
scritto da Odirke, prima pubblicazione 17 luglio 2013, ore 22:35
(la foto presentata è presa dal web e non è la Tropical Lion)
Due turni di servizio di tre mesi ciascuno. Ricordo i particolari ma non so collocarmi nel tempo. Quello che seguirà sarà l’insieme dei due imbarchi. Una storia unica, per me… Una storia di uomini.. di personaggi..
LA NAVE
Immensa. Maestosa. Tonnellate di ferro sotto i piedi. Il maggior spazio possibile ricavato per ricevere l’oro nero. L’alloggio che mi fu assegnato non era molto più grande, però, di quelli in cui ero ospite su altre imbarcazioni. Ma non mancava nulla.
La Tropical Lion non era una nave “normale”. Era una “storage-tanker”. Ovvero una nave deposito. Era trattenuta a poppa da due bracci che la cingevano ai “fianchi” provenienti da una enorme boa (dal valore di cinque milioni di dollari). Con molta fantasia si poteva immaginare l’abbraccio “proibito” di un’amante.
Il petrolio veniva estratto in mare aperto non lontano da Arzanah. Il greggio confluiva sull’isola e da qui, tramite una condotta sottomarina, attraverso la boa per finire nel ventre del colosso galleggiante. Al ritmo di circa diecimila barili al giorno. In tre mesi le cisterne si riempivano così di un milione di barili. A quel punto arrivava la gemella della nostra. Si affiancava. Si allibava, e tutto il petrolio finiva sulla “Sea Lion”. Che lo avrebbe trasportato negli Stati Uniti, dopo un viaggio di un mese e mezzo.
La “mia” era comunque una nave a tutti gli effetti. Motore sempre in moto. Pronta a mollare i bracci della boa e partire in qualsiasi istante. I 27 uomini di equipaggio, tutti italiani, svolgevano le attività come se fossero in navigazione. Questo perché anni prima, durante la guerra Iran – Iraq , un gruppo di pasdaran silurarono vigliaccamente lo scafo rischiando di affondarla o, peggio, di farla saltare in aria. Morirono comunque due marittimi in quell’occasione.
Il destino volle che l’ignoranza dei banditi su come è strutturata una petroliera fece sì che confusero le cisterne del greggio con quelle della zavorra, piene d’acqua. Comunque quell’attacco costò sei mesi di lavori di riparazione a Dubai. Da quell’episodio i proprietari della Tropical Lion trassero un insegnamento. Al minimo cenno di avvisaglia, la nave doveva essere in grado si partire nel giro di un’ora al massimo.
Il primo compito di un ufficiale che imbarca per la prima volta su una nave è quello di conoscerne i segreti. Passò una settimana prima che memorizzassi collettori, linee, impianto gas inerte, pannelli di comando valvole e tutte quelle strumentazioni necessarie alla gestione del petrolio a bordo. Il locale adibito alle pompe per la movimentazione del greggio era enorme. Si sviluppava per un’altezza di 29 metri. Tantissimi piani serviti da ascensore e scale. Ed una miriade di tubi, valvole e marchingegni da tenere a mente. L’ascensore era lento e faceva perdere tempo. L’uso delle scale nel salire e scendere innumerevoli volte da quei pianerottoli e la temperatura interna di oltre 40° mi tolse diversi anni di vita. E poi il Ponte di Comando, il radar, il timone… Una full immersion intensa.
Avevo scelto non a caso di imbarcarmi li. Pur sapendo che non avrei navigato. Sono poche al mondo le navi che effettuano quel tipo di servizio. E che più di ogni altra regalava un’esperienza impagabile sulla gestione di una petroliere. Era un’occasione da non perdere, un’esperienza che si è rivelata tesoro impagabile e che mi ha ripagato negli anni successivi.
L’EQUIPAGGIO – IL COMANDANTE
Al mio arrivo a bordo mi fu consegnata la divisa sociale. Bella a vedersi, ma di un pessimo cotone americano che mi faceva sentire prurito dal collo ai piedi. Ed era obbligatorio indossarla, purtroppo. Mi presentai al Primo Ufficiale, un siciliano dai caratteri genetici di un norvegese, il quale mi disse che avrei conosciuto il Comandante durante la cena.
19.00. Da che mondo è mondo, i turni per soddisfare lo stomaco sulle navi sono sempre quelli. 11.00 e 12.00 a pranzo, 18.00 e 19.00 a cena. Da terzo Ufficiale qual’ero mi toccava il secondo turno serale, insieme a Comandante, Direttore, Terzo di Macchina, Primo di Coperta e Primo di Macchina.
Il mio posto era proprio di fronte al Direttore. Accanto al capotavola, che pensavo riservato al Comandante. Via via tutti gli altri. Quando il “Master” entrò mi venne incontro e mi salutò cordialmente. Era un toscano di Viareggio. Piccolo e molto rotondo, alla cui mano mancavano un paio di dita, frutto di uno spiacevole incidente in mare anni prima. Quando si accomodò su un tavolo tondo distante dal nostro, la cosa mi stupii non poco. La sua tovaglia era completamente foderata da uno strato di cellofan trasparente. Intanto il Direttore mi guardava con un sorriso divertito, come se non volesse perdersi nessun istante del mio linguaggio facciale.
Era un uomo che mi entrò subito in simpatia, un genovese vecchio stampo che, nonostante l’età, poteva considerarsi un vero e proprio “tombeur de femmes”. Alto, portamento elegante, ed un aspetto che non avrebbe sfigurato ad Hollywood.
E si deve essere divertito molto vedendo l’espressione del mio viso che osservava il cameriere cingere un tovagliolo…. Anzi no, una tovaglia intorno al collo del Comandante. “Ma non gli taglierà mica i capelli ora, qui a tavola ??” pensai.
Capii durante il corso della cena il perché. Era un gran forchetta e tra un boccone e l’altro di cibo esplorava i propri denti con uno stuzzicadenti che diveniva catapulta per i residui di alimenti che volavano sul suo tavolo e tutto intorno. Dove non riusciva lo stuzzicadenti, veniva in soccorso lo sputo. Giorgio, il Direttore, aveva le lacrime agli occhi nel guardarmi. Penso di non aver ingerito un solo pezzo di pane quella sera. E rimanevo rapito nel guardare il mio Superiore. Alla fine della cena, intorno al suo desco, era come se fosse scoppiata la guerra. E ci voleva solo il fegato del cameriere per ripulire tutto.
Ogni marittimo ha un soprannome. Quello del Comandante, mi confessò Giorgio, era… “la bestia”.
L’apice delle performance della “bestia” fu un paio di mesi dopo. Durante la visita a bordo di un ispettore statunitense. Che era malvisto da quella parte di equipaggio che lo conosceva da più tempo, Comandante compreso. Era alloggiato accanto a quest’ultimo, quale ospite di riguardo.
Al mattino, a colazione, gli disse “Master, ma si è sentito male stanotte ? Mi sembrava che si lamentasse, ero preoccupato stavo chiamando aiuto !”….
… La “bestia” alzò gli occhi stancamente… lo guardò e disse… “nooo, non ti preoccupà. M’ero solo fatto una sega con l’urlo”.
Pagherei ancora oggi per rivedere l’espressione di quell’ispettore. E forse anche la mia.
Non ho mai saputo se avesse scherzato o se era vero.
Da un Comandante ci si aspetterebbe altro stile, certo. Ma quello che imparai, alla fine di quell’esperienza, era che quando un equipaggio intero, nonostante tutto, vuole bene al proprio “capo”. Quando questi dimostra di essere un ottimo “marinaio”... E lo dimostrò più volte. Si possono perdonare anche le bizzarrie.
D’altronde la leggenda dice che su ogni nave ci sia il cartello… “se non sono matti, non ce li vogliamo”.
Ah si. Quelle dita mancanti. Venni a sapere, dopo che partii definitivamente da Arzanah, che le perse per salvare un collega. Non se ne vantò mai, con il suo equipaggio.
(continua)
Semper Fidelis
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