In questi casi, solo perché siamo in relazione con quella persona ci sentiamo quasi autorizzati a prendere parte all’allegra o spiacevole disputa. Insomma cerchiamo di renderci utili, far capire che ci siamo, far capire che “lei” può contare su di noi. Questo comportamento è quasi istintivo nell’essere umano e, quanto più forte è il legame con “l’altra” (persona) più è automatico il nostro “ingresso in campo” anche senza essere chiamati direttamente in gioco. Avvertiamo il dovere morale di “schierarci”, di far comprendere come la pensiamo, di dare un messaggio preciso sul “da che parte stiamo.”
Se questo processo non avviene spontaneamente, credo che quella relazione o non esiste o non è tanto forte o siamo in una situazione personale di totale refrattarietà caratteriale a tutto ciò che ci circonda se non addirittura di vigliaccheria sociale. In questi casi metterei addirittura in discussione l’esistenza morale stessa del soggetto che rimane fermo, che non si senta automaticamente implicato.
Assodato quindi che questo tipo di “intromissione”, chiamiamola spontanea, sia di prassi in ogni tipo di rapporto degno di questo nome il problema, si sposta esclusivamente sull’efficacia di quella intromissione. Ebbene, su questo c’è poco da speculare. L’efficacia della nostra intromissione dipende, esclusivamente, dal modo in cui sono calati tutti gli interlocutori partecipanti: educazione, cultura, modi di pensare, sensibilità, ecc. ecc. Più questi mondi si avvicino al proprio, più essi girano nella stessa orbita, più il nostro ”intervento spontaneo” avrà successo, indipendentemente dal modo di porsi e sarà ben visto, nonostante una forte divergenza di opinione, di fondo. Più i mondi saranno distanti, invece, più il nostro ”intervento spontaneo”, anche se pacato come il Vangelo sarà visto come il “nemico da abbattere” assolutamente. Ed in questo caso non si deve parlare di mondi migliori o modi peggiori ma, solo di mondi diversi. E la diversità molto difficilmente trova integrazione, a meno che non intervengano altri fattori quali l’amore o la consanguineità. La soluzione, quindi, in questo caso è una sola. Come sosteneva Kant nella sua opera “Progetto per la pace perpetua”, la soluzione è “l’abbandono del campo”. Quel gesto vuol dire: “ti lascio con le tue convinzioni, magari giuste”, “non capisco o non voglio capire il tuo mondo”, “me ne esco perché non ne sono all’altezza o perché non lo sopporto”; “è inutile che io sia qui a parlare con te perché non ci arriveresti mai o io non arriverei mai a capire quello che dici tu”; …insomma un gesto che pone fine a qualsiasi divergenza che possa sfociare in qualcosa di più deleterio, mortificante ed errato e che non avrebbe mai fine.
Chi abbandona il campo, conclude Kant, è sempre un uomo di grande rispetto e sensibilità, perché egli, con quel gesto che, nessuno immagina quanto gli sia costato, ha mosso un passo, molto importante, verso la pace; e solo per questo sarà sempre….il vincitore!

Poi mi chiedi come sto....
E il tuo sorriso spegne i tormenti e le domande...