Parole da treno: quattro matrimoni e un funerale

24 novembre 2011 ore 10:31 segnala
Il controesodo è compiuto: totale, anche quest’anno. Tutti sono rientrati in carrozza, lo spazio vitale sui treni dei pendolari è tornato quello di sempre, minimo. Io sono “delocalizzato” a Pero, ormai da due anni: oggi la mia Milano è intuita e immaginata, dalle parole, dagli odori, dalla facce di quelli che ritrovo in treno. Topo di campagna scende prima e le sue cronache milanesi sono proiezioni di una realtà che s’intravvede all’orizzonte, dove la skyline del Portello cresce di giorno in giorno.
Giù in centro, all’ombra del Duomo, regalano abbracci, mentre a piazza Affari offrono ceffoni. Un cardinale fa le valigie, un altro sta per arrivare.
Crisi nera, lavoro a rischio, tasse da pagare, Tremonti e Berlusconi che prelevano altri soldi ai soliti italiani: ma i sopravvissuti da Milano, i compagni di viaggio che potrebbero riportare testimonianze di guerra o di gloria dalla città, di che parlano?
Di matrimoni. Di questi tempi, l’argomento clou più ricorrente nella conversazioni da treno è un invito a nozze: di una cugina, di una nipote, di un’amica, di un collega. Settembre andiamo, è tempo di sposarsi, si potrebbe dire.
Sprofondata sul sedile, in fondo a destra, una neolaureata parla al telefonino di una festa imminente: da secchiona sciatta e timida si trasformerà in avvenente pescatrice di uomini. Perché a ogni matrimonio che si rispetti c’è sempre chi gioca le proprie carte nella seduzione d’ignari ex compagni di scuola dello sposo. L’elemento determinante, a quanto pare, non è la laurea, benedetto foglio di carta, bensì la scollatura che la ragazza descrive nel dettaglio all’amica in ascolto dall’altra parte del telefono. La strategia è fondamentale e va preparata in anticipo.
Poco più dietro, invece, si scatena il dibattito tra un ragioniere senza sex appeal ma con tanta bella pancetta e un’un impiegata con girovita e petto larghi due fermate di tram: parlano di antipasti, di tortini al formaggio e salmone in crosta, quelli divorati pochi giorni prima alle nozze di una cugina. M’immagino la loro storia d’amore: un ragioniere e un’impiegata uniti in un’unica palla di lardo, mentre si riempiono la bocca a vicenda a colpi di tagliatelle al ragù.
Non c’è privacy sul vagone affollato e nemmeno la si pretende: e così, accanto ai ciccioni, si rivelano segreti di un’altra corsa all’altare di settembre, si gettano nel vento le storie di due sconosciuti innamorati incappati in una notte di troppa passione e in un preservativo bucato. Tra risatine e battute di finto gossip, mezza carrozza sembra inebriata da quel fatto che non li riguarda, che non riguarda nessuno di loro. O forse sì.
“Una mia amica che non trova marito, ha invece scoperto l’amicizia di un fisioterapista”, rivela sottovoce un’altra pendolare alla compagna di viaggio. “E come è andata a finire?”
“Che il massaggio dura un quarto d’ora in più, senza preliminari, ma con una piccola aggiunta sulla tariffa oraria”. Il matrimonio che non c’è e la sua consolazione misera: più che un pettegolezzo, sembra una morbosa confessione, ma tutto il resto si confonde nel brusìo generale della carrozza.
E lì accanto, c’è anche un bancario che parla di un suicidio, un colpo di pistola alla tempia, esploso alla fine delle vacanze. Settembre è il mese dei matrimoni, agosto quello dei suicidi. Un collega se n’è andato con un gesto estremo, senza un perché. A quanto pare.
I treni tornano a riempirsi di odori, di corpi stanchi e di storie: nel lento procedere delle solite giornate, Milano sembra più o meno quella che m’immaginavo. E si parla di vita e di morte.
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Il controesodo è compiuto: totale, anche quest’anno. Tutti sono rientrati in carrozza, lo spazio vitale sui treni dei pendolari è tornato quello di sempre, minimo. Io sono “delocalizzato” a Pero, ormai da due anni: oggi la mia Milano è intuita e immaginata, dalle parole, dagli odori, dalla facce di...
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24/11/2011 10:31:36
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“Il pesos della buena suerte”

24 novembre 2011 ore 10:00 segnala
-E ora che cazzo facciamo per due settimane senza un soldo?- chiesi a Martino rompendo il silenzio che durava ormai da diversi minuti. Scosse il capo e si alzò come al suo solito tirandosi su le maniche della maglietta.
-Quanti soldi ti sono rimasti?
-Pochi-
-Abbiamo ancora la tua carta no?
-La postepay? Si. Siano benedette le poste italiane. Comunque non ci sono soldi caricati.
-Facciamo due conti subito e poi dobbiamo trovare un telefono.
La cupola del campidoglio dell’ Havana ci guardava dall’alto con compassione. Eravamo come in gabbia. La piazza brulicante di gente sembrava osservarci come se fossimo bestie in agonia.
In quel momento li odiavo tutti i cubani, odiavo anche quella piazza . Odiavo me per non essere stato attento e Martino per non esserlo stato a sua volta.
Però in quel momento eravamo l’ uno l’ unica speranza dell’altro. Ci avevano appena fregato i soldi da cambiare, era il primo giorno all’Havana. Vivevamo la grande umiliazione di un furto avvenuto per una distrazione gravissima, da babbei.
Cominciammo a cercare un telefono. Ne trovammo uno che andava a scheda dentro un ufficio postale. Ovviamete, come tutto a Cuba, c’era da fare una fila di un chilometro.
Faceva un caldo infernale, eravamo sudati e assetati. Dopo aver speso 20 Pesos per la carta telefonica, gli ultimi soldi ci sarebbero bastati appena per tornare alla nostra abitazione e, forse, a mangiare per due giorni.
Riuscii a chiamare mia madre per dirle di mettere qualcosa sulla carta, le avrei restituito tutto al ritorno.
-Ma è possibile mai che te ne capita sempre una?
Sentire quella voce materna mi diede l’ energia necessaria per uscire dalla cabina senza svenire dal caldo. C’erano almeno 45 gradi là dentro e stavo lessando come una patata.
Ci tranquillizzammo un pò. Mi era rimasto un solo pesos a moneta, lo conservai, volevo tenerlo come ricordo. Avevamo poi qualche spicciolo di emergenza nelle tasche di Martino.
Arrivammo a casa distrutti a tarda sera dopo alcune ore di cammino. Avevamo fatto il turno per un pò di pane con delle donne cubane. In un supermercato, tra le pochissime cose in esposizione sugli scaffali quasi vuoti, avevamo scelto delle minuscole scatolette sospette con fagioli e carne di “UROGALLO”.
-Almeno mangiamo un pò di carne… proteine- disse Martino.
Aprimmo la scatoletta e cavammo via il contenuto in un piattino. Cadevano solo fagioli.
-Ma…e la carne?-
Finiti i fagioli si staccò dal fondo della latta un pezzetto di “carne” non ben riconducibile a nessun tipo di animale se non di una specie estinta o addirittura mitologica. Sembrava carne fossile. Era grande come una fetta di salamino, al suo interno si potevano riconoscere delle strane sfumature grigio chiaro simil-grasso.
Ricordo ancora il rumore sinistro e schifoso che fece quando toccò il piatto: “splat”. Avevo già sentito quel suono quando da bambino giocavo con lo Skifiltor, una gelatina verde muco fluorescente.


Tagliammo in due la preziosa provvista e la ingoiammo per ultima dopo i terribili fagioli. Quella roba avrebbe avuto un aspetto migliore in uscita, poche ore più tardi. Eravamo andati per documentare una rivoluzione e stavamo invece vivendo l’embargo sulla nostra fragile pelle di europei.
A notte fonda mi alzai per bere un pò d’acqua. I vicini di casa vivevano a stretto contatto con noi. Le due abitazioni erano separate da un muro poco più alto di due metri e da un incannucciato.
Per questo motivo ogni volta che il massiccio padrone della casa accanto andava al cesso io lo sentivo tanto nitidamente che mi sembrava di averlo in braccio.
Neanche io quella notte li risparmiai da rumori sinistri comunque.
Mi svegliai verso le 10 riposato e ben intenzionato a cancellare il giorno passato. Martino era già in piedi da ore. Lo avevo intravisto aprendo un occhio verso le 5 del mattino che, come un fantasma, faceva su e giù per lo stretto corridoio.
-Ti devo parlare- disse con una faccia quasi sconvolta – stanotte è stata terribile.
-Io ho dormito bene invece, me ne sono fatto una ragione.
-Io ho avuto dei brutti pensieri, volevo tornare a casa da mio figlio. Ero come impazzito.
-Tranquillo ora ci facciamo un bel giro, sappiamo che dobbiamo stare attenti e non ci succederà nulla, non hanno più niente da toglierci del resto.

Uscimmo a fare un giro alla ricerca di posti dove vanno solo i cubani, tutto il resto era fuori dalla nostra portata. Riuscimmo a trovare un internet point in centro città. Aspettammo almeno mezz’ora per entrare e trovammo la connessione lenta da fare impazzire. Bestemmiai ad alta voce tutto il tempo. Martino ogni tanto si girava e mi guardava imbarazzato, poi si rimetteva a scrivere.
Dovevamo partire entro due giorni o saremmo scoppiati. Quella città era stato un trauma e l’unico modo per passare avanti era andarsene, ma sapevamo che sulla carta sarebbero arrivati alcuni soldi solo il giorno dopo, e non potevamo ancora muoverci. Cominciò a pesare il fatto che fossimo soli contro tutti. Ancora non avevamo molta esperienza in quanto a solitudine e tutto pesava doppio.
Se ogni luogo che visitiamo rimane nella nostra memoria anche per gli incontri che si sono fatti, sarebbe bastato un solo incontro felice per far posto all’Havana tra i bei ricordi.

Camminavamo sul lungomare senza una meta particolare, Martino sfogliava la sua guida in cerca di un museo.
-Effettivamente c’è il museo del Rum qua vicino.
-Martino, io odio i musei, e poi il rum mi fa cagare.
-Si in effetti anche a me.
Arrivammo per inerzia davanti al museo. Al banco della biglietteria un uomo stava spiegando a due turiste il programma della gita.
Quelle due turiste erano davvero affascinanti, erano madre e figlia, sole.
Entrammo con aria marpiona senza neanche averlo premeditato e cominciammo a fare i simpatici con il bigliettaio.
Il biglietto era ben 5 Pesos (5 euro circa) ma sia io che Martino ce la pensammo.
-Obiettivamente Martino, che buttiamo a fare 5 Pesos che non abbiamo soldi neanche per mangiare? Voglio dire, neanche avendoceli i soldi ci entrerei…certo però…
-Però?
-Non so sento che magari dovremmo entrare…
-Si pure io…
-Senti facciamo a sorte.
Uscii dalla tasca il mio pesos souvenir, lo tirai in alto e lo afferrai con una mano.
-Allora testa si entra e croce si esce.
-Andata.
Aprii il pugno: testa. E testa fu.
Entrammo a pagare i tanto preziosi 5 pesos e andammo a sederci con le due turiste che attendevano che la guida formasse i gruppi per il giro nel museo. Loro non avevano idea della nostra condizione.
Inizialmente fu Martino ad attaccare bottone. La più grande delle due era sulla quarantina, una bella californiana con origini ebree, l’atra Adi, la figlia, era poco più piccola di me, bionda con occhi verdi.
La speranza di trovare un’amicizia femminile mi avrebbe trascinato ovunque in quel momento, mi serviva come l’aria. Ci bastava solo parlare di altro con altri, dimenticare la nostra umiliazione per un pò.
Adi si dimostrò subito discreta e dolce, inizialmente forse un pò troppo riservata. Faceva la guida turistica in Nicaragua ed era in vacanza cn sua madre che non vedeva da sei mesi.
Il museo era l’ultimo posto dove andare, per due che non hanno soldi, ma quel giorno non avremmo potuto essere da nessun’altra parte per sentirci meglio.
La guida ogni tanto diceva delle cazzate e io e Martino facevamo qualche battutaccia per farglielo notare suscitando le risate della gente.
Per esempio in una delle stanze c’erano tre piccole botti dalle quali sgorgava una sostanza che venne indicata dalla guida come alcool rispettivamente al 70% all’ 80% e al 90%.
-Per i coraggiosi che volessero provare abbiamo anche un bicchiere a disposizione.
Ovviamente scherzava, nessuno si fece avanti. Appena ci voltò le spalle andai ad assaggiare l’alcool. Era solo acqua sporca.
-Com’é?-chiese Adi.
-Beh, di certo è l’acqua più forte che io abbia mai bevuto in vita mia.
Rise e comunicò la cosa a sua madre che andò ad assaggiarla a sua volta.Tutte e due erano fantastiche, le classiche donne di buona famiglia pronte però a far baldoria. Adi ovviamente essendo più giovane era più estroversa, piena di energie, ed essendo più esperta del luogo faceva un pò da balia a sua mamma.
Martino era divertito da questo nuovo quartetto. Anche lui sentiva il bisogno di confrontarsi con qualcuno che non fossi io. All’uscita del museo avevamo già stretto una certa confidenza.
Le invitai a pranzo. Martino non era molto convinto, ma anche lui sapeva che ci avrebbe fatto bene. Quel pranzo significava rimanere a secco totale fino alla ricarica che non sarebbe stata di certo necessaria per viaggiare per altre due settimane. -Ci inventeremo qualcosa-, gli dissi.
Trovammo una ex casa coloniale adibita a ristorante. Era ricca di verdi piantine sistemate lungo le pareti ammattonate con graziose mattonelle di porcellana azzurra. Un gruppetto suonava la salsa con due chitarre e un contrabbasso. Il nostro gruppo aveva già rotto il ghiaccio da un pezzo. Parlammo molto insieme, soprattutto per dimenticare il fatto che la carne che ci avevano portato sembrava un surrogato della Pirelli: gomma allo stato puro.
Non c’è cosa più bella del poter parlare in tranquillità, lontani dalle ansie. Ie Adi parlavamo dell’America, di Cuba, del nostro lavoro, mentre Martino si cimentava in inglese maccheronico su temi di alta psicologia, poichè la sua interlocutrice era psicologa, esattamente come lui. Ad un tratto si avvicinò a noi un uomo piuttosto vecchio, un mendicante. Aveva una magliettina rossa mal ridotta, un bastone di legno robusto e un sacchetto con delle cianfrusaglie di vario genere. Mi chiese un soldo, io ne avevo uno solo: il pesos che mi aveva fatto incontrare Adi e mi aveva portato fortuna.
Lo cavai fuori dalla tasca e gli dissi: “Signore ho solo questo, ma è un Pesos de la buona sorte”, lui sorrise e mi disse “grazie signore, speriamo nella buona sorte”.
Andò via con passo lento, senza fretta. Credo che quell’uomo non abbia mai avuto fretta nella sua vita. Comunicava un senso incredibile di calma e tranquillità. A dire il vero tutta la gente intorno a noi sembrava tranquilla e serena, solo noi sembravamo dei naufraghi.
Bestemmiavo dentro di me, tutto era sbagliato tranne la moneta della buona sorte. Per fortuna basta poco a volte per rimediare ai propri errori, imparammo una lezione che mi porto dentro ormai come una legge.

Presto il racconto di Baracoa e della finca di Guantanamo, dove trovammo la nostra ragione di essere a Cuba, le strategie del sopravvivere senza soldi e dove capimmo, sempre a spese nostre, cosa significa essere sotto una dittatura come quella.