaurant che offriva hamburger, bacon, tacchino e carne di manzo alta tre dita. Tanto per non dimenticare le tradizioni. Non mi ci avvicinai, per timore di vomitare tutto quello che avevo ingurgitato sotto la sapiente guida libanese.

Arrivò l’ok. Potevo andare a bordo. Finalmente.

Sotto il sole che avrebbe cotto un uovo al tegamino in pochi secondi, con i miei bagagli al traino mi avvicinai verso il porticciolo. Un Supply-Vessel, una sorta di rimorchiatore d’altura, mi avrebbe condotto alla nave. Ma prima dovevo passare l’ennesimo controllo di sicurezza.

Che consisteva in una baracca di vetro dove a malapena poteva starci una persona. Li dentro c’era un poliziotto, vestito di una divisa verde pesantissima che da noi avrebbe potuto essere utile solo da un’altitudine da Brennero in su. Mi fermò.
Stop ! Nome. Cognome. Cosa ci facevo li ? Perché andavo a bordo ? Nulla da dichiarare ? Ok. Firmi il foglio.

Non sapevo se era eccesso di zelo o se fosse la procedura normale. In quel micro-mondo tutti sapevano chi fossi, ormai. Ma non fiatai e proseguii.

Arrivato alla banchina, mi dissero che era un falso allarme. Il mio “mezzo” sarebbe partito successivamente. Ma non potevo stare li. Dovevo rientrare nel complesso. Porc….

Poliziotto. Lo stesso.

Stop ! Nome. Cognome. Cosa ci facevo li ? Perché tornavo nel complesso ? Nulla da dichiarare ? Ok. Firmi il foglio.

Sentivo il sole sopra di me, ma per guardarlo (classica alzata d’occhi al cielo della situazione) avevo paura mi venisse il torcicollo per come era allo zenit. Mestamente tornai al sollievo dell’aria condizionata. Questo viaggio non voleva finire proprio mai.

Due ore dopo, altro ok.

Valigie. Questa volta fazzoletto in testa, bagnato.

Stranamente nella baracca non scorgevo nessuno. Sollevato, accelerai il passo e mi avvicinai verso l'agognata meta.

Stop !

Mi si gelò il sangue. Dove diavolo era il poliziotto ?

Lo intravidi supino all'interno della baracca, su un tappeto e rivolto verso Ovest. Stava pregando, tenendo una specie di rosario. Non disse altro. Ma era chiaro. Dovevo aspettare la fine del momento religioso fermo ed in assoluto silenzio.
Quando finì, dopo cinque minuti..

Nome. Cognome. Cosa ci facevo li ? Perché andavo a bordo ? Nulla da dichiarare ? Ok. Firmi il foglio.

Mi domandai se Benigni e Troisi, prima di interpretare la scena del fiorino nel mirabile film “non ci resta che piangere”, fossero passati da qui.

Salii a bordo del rimorchiatore. Equipaggio di indiani e filippini. Un odore misto di spezie, profumi e cibi mi penetrarono immediatamente attraverso le narici.
La traversata sarebbe durata poco, la nave era a sole due miglia.

Finalmente la vidi.
Era immensa. Mai in vita mia ero salito su un bestione del genere. E mai ci sarei risalito negli anni successivi. La VLCC (very large crude carrier, la super-petroliera) diventava sempre più imponente mano a mano che ci si avvicinava.

Trecentomila tonnellate di stazza. Lunga 350 metri. Larga 60. Alta 65. Era vuota, in zavorra, e quindi ancor più maestosa. Dal pelo dell’acqua alla coperta c’era una distanza di 18 metri.

Quando arrivammo sottobordo non vidi ne scale ne biscaggine. Come avrei fatto a salire ?

Nemmeno se avessero sentito la mia domanda, dalla nave cominciarono a sbracciare la gru. Appeso ad esso vi era un “cestino” che assomigliava molto ad un canestro rovesciato, con la base chiusa da una piattaforma.

Quando il basket, così scoprii che si chiamava, si appoggiò delicatamente sulla superfice del Supply, mi dissero che dovevo metterci dentro le valigie e salire. Eseguii l’ordine e mi infilai insieme alle valigie. Mossa sbagliata perché sia dal Supply che dalla nave mi urlarono di uscire immediatamente. Al basket dovevo starci attaccato, ma dall’esterno.

Mentre salivo su quell’ascensore di fortuna, attaccato ad esso come un babbuino sulle liane ma senza guardare verso il basso, mi chiesi se c’erano altre sorprese in serbo in quella giornata.

La risalita fu lentissima. Ma ce la feci.

Posai i piedi sulla coperta. Ricambiando il saluto ai connazionali che mi aspettavano, mi guardai intorno a quell’immensità di ferro.

Si chiamava “Tropical Lion”. Si. Il nome si addiceva.

E mi piaceva.
(continua)

Semper Fidelis
23457cfc-891e-4f2f-9c30-941a676d4c0d
« immagine » scritto da Odirke, prima apparizione 07 luglio 2013 ore 21:35 Il copilota mi snocciolò distrattamente alcune poche regole da seguire nelle prossime due ore. Andai oltre le istruzioni e legai la cintura di sicurezza così forte che mi sembrava di essere incollato al sedile. Non ho nes...
Post
21/03/2016 09:46:23
none
  • mi piace
    iLikeIt
    PublicVote
    1

Commenti

  1. caryl 21 marzo 2016 ore 09:50
    la foto della nave è quella originalmente messa da Odirke a corredo del suo post. la immagine della vera Tropical Lion ero riuscito a trovarla dopo una lunga ricerca negli archivi web degli armatori ed essendo un pdf l'avevo linkata nel blog di Odirke a commento. Ora, andando a ricercarla, ho scoperto che gli armatori hanno chiuso i battenti anni fa e sul web di loro sono rimaste solo alcune copie dei documenti di ingaggio di alcuni capitani - Paolo non c'è...- quindi anche la foto della nave è irreperibile.

Scrivi commento

Fai la login per commentare

Accedi al sito per lasciare un commento a questo post.