
O.Dirke 14 settembre 2012 ore 00:32
IL CORSO (Marzo)
Il trasferimento avvenne in treno. La tratta La Spezia – Taranto avrebbe visto passare un convoglio stipato di reclute, piene di entusiasmo per aver appena finito il pesante addestramento. Radaristi, marò cannonieri, marò siluristi, telegrafisti... tutti destinati all’altra Scuola Sottufficiali esistente in Italia (dopo La Maddalena) per partecipare ai rispettivi corsi ed essere formati sul “dovere” che avremmo espletato in seguito.
Io speravo di andare subito a bordo, ma un altro mese, mi augurai, sarebbe passato presto.
Durante la sosta in una delle stazioni di Roma, nonostante l’ora tarda (erano le tre di notte) eravamo tutti affacciati al finestrino. Non seppi mai chi iniziò. Non seppi mai il perchè. Ma prima una, poi dieci... venti.. centinaia di voci si elevarono in un coro da stadio. Un’ euforia misteriosa ci pervase tutti, e cantammo quel refrain finchè il treno ripartì per il suo itinerario. I pochi viaggiatori presenti sulle banchine dei binari ci guardavano sorridendo, apparentemente non infastiditi da tale fracasso. Chissà cosa fece scattare in noi quell’entusiasmo.
Altra caserma.
Le regole erano poche e chiare. Studio. Marce. Mangiare. Dormire. Studio. Marce. Libera uscita solo il mercoledì e la domenica pomeriggio, per tornare entro le 23. A turno, per tutti, sessioni di guardia armata al cancello.
Per uno scherzo del destino mi ritrovai in camerata Marino. Di Livorno. Proveniva, per uno sbaglio burocratico, dal CAR di Taranto, piuttosto che quello limitrofo di La Spezia. Avevamo percorso i cinque anni di Istituto Nautico labronico insieme, pur se in classi diverse. Lui nella sezione “A” dove venivano accolti i rampolli della “Livorno bene” ed io nella “B” dove erano radunate le “pecore nere” ed i “forestieri” come me, insieme agli elbani, cecinesi, castiglioncellesi...
Lo conoscevo solo di vista. A Taranto invece diventammo grandi amici, e lo siamo tuttora, condividendo molto, in quel mese di naja. Lui era lì per diventare “silurista”. Oggi lui è Pilota del Porto di Livorno, come lo fu suo padre. Marino, il mio “frà”.
Passoooo !!! Cadenz !
Non era cambiato assolutamente nulla dal mese precedente. L’unica differenza era che le marce erano interrotte dalle ore interminabili di corso.
Cinematica, bersagli, magnetron, banda X, banda S, saper distinguere tra un piovasco ed un oggetto... miriadi di nozioni che già conoscevo e che alla lunga mi annoiavano. Per altri invece la comprensione risultava più difficile.
I pasti. A La Spezia il “rancio” era rispettabile. Qui un incubo. “Gamelle” di acciaio e contenuto spesso e volentieri immangiabile. Chi riusciva a buttare giù il cibo, alla fine doveva andare a lavarsi il proprio vassoio in un catino di acqua sudicia e maleodorante con l’ausilio di uno spazzolone che di solito si compra solo per pulire la tazza del bagno.
Io e Marino diventammo così sempre più clienti affezionati dello “spaccio” (bar) interno. Un litro di latte, e quantità industriale di merendine confezionate ad ogni acquisto. Ma c’era un’altra alternativa. Scavalcare il muro della caserma ed “invadere” la struttura adiacente, dove si addestravano i “cannonieri”.
Il perchè era presto detto.
Nel nostro centro stazionavano duemila persone, e la mensa era il risultato di cotanta umanità. Dai nostri vicini la capienza massima era di duecentocinquanta soldati. E si mangiava come al ristorante. Non sempre era possibile effettuare quella “fuga per la polpetta”. Il rischio era enorme, e lo spettro di giorni di consegna o, peggio, di carcere ci ha spesso frenati. Ma le poche volte che ci riuscimmo fece sì che il nostro fegato ripigliasse fiato.
Il poco tempo libero a disposizione si passava a riposare mente e vesciche nella nostra camerata. E a studiare. Il rischio di rimanere bocciati era sempre reale. Marino s’era portato la chitarra con se. Memorabile una sera in cui intonammo “Albachiara” di Vasco Rossi. Altri commilitoni si aggiunsero al nostro improbabile “duetto” e, per pochi minuti, ci sembrò di essere a casa.
Passoooo !!! Cadenz !
Le libere uscite erano attese come il Messia. Due volte a settimana una serie di autobus cittadini entrava all’interno della struttura, ci caricava (noi rigorosamente ed obbligatoriamente in divisa) e ci conduceva in centro città.
Quattro, cinque ore di “franchigia”. Ma che davano l’illusione di rivivere. Girare per Taranto con la divisa non era consigliabile, all’epoca. La popolazione non vedeva di buon occhio i marinai. Trovammo la soluzione anche per quello. Io, Marino e altri tre amici ci portavamo nello zaino gli abiti “borghesi”. Andavamo al Bar Manhattan (o New York, non ricordo) sullo stupendo lungomare cittadino dove il gestore, diventato nostro “complice”, ci metteva a disposizione una stanza per cambiarci “d’abito”. Brevi momenti di spensierata normalità, la ripresa di una dimensione di ragazzi diciottenni.... Fino a quando gli stessi autobus ci risvegliavano dal sogno... e ci riconsegnavano al nostro destino.
Passoooo !!! Cadenz !
Arrivò il giorno di fine corso. E con esso l’annuncio, ad ognuno di noi, del nome della nave su cui avremmo proseguito il nostro Servizio.
Non parlavamo d’altro, da un mese a quella parte. “Chissà dove ci mandano”... “A me garberebbe andà sul Maestrale, c’è il mi cugino”... “Ajò, basta che sia in Sardegna e qualsiasi bagnaròla ve benne”... “Minchia, ma vuoi mettere supra a Vittorio Veneto ? iè la più grande ! ”... “Uagliò, io non voglio andà ‘ncopp a nu sommergibbile...”...
Speranze. Paure. Curiosità.
Io un sogno lo avevo. E non solo io. La Vespucci. La vidi la prima volta da bambino perchè mi ci portò mio padre un giorno. Dalla banchina del porto di Venezia ne ammirammo le fattezze, e ricordo mi disse... “se tuo nonno non m’avesse costretto a fare altro... è qui che sarei voluto essere...” . Mi è sempre rimasto impresso. Ma sapevo sarebbe stato quasi impossibile. Un pò perchè i radaristi, al 99%, erano destinati alle navi cosiddette “grigie”, tecnologiche.
Sulla Nave Scuola c’era spazio solo per nodi, ottoni, sartiame e vele. E un pò perchè l’Amerigo era meta per i migliori del corso, raccomandati o casi eccezionali che rappresentavano l’uno per cento mancante. Ma alla fine a me bastava andare a bordo di una qualsiasi Unità. E poter navigare.
Lo scenario del tanto atteso annuncio fu molto simile alla scena di quel mirabile film, “Full Metal Jacket”, in cui il terribile sergente, finito l’addestramento, snocciolava leggendo la lista nomi e assegnazioni.
“Marinaio Crotone! Promosso ! NAVE MAESTRALE!”
“Marinaio Milazzo! Promosso ! NAVE SCIROCCO!”
“Marinaio Macomer! Bocciato! torni a La Spezia per riassegnazione!”
“Marinaio Venezia! Promosso ! NAVE VITTORIO VENETO!”
.... eravamo 50 più o meno. Ed il Maresciallo sembrava si fosse dimenticato di me. Non venivo mai nominato.... fino a quando mancavo solo io.
“Marinaio Paolo! Promosso ! .... sticazzi.... NAVE VESPUCCI, complimenti montanaro!!”
Ho ancora nelle orecchie il boato di giubilo che seguì subito dopo. I miei compagni mi saltarono addosso per stringermi in un abbraccio, all’unisono. Io ero incredulo. Felice. Anzi.. credevo di volare...
Marino, che frequentava altro corso rispetto al mio, la sera mi disse che sarebbe imbarcato sulla Espero. Ci salutammo con un abbraccio che non finiva mai.
Poi telefonai a mio padre. Gli dissi la destinazione . Non pronunciò una sola parola. Ma lo sentivo piangere....
(continua)
“Non chi comincia, ma quel che persevera”
Semper Fidelis.