Sulle coste calabresi della provincia di Crotone è giunto senza vita il corpo di un bambino di pochi mesi.
Almeno altri 20 bambini sono rimasti vittime del naufragio.
Non avevano con loro peluche - almeno non al momento del ritrovamento - e questo credo giustifichi l’assenza sul luogo del naufragio della Presidente del Consiglio.
Ma se ad attendere l’arrivo dei loro corpi non hanno trovato chi solo qualche giorno fa mostrava lacrime sincere per le sepolture di altri bambini come loro – beh forse non proprio come loro – hanno, comunque, trovato le autorevoli dichiarazioni del nostro Ministro degli Interni, che non ha esitato a rivolgere loro un pensiero.
Con una prontezza sicuramente tranquillizzante, egli ha saputo immediatamente trovare il colpevole delle loro morti, il loro assassino: l’irresponsabilità dei genitori, che li hanno fatti salire su un’imbarcazione fatiscente e pericolosa.
Può suonare un po' macabro puntare il dito su altre salme o poco rispettoso accusare chi in quel momento era riverso sulla sabbia a piangere, con umana disperazione la loro morte, ma il Ministro è uomo d’onore e non avrebbe pronunciato quelle parole, se non dopo un’attenta analisi della situazione.
Analisi attenta almeno quanto quella che ha sconsigliato di soccorrere l’imbarcazione quasi ventiquattro ore prima – al momento della prima segnalazione di imbarcazione in difficoltà – e anche qualche ora prima del naufragio: attenta valutazione, che ha scongiurato di mettere in pericolo le motovedette della Guardia Costiera, che avrebbero rischiato grosso a salpare con un mare forza sette.
E non importa se quelle preservate erano navi abituate a ben altre condizioni di mare: la domanda da porsi – e che correttamente il Ministro si è posta – è per quale ragione dovremmo mettere in pericolo le nostre imbarcazioni per salvare dei bambini di cui non si sono preoccupati nemmeno i genitori?
D’altra parte il Ministro ci ha rassicurato sul fatto che lui non avrebbe mai consentito ai suoi figli di salire su una simile imbarcazione, perché lui, a differenza di quei genitori snaturati, ai figli gli vuole bene!
È facile demagogia attaccarlo dicendo che una simile affermazione da parte di chi è abituato a viver nell’agio e non ha mai sperimentato qualcosa di orribile a cui fuggire non ha nessun senso, credo che, invece, essa dimostri che il nostro Ministro, oltre che uomo d’onore, è anche responsabile e attaccato alla famiglia: insomma, un vero italiano e bene abbiamo fatto a conferirgli l’attuale carica.
Peraltro, dopo il naufragio – probabilmente per il miglioramento drastico delle condizioni del mare – le nostre motovedette – quelle rimaste a nostro servizio e non regalate strategicamente e con lungimiranza ai nostri dirimpettai – si sono affrettate ad avvicinare l’imbarcazione, a salvare chi era riuscito ad aggrapparsi a qualcosa ed a recuperare il carico residuale senza vita, che galleggiava sulle onde in tumulto.
Il mare ha poi provveduto a restituire i corpi rimasti in acqua e continuerà a farlo nei prossimi giorni, quello stesso mare che, agitandosi furiosamente, ha eroicamente provveduto – per usare le parole care al Ministro dei Trasporti – a difendere le nostre coste dall’invasione del nemico.
Si ha un bel dire che bambini non potevano costituire un pericolo, così come la capitana della nazionale di hockey pakistana, pure vittima del naufragio: il pericolo c’è ed è terribile.
Ce lo dice l’intero Governo ad ogni piè sospinto ed io ci credo, perché gli uomini del nostro Governo son uomini d’onore e meritano fiducia.
Dopo un mai adeguatamente censurato San Remo, che ha messo a dura prova la famiglia e l’identità di genere, non possiamo permettere di porre a rischio anche l’integrità della razza italica.
Ce lo ha spiegato anche il Presidente del Senato, allorquando è intervenuto nella conferenza stampa indetta dal suo partito per presentare la meritoria iniziativa di aiuti al popolo ucraino in fuga dalla guerra: “Questa tragedia, diciamolo, ci colpisce di più perché ci identifichiamo con il popolo ucraino, perché sono come noi”!
Ora, le immagini non hanno consentito di vedere nel dettaglio la fisionomia del carico residuale adagiato sulla sabbia di Crotone, ma sono certo, Signori benpensanti, che non fossero proprio come NOI!
Ma il Ministro – in uno con la Presidente del Consiglio – non si è limitato a stigmatizzare giustamente il comportamento di quei genitori snaturati, ma ha anche sapientemente e con lungimiranza dato la soluzione, la ricetta per evitare che simili tragedie abbiano a ripetersi: occorre fermare gli scafisti, impedire loro di costringere la gente a salire per lucro su simili baracche galleggianti, adoperarsi perché i migranti restino in salvo sulla terra ferma.
Si ha un bel dire che gli scafisti sono dei semplici approfittatori senza scrupoli e che non vanno di certo a rapire le persone per costringerle ad imbarcarsi.
Si ha un bel dire che è la disperazione che porta a preferire il rischio del naufragio alla permanenza nei luoghi da cui scappano.
Si ha un bel dire che, eliminati gli scafisti, rimarrebbe la disperazione, che muove alla fuga e che magari la morte la troverebbero per altre mani sulla terra ferma.
Si ha un bel dire che un volo aereo – comodo e sicuro – costerebbe loro meno di una traversata su una stamberga, ma che quel volo a loro non è concesso.
Si ha un bel dire che scappano da situazioni da incubo, createsi per gran parte per effetto delle scellerate iniziative dell’occidente, che, per interessi economici e di potere, ha seminato guerre in ogni dove, abbandonato Stati in situazioni di disastro totale, consentito che Stati storicamente laici andassero verso la deriva fondamentalista, creando instabilità e privazioni di libertà.
Se il Ministro e la Presidente del Consiglio hanno dichiarato questo evidentemente conoscono fatti e dinamiche, che i benpensanti non conoscono ed io ci credo, perché sono uomini d’onore.
Qualche maligno ha trovato da ridire anche sulla dichiarazione finale della premier, quella relativa al fermo impegno dell’Italia a continuare a rifornire armi all’Ucraina per difendere il popolo esposto ai rischi quotidiani della guerra.
Qualche benpensante ha osato – con un utilizzo quantomeno discutibile della logica – fare un appunto basato sul doppiopesismo che le due dichiarazioni – quella sui migranti da fermare sulle loro coste e quella sugli ucraini da salvare con l’invio delle armi – rivelerebbero.
Costoro, dopo aver riso stupidamente sul costo zero della fornitura delle armi, hanno applicato questa evidente forzatura al limpido pensiero della premier: se la morte dei migranti non si evita soccorrendoli o aiutandoli, ma impedendo loro di fuggire, perché la morte degli ucraini non si può evitare impedendo la fornitura delle armi, fermando la resistenza e favorendo l’occupazione e la fine della guerra?
Ma che domanda è? Perché gli ucraini lottano per la libertà!
Come dite? Anche i migranti fuggono per trovare la libertà?
Non è così.
Lo hanno detto autorevoli esponenti del Governo e sono tutte persone d’onore ed io ci credo!
ONORE E PREGIUDIZIO
01 marzo 2023 ore 19:33 segnala7c242d6a-9bdc-43fb-a46d-76bfc5bbf502
Sulle coste calabresi della provincia di Crotone è giunto senza vita il corpo di un bambino di pochi mesi.
Almeno altri 20 bambini sono rimasti vittime del naufragio.
Non avevano con loro peluche - almeno non al momento del ritrovamento - e questo credo giustifichi l’assenza sul luogo del naufragio...
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01/03/2023 19:33:46
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Il pescatore di asterischi
22 ottobre 2022 ore 13:05 segnala
In paese lo conoscevano tutti come il Pescatore di asterischi, ma a nessuno era ormai più chiaro il motivo, che diede origine a quel soprannome.
Qualcuno non avrebbe nemmeno saputo dire quale fosse il suo vero nome, quello sancito dall’aspersione e registrato dall’anagrafe.
Molti lo usavano senza nemmeno oramai porsi il problema, alcuni in forma sincopata: “Ciao Pescatò, oh è arrivato Asterisco, chi si vede, Aster…”.
Altri, invece, si interrogavano nei momenti di noia sull’origine di quel curioso soprannome.
Così nascevano animate discussioni, il più delle volte intorno ad un tavolino del bar.
Succedeva che il Pescatore di asterischi prendeva un caffè, pagava, usciva dal bar salutando i vecchietti intenti alla quotidiana partita a carte e loro educatamente rispondevano: “Ciao Pescatore, buona giornata anche a te”.
Seguiva per solito un attimo di silenzio, gli occhi ritornavano a studiare le carte, ma immancabilmente qualcuno alzando lo sguardo diceva: “ma poi perché se chiama così?”.
Alcuni lo attribuivano al suo carattere distratto e sognatore, rifacendosi all’etimo della parola asterisco.
Qualcuno più concreto dubitava di tale ricostruzione, perché se soddisfaceva il bisogno di spiegare la parola asterisco, lasciava intatta – ed anzi rafforzava – l’oscurità nell’uso della parola pescatore: “le stelle stanno in cielo, mentre si pesca nell’acqua!” erano soliti dire, con l’espressione sorniona di chi irride l’altrui ingenuità.
I più acculturati sorridevano, invece, del loro semplicistico pragmatismo e si accingevano a spiegare che nemmeno la luna sta davvero nel pozzo, ma che è proprio del sognatore credere nelle illusioni, comprese quelle ottiche, credendo possibile ciò che non lo è, compreso pescare ciò che è solo fallace apparenza.
Alcuni – pochi per vero – abituati a cercare sempre un motivo di pettegolezzo, attribuivano il soprannome alla non specchiata “mascolinità” del nostro, ad un suo preteso gusto neutro, di bosco e di riviera, come si usava dire una volta.
In fondo si sa che l’asterisco viene usato al termine delle parole per non definire, per non chiudere un genere, esattamente come lui non ci badava affatto al genere…
Quelli che si vantavano di avere idee, per così dire, più progressiste solitamente li zittivano stizziti e così c’era sempre chi concludeva il discorso con l’immancabile “ma che stai a dì, a me pare normalissimo Pescatore”, con il che cadendo nel più classico degli ossimori, finendo inconsciamente per negare quel pensiero progressista, che pure si vantava di avere.
Altri millantavano di ricordare perfettamente il momento in cui qualcuno per primo lo iniziò a chiamare così.
Riferivano, abbassando la voce come se stessero rivelando qualcosa di misterioso e che avrebbe potuto cambiare la vita degli astanti, che il nostro protagonista era solito avventurarsi in discorsi assai articolati, ma che alla fine sorvolava su alcuni passaggi, finendo per lasciare gli interlocutori sempre a metà, sospesi tra un filo logico da seguire e un qualcosa da capire, come coloro che scrivono e omettono parole, nomi o frasi, inserendo asterischi.
Da lì il nome.
Tra di loro, i più malevoli, sostenevano che il Pescatore usasse questa tecnica per far intendere un pensiero oltre, un qualcosa che gli altri non potevano capire, che non valesse nemmeno la pena spiegare, così accreditando una superiorità, laddove c’era una incapacità di espressione.
C’era tra di loro, però, qualcuno che non credeva a nessuna di queste spiegazioni, che le vedeva più come ipotesi personali non “scientificamente ortodosse” e che riteneva che solo lui, solo chi portava da decenni quel nomignolo potesse svelare l’arcano con un crisma di ufficialità.
Fu così che un giorno qualcuno prese il coraggio a due mani e pretese l’interpretazione autentica: “Pescatò, viè un po' qua, toglimi una curiosità, ma a te perché te chiamano così? Chi te lo ha dato sto soprannome?”
Il nostro sorrise, si fermò a guardare l’interlocutore e dopo qualche attimo di riflessivo silenzio disse: “io, me lo sono dato io questo soprannome”.
Alla frase seguì un brusio – a dire il vero abbastanza comprensibile, ove si consideri che eravamo in presenza di un vero e proprio ribaltamento della tradizione, che vuole il soprannome come subito e non già come scelto – interrotto dalla più spontanea delle domande: “Tu? E perché?”.
Il nostro esitò, perché non era così sicuro di voler rivelare qualcosa, che diceva molto della sua natura più intima, di quella parte che ognuno preferisce tenere per sé.
Poi, però, cominciò a spiegare, perché in fondo qualcuno finalmente aveva posto quella domanda, che si aspettava da decenni, ma che nessuno aveva avuto interesse a formulare.
L’interesse meritava un premio.
“Vedete, c’è sempre un momento nella vita di ognuno di noi, nel quale qualcosa o qualcuno ci mette davanti a noi stessi, a quello che siamo davvero, alla nostra ontologia prima, a quello che magari sospettavamo, che spesso rifuggivamo. Qualcosa o qualcuno che ci porta alla consapevolezza, spesso salvifica, altre volte dolorosa. Io studiavo letteratura ed un giorno mi imbattei nell’uso degli asterischi. Vedete gli asterischi hanno due funzioni: rimandano alle note a piè di pagina e indicano parole di cui è lecito sospettare della reale esistenza, che più che esistere sul piano reale sono delle ipotesi, parole della cui origine poco o niente si sa dire. Ecco, molti di voi non sanno che sono vissuto in orfanatrofio e che non ho mai saputo chi fossero i miei genitori. Ero, insomma, un nome, una parola di origine incerta. Ero figlio di un’ipotesi, esattamente come una parola marchiata da un asterisco. Privato dell’attenzione di un padre o di una madre, sono cresciuto nell’indifferenza di tutti. Niente di quello che dicevo o pensavo o facevo interessava davvero a qualcuno. Quando nessuno ti dà importanza finisci per dubitare davvero della tua esistenza. Uscito dal collegio dove ho studiato le cose non sono cambiate. Tutti avevano affetti, famiglie, amori, insomma tutti avevano una radice certa, solida. Tutti possedevano la certezza di sé stessi, di quello che erano, di quello che rappresentavano per qualcuno o per molti. Io no. Io vivevo in una sorta di nebulosa, che magari un giorno può anche trasformarsi in qualcosa – in un mondo, in una galassia addirittura – ma che nel presente non è concretamente nulla. Quando sei un’ipotesi per te stesso, gli altri cominciano a vederti così. Anzi. Finiscono per non vederti affatto. E così in ogni cosa, in ogni circostanza finivo per essere una nota a piè di pagina, di quelle scritte con carattere talmente piccolo, che nessuno legge mai davvero. Di quelle che, interrompendo il filo del discorso principale, tutti evitano per concentrarsi su cose più sostanziali, più importanti. Insomma io ho vissuto sempre come una nota a piè di pagina, un trafiletto in basso nella pagina della cronaca giornaliera, le varie e eventuali di un ordine del giorno. Fu così che mi identificai nell’asterisco, perché mi rappresentava, perché si adattava alla mia vita. In tutti i suoi significati. In fondo in ogni contesto io pescavo solo asterischi. E allora perché continuare ad usare un nome dall’origine incerta, perché farsi chiamare con un nome o peggio con un cognome, che da sempre indica appartenenza, quando in realtà tu una radice non ce l’hai. Perché usare un nome che identifica dalla nascita alla morte una vita, se in realtà tu stesso per primo dubiti della tua esistenza. Meglio sceglierti un soprannome, di cui sei certo della provenienza e che realmente ti definisce, definisce la tua essenza. Quel giorno decisi di ribattezzarmi, di nascere a nuova vita, magari sarebbe più giusto dire che decisi finalmente di nascere. Da qui il soprannome”.
Colui che aveva fatto la domanda arrossì e chiese scusa per la sua impertinenza, mostrò imbarazzo per aver forse rinnovato un dolore e costretto ad una non voluta confessione chi aveva serbato per decenni quel segreto.
Ma Pescatore di asterischi lo guardò con occhi quasi commossi e aggiunse: “Non devi chiedermi scusa, anzi, al contrario, sono io che devo ringraziarti. Il fatto che per decenni a nessuno fosse venuto in mente di domandarmi il perché di quel soprannome, il fatto che i più non ricordini nemmeno quale sia il mio nome di battesimo, il fatto che nessuno avesse trovato il tempo per riflettere su di me, per farsi venire anche una banale curiosità, per considerarmi davvero un essere umano con una sua concreta esistenza e non un avvenimento fenomenico di nessuna importanza, aveva chiarito in me che mai soprannome era stato più adatto. Tu mi hai dato oggi finalmente quel crisma di esistenza che il mondo mi aveva negato. Di questo ti ringrazio”.
Sorrise cordialmente e fece per allontanarsi.
Si fermò e si girò di nuovo verso il tavolino.
“Franco”, aggiunse, “mi chiamo Franco. Io sono Franco”.
Qualcuno non avrebbe nemmeno saputo dire quale fosse il suo vero nome, quello sancito dall’aspersione e registrato dall’anagrafe.
Molti lo usavano senza nemmeno oramai porsi il problema, alcuni in forma sincopata: “Ciao Pescatò, oh è arrivato Asterisco, chi si vede, Aster…”.
Altri, invece, si interrogavano nei momenti di noia sull’origine di quel curioso soprannome.
Così nascevano animate discussioni, il più delle volte intorno ad un tavolino del bar.
Succedeva che il Pescatore di asterischi prendeva un caffè, pagava, usciva dal bar salutando i vecchietti intenti alla quotidiana partita a carte e loro educatamente rispondevano: “Ciao Pescatore, buona giornata anche a te”.
Seguiva per solito un attimo di silenzio, gli occhi ritornavano a studiare le carte, ma immancabilmente qualcuno alzando lo sguardo diceva: “ma poi perché se chiama così?”.
Alcuni lo attribuivano al suo carattere distratto e sognatore, rifacendosi all’etimo della parola asterisco.
Qualcuno più concreto dubitava di tale ricostruzione, perché se soddisfaceva il bisogno di spiegare la parola asterisco, lasciava intatta – ed anzi rafforzava – l’oscurità nell’uso della parola pescatore: “le stelle stanno in cielo, mentre si pesca nell’acqua!” erano soliti dire, con l’espressione sorniona di chi irride l’altrui ingenuità.
I più acculturati sorridevano, invece, del loro semplicistico pragmatismo e si accingevano a spiegare che nemmeno la luna sta davvero nel pozzo, ma che è proprio del sognatore credere nelle illusioni, comprese quelle ottiche, credendo possibile ciò che non lo è, compreso pescare ciò che è solo fallace apparenza.
Alcuni – pochi per vero – abituati a cercare sempre un motivo di pettegolezzo, attribuivano il soprannome alla non specchiata “mascolinità” del nostro, ad un suo preteso gusto neutro, di bosco e di riviera, come si usava dire una volta.
In fondo si sa che l’asterisco viene usato al termine delle parole per non definire, per non chiudere un genere, esattamente come lui non ci badava affatto al genere…
Quelli che si vantavano di avere idee, per così dire, più progressiste solitamente li zittivano stizziti e così c’era sempre chi concludeva il discorso con l’immancabile “ma che stai a dì, a me pare normalissimo Pescatore”, con il che cadendo nel più classico degli ossimori, finendo inconsciamente per negare quel pensiero progressista, che pure si vantava di avere.
Altri millantavano di ricordare perfettamente il momento in cui qualcuno per primo lo iniziò a chiamare così.
Riferivano, abbassando la voce come se stessero rivelando qualcosa di misterioso e che avrebbe potuto cambiare la vita degli astanti, che il nostro protagonista era solito avventurarsi in discorsi assai articolati, ma che alla fine sorvolava su alcuni passaggi, finendo per lasciare gli interlocutori sempre a metà, sospesi tra un filo logico da seguire e un qualcosa da capire, come coloro che scrivono e omettono parole, nomi o frasi, inserendo asterischi.
Da lì il nome.
Tra di loro, i più malevoli, sostenevano che il Pescatore usasse questa tecnica per far intendere un pensiero oltre, un qualcosa che gli altri non potevano capire, che non valesse nemmeno la pena spiegare, così accreditando una superiorità, laddove c’era una incapacità di espressione.
C’era tra di loro, però, qualcuno che non credeva a nessuna di queste spiegazioni, che le vedeva più come ipotesi personali non “scientificamente ortodosse” e che riteneva che solo lui, solo chi portava da decenni quel nomignolo potesse svelare l’arcano con un crisma di ufficialità.
Fu così che un giorno qualcuno prese il coraggio a due mani e pretese l’interpretazione autentica: “Pescatò, viè un po' qua, toglimi una curiosità, ma a te perché te chiamano così? Chi te lo ha dato sto soprannome?”
Il nostro sorrise, si fermò a guardare l’interlocutore e dopo qualche attimo di riflessivo silenzio disse: “io, me lo sono dato io questo soprannome”.
Alla frase seguì un brusio – a dire il vero abbastanza comprensibile, ove si consideri che eravamo in presenza di un vero e proprio ribaltamento della tradizione, che vuole il soprannome come subito e non già come scelto – interrotto dalla più spontanea delle domande: “Tu? E perché?”.
Il nostro esitò, perché non era così sicuro di voler rivelare qualcosa, che diceva molto della sua natura più intima, di quella parte che ognuno preferisce tenere per sé.
Poi, però, cominciò a spiegare, perché in fondo qualcuno finalmente aveva posto quella domanda, che si aspettava da decenni, ma che nessuno aveva avuto interesse a formulare.
L’interesse meritava un premio.
“Vedete, c’è sempre un momento nella vita di ognuno di noi, nel quale qualcosa o qualcuno ci mette davanti a noi stessi, a quello che siamo davvero, alla nostra ontologia prima, a quello che magari sospettavamo, che spesso rifuggivamo. Qualcosa o qualcuno che ci porta alla consapevolezza, spesso salvifica, altre volte dolorosa. Io studiavo letteratura ed un giorno mi imbattei nell’uso degli asterischi. Vedete gli asterischi hanno due funzioni: rimandano alle note a piè di pagina e indicano parole di cui è lecito sospettare della reale esistenza, che più che esistere sul piano reale sono delle ipotesi, parole della cui origine poco o niente si sa dire. Ecco, molti di voi non sanno che sono vissuto in orfanatrofio e che non ho mai saputo chi fossero i miei genitori. Ero, insomma, un nome, una parola di origine incerta. Ero figlio di un’ipotesi, esattamente come una parola marchiata da un asterisco. Privato dell’attenzione di un padre o di una madre, sono cresciuto nell’indifferenza di tutti. Niente di quello che dicevo o pensavo o facevo interessava davvero a qualcuno. Quando nessuno ti dà importanza finisci per dubitare davvero della tua esistenza. Uscito dal collegio dove ho studiato le cose non sono cambiate. Tutti avevano affetti, famiglie, amori, insomma tutti avevano una radice certa, solida. Tutti possedevano la certezza di sé stessi, di quello che erano, di quello che rappresentavano per qualcuno o per molti. Io no. Io vivevo in una sorta di nebulosa, che magari un giorno può anche trasformarsi in qualcosa – in un mondo, in una galassia addirittura – ma che nel presente non è concretamente nulla. Quando sei un’ipotesi per te stesso, gli altri cominciano a vederti così. Anzi. Finiscono per non vederti affatto. E così in ogni cosa, in ogni circostanza finivo per essere una nota a piè di pagina, di quelle scritte con carattere talmente piccolo, che nessuno legge mai davvero. Di quelle che, interrompendo il filo del discorso principale, tutti evitano per concentrarsi su cose più sostanziali, più importanti. Insomma io ho vissuto sempre come una nota a piè di pagina, un trafiletto in basso nella pagina della cronaca giornaliera, le varie e eventuali di un ordine del giorno. Fu così che mi identificai nell’asterisco, perché mi rappresentava, perché si adattava alla mia vita. In tutti i suoi significati. In fondo in ogni contesto io pescavo solo asterischi. E allora perché continuare ad usare un nome dall’origine incerta, perché farsi chiamare con un nome o peggio con un cognome, che da sempre indica appartenenza, quando in realtà tu una radice non ce l’hai. Perché usare un nome che identifica dalla nascita alla morte una vita, se in realtà tu stesso per primo dubiti della tua esistenza. Meglio sceglierti un soprannome, di cui sei certo della provenienza e che realmente ti definisce, definisce la tua essenza. Quel giorno decisi di ribattezzarmi, di nascere a nuova vita, magari sarebbe più giusto dire che decisi finalmente di nascere. Da qui il soprannome”.
Colui che aveva fatto la domanda arrossì e chiese scusa per la sua impertinenza, mostrò imbarazzo per aver forse rinnovato un dolore e costretto ad una non voluta confessione chi aveva serbato per decenni quel segreto.
Ma Pescatore di asterischi lo guardò con occhi quasi commossi e aggiunse: “Non devi chiedermi scusa, anzi, al contrario, sono io che devo ringraziarti. Il fatto che per decenni a nessuno fosse venuto in mente di domandarmi il perché di quel soprannome, il fatto che i più non ricordini nemmeno quale sia il mio nome di battesimo, il fatto che nessuno avesse trovato il tempo per riflettere su di me, per farsi venire anche una banale curiosità, per considerarmi davvero un essere umano con una sua concreta esistenza e non un avvenimento fenomenico di nessuna importanza, aveva chiarito in me che mai soprannome era stato più adatto. Tu mi hai dato oggi finalmente quel crisma di esistenza che il mondo mi aveva negato. Di questo ti ringrazio”.
Sorrise cordialmente e fece per allontanarsi.
Si fermò e si girò di nuovo verso il tavolino.
“Franco”, aggiunse, “mi chiamo Franco. Io sono Franco”.
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In paese lo conoscevano tutti come il Pescatore di asterischi, ma a nessuno era ormai più chiaro il motivo, che diede origine a quel soprannome.
Qualcuno non avrebbe nemmeno saputo dire quale fosse il suo vero nome, quello sancito dall’aspersione e registrato dall’anagrafe.
Molti lo usavano senza...
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22/10/2022 13:05:14
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Accomodatevi all'uscita grazie...
26 settembre 2022 ore 12:47 segnala
BREAKING NEWS:
MELONI VINCE LE ELEZIONI NEL CENTRODESTRA
LETTA VINCE LE ELEZIONI PER IL CENTRODESTRA.
LE PEN: FELICE PER LA MELONI, MA PERCHE' IN FRANCIA LETTA FA SOLO IL PROFESSORE?
LE PAGELLE DELLA TORNATA ELETTORALE
MELONI 8: Sarebbe da 10 per come è riuscita a convincere gli italiani di essere il nuovo che avanza dopo 20 anni di stipendi parlamentari, ma condisce la campagna elettorale con immagini di stupri, campagna acquisti di extracomunitari bianchi e cattolici e dichiarazioni da novella Savonarola sulle famiglie non ortodosse. Meglio di così però non poteva fare: si può mettere un tailleur al posto del bomberino, si può abbondare con il photoshop per tramutarsi da bambola assassina a puttino rinascimentale, ma quello che hai in testa rimane... COSI' E' SE VI APPARE
SALVINI 4: Indeciso tra la dieta e i tweet mangerecci, sceglie il look, perde perso corporeo e politico e perde le elezioni di brutto...NARCISO E BOCCASCIUTTA
BERLUSCONI 10: Fare campagna elettorale con un filo di fiato e con un eloquio non proprio fluido sarebbe impresa impossibile per chiunque, ma non per lui. Sbarca a 100 anni su Tik Tok e dimostra a Salvini che nessuno lo può superare in comicità...a metà tra MISSION IMPOSSIBLE ED IL DISCORSO DEL RE
LETTA 2/10: 2 Come leader della scoalizione di centro-sinistra. Non gli riesce un'alleanza che sia una. Regala, rompendo con Conte e facendosi prendere in giro da Calenda (dico Calenda...), tutti i collegi uninominali alla minoranza di centro desta, assicurando una vittoria comoda alla Meloni, che grazie a lui riesce a mitigare l'impatto del crollo di Lega e FI, che insieme fanno a stento il M5S. Ha il carisma di un lombrico e la visione politica di un Ciclope.10 è il voto che mi suggerisce ridendo la Meloni ed ha ragione da vendere... De CUBERTIN SCANSATE PROPRIO...
CONTE 8: Che gli vuoi dire? Sale su una barca che affonda, ma imbraccia il secchiello e comincia a svuotare e, come un novello Nelson, punta la prua verso una rotta che vede solo lui. Ci fosse stato lui al posto di Schettino...Purtroppo si gira e non vede più il campo largo, ma a dire il vero mica lo ha eletto lui Letta... IL VOLO DEL CALABRONE
RENZI S.V.: Si fa rubare la scena da Calenda... Va a dormire anche ieri convinto di essere uno statista, non svegliatelo. Le urne gli urlano che la coalizione del Governo Conte 2 avrebbe vinto le elezioni, ma lui era già sul jet privato in direzione ABU DHABI, con la TV spenta e il pensiero alla prossima partita della Fiorentina...IL FALO' DELLE VANITA'
CALENDA 5: di incoraggiamento. Meriterebbe 2 per l'acume politico e 9 per come è riuscito a riassicurare un posto fisso per i prossimi 5 anni a Renzi. Una mattina si è svegliato ed ha cominciato a correre senza sapere la direzione ed il perchè e da allora continua a correre senza sapere dove andare. FORREST GUMP
DI MAIO 10: Accusato da tutti di aver cambiato idea, in realtà sceglie il modo più efficace per non rischiare il terzo mandato. Con coerenza encomiabile fa il suo rientro al San Paolo a testa alta! I SOGNI MUOIONO ALL'ABA
EMMA BONINO: 10 alla carriera e 2 per la scelta dell'alleato. SI PUO' FARE DI PIU'.
MELONI VINCE LE ELEZIONI NEL CENTRODESTRA
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LE PEN: FELICE PER LA MELONI, MA PERCHE' IN FRANCIA LETTA FA SOLO IL PROFESSORE?
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SALVINI 4: Indeciso tra la dieta e i tweet mangerecci, sceglie il look, perde perso corporeo e politico e perde le elezioni di brutto...NARCISO E BOCCASCIUTTA
BERLUSCONI 10: Fare campagna elettorale con un filo di fiato e con un eloquio non proprio fluido sarebbe impresa impossibile per chiunque, ma non per lui. Sbarca a 100 anni su Tik Tok e dimostra a Salvini che nessuno lo può superare in comicità...a metà tra MISSION IMPOSSIBLE ED IL DISCORSO DEL RE
LETTA 2/10: 2 Come leader della scoalizione di centro-sinistra. Non gli riesce un'alleanza che sia una. Regala, rompendo con Conte e facendosi prendere in giro da Calenda (dico Calenda...), tutti i collegi uninominali alla minoranza di centro desta, assicurando una vittoria comoda alla Meloni, che grazie a lui riesce a mitigare l'impatto del crollo di Lega e FI, che insieme fanno a stento il M5S. Ha il carisma di un lombrico e la visione politica di un Ciclope.10 è il voto che mi suggerisce ridendo la Meloni ed ha ragione da vendere... De CUBERTIN SCANSATE PROPRIO...
CONTE 8: Che gli vuoi dire? Sale su una barca che affonda, ma imbraccia il secchiello e comincia a svuotare e, come un novello Nelson, punta la prua verso una rotta che vede solo lui. Ci fosse stato lui al posto di Schettino...Purtroppo si gira e non vede più il campo largo, ma a dire il vero mica lo ha eletto lui Letta... IL VOLO DEL CALABRONE
RENZI S.V.: Si fa rubare la scena da Calenda... Va a dormire anche ieri convinto di essere uno statista, non svegliatelo. Le urne gli urlano che la coalizione del Governo Conte 2 avrebbe vinto le elezioni, ma lui era già sul jet privato in direzione ABU DHABI, con la TV spenta e il pensiero alla prossima partita della Fiorentina...IL FALO' DELLE VANITA'
CALENDA 5: di incoraggiamento. Meriterebbe 2 per l'acume politico e 9 per come è riuscito a riassicurare un posto fisso per i prossimi 5 anni a Renzi. Una mattina si è svegliato ed ha cominciato a correre senza sapere la direzione ed il perchè e da allora continua a correre senza sapere dove andare. FORREST GUMP
DI MAIO 10: Accusato da tutti di aver cambiato idea, in realtà sceglie il modo più efficace per non rischiare il terzo mandato. Con coerenza encomiabile fa il suo rientro al San Paolo a testa alta! I SOGNI MUOIONO ALL'ABA
EMMA BONINO: 10 alla carriera e 2 per la scelta dell'alleato. SI PUO' FARE DI PIU'.
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BREAKING NEWS:
MELONI VINCE LE ELEZIONI NEL CENTRODESTRA
LETTA VINCE LE ELEZIONI PER IL CENTRODESTRA.
LE PEN: FELICE PER LA MELONI, MA PERCHE' IN FRANCIA LETTA FA SOLO IL PROFESSORE?
LE PAGELLE DELLA TORNATA ELETTORALE
MELONI 8: Sarebbe da 10 per come è riuscita a convincere gli italiani di essere...
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26/09/2022 12:47:19
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"Sono colui che fa le regole…”
07 aprile 2022 ore 12:47 segnala
Per solito guardare il dito che indica la luna è sintomo di stoltezza.
Vi sono momenti in cui guardare la luna e non il dito che la indica o, meglio, a chi appartiene il dito che indica la luna è segno di grande ingenuità.
Questo è uno di quei momenti.
Quando ci viene chiesto di guardare con lo spettro di colori della vista dei cani e di giudicare con la memoria selettiva e basata sulle sensazioni positive dei gatti è il momento di guardare negli occhi chi ci indica la luna.
Non c’è libertà di pensiero senza verità, non c’è giudizio senza conoscenza dei fatti, non c’è comprensione se vengono nascoste cause ed effetti, non c’è informazione senza pluralismo di fonti.
La verità precostituita brilla di luce artificiale.
C’è in atto una guerra più grave di quella che osserviamo da un mese ed è contro la dignità del nostro pensiero libero.
Applicare la semplicità a ciò che è complesso significa ritornare a scuola a scrivere i buoni ed i cattivi sulla lavagna, significa uccidere due volte le vittime innocenti.
Rifiutarsi di dimenticare Andy Rocchelli e Andrej Mironov non significa giustificare Putin.
Provare anche oggi orrore per il clima di costante minaccia a giudici e testimoni, che ha accompagnato il processo davanti alla Corte di Assise di Appello, lo sguardo del Ministro degli Interni ucraino costantemente presente in aula, l’omertosa ricostruzione dell’omicidio effettuata dal Governo di Kiev non significa giustificare Putin (a chi interessa suggerisco la visione del servizio “La disciplina del silenzio” della trasmissione Spotlight sul sito Rai).
Ritenere che la memoria di Rocchelli valga quanto quella di Regeni e provare un brivido per deputati e senatori in piedi ad applaudire chi si è rifiutato di collaborare con la giustizia nell’identico modo del Governo egiziano non significa giustificare Putin.
Ricordare la strage di Odessa, l’immagine dei pompieri fermi davanti alla Casa del Sindacati e la determinata volontà governativa di non svolgere processi, stigmatizzata nell’aprile del 2021 dall’Ufficio dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, non significa giustificare Putin.
Ricordare il numero di morti civili nel Donbass dal 2014 ad oggi, sepolti nell’assoluto silenzio dei media occidentali non significa giustificare Putin.
Ricordare la chiusura di NewsOne TV ed il bombardamento a colpi di granate dell’emittente 112.ua avvenuto il 13 luglio del 2019, non dimenticare Oles Buzina, Pavel Sheremet e Vadym Komarov – giornalisti uccisi per aver espresso opinioni contrarie alle idee governative tra il 2015 e il 2019, senza che si celebrasse alcun processo – o le oltre 50 aggressioni a giornalisti negli ultimi due anni o che l’Ucraina figura al centoduesimo posto per libertà di stampa – allo stesso modo in cui si ricorda Anna Politkovskaja o i 36 giornalisti uccisi dal 91 ad oggi in Russia, che è al centoquarantanovesimo posto per libertà di stampa – non significa giustificare Putin.
Provare orrore per organizzazioni militari o paramilitari neonaziste, come Svoboda, Pravy Sektor, il battaglione “Aydar”, il battaglione “Myotvorets” o il famigerato Battaglione Azov – condannato più volte da Human Right Watch e Amnesty International per le azioni nell’Est Ucraina, ma pure per sequestri di persona e torture – oggi eroico difensore della città di Mariupol o per il fatto che i loro leader siedano in Parlamento o occupino posizioni governative non significa giustificare Putin.
Ricordare il loro ruolo nei fatti di Maidan e nella nascita della nuova Ucraina non significa giustificare Putin.
Pretendere di conoscere i movimenti Nato dal 2014 ad oggi, gli armamenti forniti negli ultimi sette anni, le tre esercitazioni interforze solo nel 2021 o che chi ne parla non venga messo alla gogna non significa giustificare Putin.
Significa solo rifiutare di leggere un fatto storico, da cui bisognerebbe trarre insegnamento per un futuro migliore, nell’ottica precostituita della lotta tra democrazia e dittatura e tra bene o male.
Significa pretendere informazione e non propaganda.
Significa semplicemente difendere la propria dignità e libertà di pensiero.
“Io sono l'occhio nel cielo
Che ti guarda
Posso leggere la tua mente
Sono colui che fa le regole..."
Vi sono momenti in cui guardare la luna e non il dito che la indica o, meglio, a chi appartiene il dito che indica la luna è segno di grande ingenuità.
Questo è uno di quei momenti.
Quando ci viene chiesto di guardare con lo spettro di colori della vista dei cani e di giudicare con la memoria selettiva e basata sulle sensazioni positive dei gatti è il momento di guardare negli occhi chi ci indica la luna.
Non c’è libertà di pensiero senza verità, non c’è giudizio senza conoscenza dei fatti, non c’è comprensione se vengono nascoste cause ed effetti, non c’è informazione senza pluralismo di fonti.
La verità precostituita brilla di luce artificiale.
C’è in atto una guerra più grave di quella che osserviamo da un mese ed è contro la dignità del nostro pensiero libero.
Applicare la semplicità a ciò che è complesso significa ritornare a scuola a scrivere i buoni ed i cattivi sulla lavagna, significa uccidere due volte le vittime innocenti.
Rifiutarsi di dimenticare Andy Rocchelli e Andrej Mironov non significa giustificare Putin.
Provare anche oggi orrore per il clima di costante minaccia a giudici e testimoni, che ha accompagnato il processo davanti alla Corte di Assise di Appello, lo sguardo del Ministro degli Interni ucraino costantemente presente in aula, l’omertosa ricostruzione dell’omicidio effettuata dal Governo di Kiev non significa giustificare Putin (a chi interessa suggerisco la visione del servizio “La disciplina del silenzio” della trasmissione Spotlight sul sito Rai).
Ritenere che la memoria di Rocchelli valga quanto quella di Regeni e provare un brivido per deputati e senatori in piedi ad applaudire chi si è rifiutato di collaborare con la giustizia nell’identico modo del Governo egiziano non significa giustificare Putin.
Ricordare la strage di Odessa, l’immagine dei pompieri fermi davanti alla Casa del Sindacati e la determinata volontà governativa di non svolgere processi, stigmatizzata nell’aprile del 2021 dall’Ufficio dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani, non significa giustificare Putin.
Ricordare il numero di morti civili nel Donbass dal 2014 ad oggi, sepolti nell’assoluto silenzio dei media occidentali non significa giustificare Putin.
Ricordare la chiusura di NewsOne TV ed il bombardamento a colpi di granate dell’emittente 112.ua avvenuto il 13 luglio del 2019, non dimenticare Oles Buzina, Pavel Sheremet e Vadym Komarov – giornalisti uccisi per aver espresso opinioni contrarie alle idee governative tra il 2015 e il 2019, senza che si celebrasse alcun processo – o le oltre 50 aggressioni a giornalisti negli ultimi due anni o che l’Ucraina figura al centoduesimo posto per libertà di stampa – allo stesso modo in cui si ricorda Anna Politkovskaja o i 36 giornalisti uccisi dal 91 ad oggi in Russia, che è al centoquarantanovesimo posto per libertà di stampa – non significa giustificare Putin.
Provare orrore per organizzazioni militari o paramilitari neonaziste, come Svoboda, Pravy Sektor, il battaglione “Aydar”, il battaglione “Myotvorets” o il famigerato Battaglione Azov – condannato più volte da Human Right Watch e Amnesty International per le azioni nell’Est Ucraina, ma pure per sequestri di persona e torture – oggi eroico difensore della città di Mariupol o per il fatto che i loro leader siedano in Parlamento o occupino posizioni governative non significa giustificare Putin.
Ricordare il loro ruolo nei fatti di Maidan e nella nascita della nuova Ucraina non significa giustificare Putin.
Pretendere di conoscere i movimenti Nato dal 2014 ad oggi, gli armamenti forniti negli ultimi sette anni, le tre esercitazioni interforze solo nel 2021 o che chi ne parla non venga messo alla gogna non significa giustificare Putin.
Significa solo rifiutare di leggere un fatto storico, da cui bisognerebbe trarre insegnamento per un futuro migliore, nell’ottica precostituita della lotta tra democrazia e dittatura e tra bene o male.
Significa pretendere informazione e non propaganda.
Significa semplicemente difendere la propria dignità e libertà di pensiero.
“Io sono l'occhio nel cielo
Che ti guarda
Posso leggere la tua mente
Sono colui che fa le regole..."
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Per solito guardare il dito che indica la luna è sintomo di stoltezza.
Vi sono momenti in cui guardare la luna e non il dito che la indica o, meglio, a chi appartiene il dito che indica la luna è segno di grande ingenuità.
Questo è uno di quei momenti.
Quando ci viene chiesto di guardare con lo...
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07/04/2022 12:47:28
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Quella sottile linea mossa
24 marzo 2022 ore 18:04 segnala
“D’altra parte” e “ma anche” erano gli scogli dove, ogni volta, si infrangeva la marea delle sue decisioni e dei suoi buoni propositi.
A questo pensava con un sorriso amaro, ora, sulla terrazza del suo albergo, mentre l’ultima eco di un sole al tramonto colorava di un rosso pallido quel foglio, che teneva nella mano e su cui ancora fissava lo sguardo incredulo.
Non che fosse un uomo poco risoluto o indeciso, men che meno pavido, faremmo torto alla sua persona affermandolo e, ancor di più, alla professione, che aveva scelto.
Proprio nel cimento lavorativo, ad esempio, potremmo dire che aveva dato prova di grande determinazione e risolutezza.
Mentre gli altri ragazzi della sua età dedicavano il proprio tempo libero allo svago o, con alterna fortuna, ai primi cimenti amatori, il nostro si forzava di frequentare la parrocchia, non certo per la sua fervente devozione, ma perché portatrice sana di un giornalino su cui pubblicare i suoi primi articoli.
Quel giornalino parrocchiale ed un altro - limitato, per diffusione e tematiche, all’angusto perimetro di un quartiere – erano stati la sua palestra, il luogo dove per la prima volta gli era stato concesso di dimostrare il suo valore.
Era quella che si definiva una penna, fluente nella lirica, rigoroso nella ricerca delle fonti, originale, appassionato ed appassionante nel racconto e soprattutto acuto nelle considerazioni, anche se l’articolo aveva ad oggetto l’organizzazione della processione di Pasqua o il grave problema della Peronospora, che flagellava le amate piante del quartiere.
Proprio mentre la sua fama cominciava ad affermarsi tra fedeli e stretti conterranei, però, per la prima volta quegli scogli fecero la propria comparsa.
Gli effetti furono immediati e devastanti.
Gli era stato affidato dal parroco un compito delicato ed avvincente, una di quelle occasioni che aspettava da tanto tempo.
Era stato inviato in una chiesa di un altro quartiere per assistere ad una messa di guarigione e per farne un avvincente ed esaustivo resoconto per i fedeli della parrocchia.
Era arrivato anche in grande anticipo rispetto all’orario indicato, eppure la chiesa era gremita fin sul sagrato, segno tangibile della devozione di cui godeva l’officiante, la cui fama era già giunta anche alle orecchie del nostro acerbo cronista ben prima di ricevere il delicato incarico.
Più ancora della messa, lo colpirono gli occhi.
Velati, stanchi, disperati e disperanti, ma, nello stesso tempo, in essi balenava il lampo di una malcelata attesa.
Guardavano l’officiante come si guarda l’attaccante della propria squadra nell’atto di sistemare un pallone sul dischetto del rigore a tempo scaduto, come un contadino guarda un fronte nuvoloso all’orizzonte dopo una stagione di secca.
Si riconosceva in quegli sguardi la paura di un difetto di fede, di una mancanza di merito, di una indegnità, che li condannasse al temuto - e oramai prossimo - trapasso o li relegasse nel crogiolo di un dolore crescente e definitivo.
Con loro e su di loro lo sguardo amorevole e commosso dei famigliari, di chi era disposto a giurare che, se un miracolo doveva esserci, scusate tutti, ma spetta al mio.
Dall’altare giungeva una litania appena percepibile e percepita, ma lo spettacolo, il terribile spettacolo era tutto lì, in quelle membra stanche, in quei corpi martoriati dalla malattia, in quelle facce sospese nell’attesa di una grazia, che li redimesse dal loro senza fine pena mai o dal loro patibolo.
Scrisse quell’articolo, descrisse con maestria e commozione quegli occhi, quell’attesa silenziosa, quella tensione palpabile, quella speranza, ma scrisse anche della sua soddisfazione per il fatto che il miracolo non si compì, che nessuno si fosse alzato dalla lettiga o dalla sedia a rotelle, correndo verso l’altare e gridando al miracolo.
Non riuscì a fare a meno di scrivere del suo sollievo per non aver dovuto vedere negli occhi degli altri anche l’invidia o la consapevolezza di un castigo meritato.
La cera lacca apposta sulla paura del non essere degni, di non meritare la carezza amorevole del divino, la spietata convinzione di un inferno in paziente attesa della loro morte.
Se miracolo doveva essere, doveva essere per tutti, perché la speranza e la fede di tutti meritavano ricompensa.
L’Altissimo non è un mago, che si pavoneggia per la riuscita di un gioco di prestigio, il suo Dio, l’archetipo del suo Essere Supremo, se può, provvede per tutti, non ha il cuore tanto duro da aggiungere dolore a dolore per la narcisistica riuscita di uno spettacolo, per dimostrare di saper fare miracoli.
Non ha bisogno di conferme, non può non commuoversi davanti a tutti quegli sguardi, nessuno escluso.
No, il suo Dio quel giorno aveva dato il segno più tangibile di sé non mostrandosi, non esibendosi.
Applicava, come ai più sarà parso chiaro, alla sfera del sacro la sua radicata idea di giustizia, quell’idea che lo portava a pensare che non può esserci un diritto, se non viene riconosciuto a tutti.
Rifuggiva l’idea dei suini di orweliana memoria, quell’icastica scritta che troneggiava nel tribunale della fattoria, che ammoniva sul fatto che siamo tutti uguali davanti alla legge, ma che qualcuno è semplicemente più uguale degli altri.
Applicava rigorosamente il merito in ogni ambito della vita quotidiana, ma non alla fruizione dei diritti.
Così era certo che facesse anche Dio nel proprio ambito di stretta competenza, i miracoli.
Giustizia ed uguaglianza nella sua testa erano un binomio indissolubile e vedeva nella dottrina cristiana l’affermazione trascendente di quel principio.
D’altra parte, i miracoli - la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ma anche quello delle nozze di Cana - non avevano fatto distinzioni: i pesci ed il pane furono distribuiti a tutti, così come non si fecero eccezioni tra gli invitati, se non per ipotetica astemia.
È pur vero che ad essere resuscitate furono tre persone in particolare, ma la prima fu premiata per la repentina fede, che lo portò a pensare al giovane Gesù per la grazia di una guarigione – in un’epoca dove non doveva essere in nutrita compagnia, ove solo si pensi al fatto che di lì a pochi anni, al grido di Barabba, molti degli altri mandarono Cristo a morire sulla croce – il secondo ed il terzo si giovarono della compassione propria della sfera umana di Gesù, che non resistette alle lacrime della madre del giovinetto prematuramente dipartito ed al sentimento dell’amicizia.
E il lebbroso? direte voi.
Proprio dalla storia del lebbroso il nostro giovane giornalista aveva tratto la speranza che quel giorno il miracolo non si sarebbe compiuto.
Gesù, restituendo grazia al suo aspetto e salute alle sue membra, gli raccomandò solo di non raccontare a nessuno della sua guarigione miracolosa.
Quando questi ebbe a tradire quella promessa – vuoi per l’umana tendenza alla condivisione della meraviglia, vuoi per la naturale gioia per la guarigione - Gesù guarì anche i dieci lebbrosi, che lo avevano cercato per ricevere identica grazia: ma non lo fece davanti a loro, ma ad ognuno - e da solo - sulla strada che gli aveva indicato.
Inutile dire che l’articolo non conobbe mai la carta del giornalino della parrocchia e da quella striminzita redazione da quel giorno scomparve un nome, il suo.
Ora quel pezzo di carta stretto tra le sue mani rischiava di riproporre il medesimo esito, ma con conseguenze sicuramente più fatali per la sua carriera.
Per questo continuava a leggere e rileggere quelle poche righe, giunte per mail dalla sua redazione, in risposta all’ultimo pezzo inviato dal fronte, a cui aveva dato il titolo “Le due verità”.
Se ci ponessimo al posto del nostro inviato su questa terrazza a pochi chilometri dalla linea del fronte, leggeremmo la seguente laconica frase: “Nonostante l’estrema considerazione per la difficile situazione emotiva che stai certamente vivendo, spiace comunicare che il pezzo da te inviato non corrisponde alla linea editoriale scelta da questo quotidiano, ragione per la quale o lo riscrivi o non verrà pubblicato. Siamo certi di poter contare sulla tua professionalità e la tua comprensione”.
Se il nostro inviato fosse tipo da riflettere a voce alta, ora lo sentiremmo affermare che proprio la sua professionalità gli impediva di comprendere il tenore ed il contenuto del messaggio.
Si era limitato a riportare fatti documentati e verificati, cosa mai poteva cambiare nel pezzo e soprattutto in che modo una linea editoriale poteva stravolgere la realtà dei fatti?
Decise di entrare in doccia, magari il getto di acqua caldo lo avrebbe calmato ed aiutato a riflettere, a schiarirsi le idee, a comprendere quello che in questo momento si rifiutava non già di condividere, ma finanche di capire.
Ne uscì sicuramente più rilassato, ma assolutamente non più persuaso.
Il sole aveva appena finito la sua parabola discendente.
Le prime luci di Kiev cominciavano ad accendersi, proprio mentre ripartiva la sirena dell’allarme aereo.
Si versò da bere, si sedette sul letto con le gambe incrociate, aprì il suo portatile e rilesse l’articolo incriminato: non vi trovò nemmeno una virgola che potesse essere cambiata, nemmeno una parola che volesse cambiare.
Rilesse il messaggio - giunto dalla calda comodità della redazione - e gli scappò di pensare che forse non avrebbe fatto male un po' di sano fronte a chi pretendeva di dettare a questo insensato orrore una linea editoriale.
Alla fine decise di chiamare il capo redattore.
Era la decisione giusta, magari lo avrebbe convinto delle sue ragioni.
Il telefono fece solo due squilli.
“Ehilà Gianni, aspettavo la tua telefonata. Come va laggiù?”
“Ciao. Abbastanza bene dai, data la situazione”.
“Ci sono novità importanti di giornata?”
“Beh il fonte attorno a Kiev avanza, ma a rilento. Ora però la città vede gli effetti della guerra anche in pieno centro. Ci sono stati morti e feriti e psicologicamente questo pesa. Per il resto si aprono nuovi fronti dal mare.”
“Si ho seguito l’aggiornamento da Odessa, è terribile che abbiano bombardato anche questa città”
“Non dare retta a quei giornalisti, che scrivono rimanendo in albergo. Odessa non è stata bombardata, nemmeno le hanno sentite le esplosioni ad Odessa”.
“Ma come no? È su tutti i siti. Anche i telegiornali hanno aperto con questa notizia”.
“Lo so. Ma non cambia il fatto che il cannoneggiamento era indirizzato su una zona costiera, alla foce del fiume Dnestr. Certo si trova a sud di Odessa, ma è ad oltre quaranta chilometri dalla città”.
“Sarà”
“No è. Bisogna essere precisi nel dare le notizie. Non che non sia grave l’apertura – reale o strategica – di un nuovo fronte, ma tu ci pensi anche solo a quante persone all’estero hanno parenti ad Odessa? Che senso ha dire una cosa per un’altra? Sarebbe come se gli inviati di guerra dell’epoca avessero scritto che gli alleati erano sbarcati a San Felice al Circeo invece che ad Anzio solo perché era una meta turistica più rinomata e faceva più presa sul lettore, capisci?”
“Vabbè, tanto se non è oggi, Putin la bombarda domani. Avrà fatto le prove… Senti io ti devo lasciare perché sto entrando in uno studio televisivo. Sono ospite di questo spazio di approfondimento sulla guerra in Ucraina”.
Bell’approfondimento pensò, ma non lo disse
Disse, invece: “Capisco e non voglio rubarti agli spettatori…, ma io ho bisogno di parlarti due minuti a proposito del pezzo di ieri e del messaggio che mi è arrivato”.
“Bravo. Hai già riscritto il pezzo? Mandamelo, così appena finisco in tv me lo leggo. Poi ti faccio sapere”
“No. Non ho riscritto l’articolo, volevo parlarti proprio di questo. Non ho capito il messaggio e vorrei che mi spiegassi il motivo per il quale non può essere pubblicato così come è”.
“Stai scherzando spero. Ma lo hai riletto? Cosa c’è da capire?”
“L’ho appena riletto e proprio per questo non riesco a capire. Sono tutti fatti oggettivi, sono dichiarazioni ufficiali e documenti verificati”.
“Gianni non frega un cazzo a nessuno se le notizie sono verificate o le dichiarazioni sono ufficiali. Quello che non va è il tratto salomonico dell’articolo. Siamo in una guerra santo Dio, lo capisci o no?”
Meglio di te sicuro, avrebbe voluto rispondere, ma disse solo: “e cosa c’entra che sono – e non siamo – in guerra?”.
“Significa che bisogna scegliere un campo, non si può stare un po' di qua ed un po' di là. Significa che il lettore sa che c’è un invasore ed un invaso e che da che mondo è mondo l’invasore è il cattivo e l’invaso è la vittima. Non puoi raccontare ad un bambino che Cenerentola non fu portata alla festa da ballo del principe perché non era presentabile, perché bestemmiava ogni cinque minuti o che Biancaneve era una stalker e la povera strega una donna esasperata. Questa è ignavia. Non puoi dare in pasto alla mente del lettore le tue pippe mentali!”.
“Ma che dici? Il lettore deve capire, deve arrivare da solo al suo giudizio. Noi dobbiamo solo fornirgli i dati, gli strumenti d’analisi. Sono lettori di giornali, non bambini”.
“Sbagli. Quando io vado a fare benzina e la pago quasi il doppio, quando compro il pane e lo pago quanto pagavo un panino farcito o se sarò costretto a razionare l’elettricità o quando mi prenderà uno sturbo leggendo la bolletta io devo sapere che tutto questo ha un senso, che sono nel giusto, che non si poteva fare diversamente, che ne vale la pena, che sto facendo stoicamente la mia parte. Non puoi insinuare un dubbio. Non mi puoi nemmeno far sospettare che la mia fazione se lo è cercato o che si poteva fare diversamente. Non puoi in generale, figurati ora che siamo appena usciti – se mai ne siamo usciti – da una pandemia e stavamo per rivedere la luce del sole”.
“Ma che cazzo stai dicendo? La mia parte? La mia fazione? E secondo te io starei qui a rischiare la vita per raccontare stupidaggini che ti tranquillizzano? E non me ne stavo a casa al sicuro a scrivere amenità secondo te? Io sto qui per guardare negli occhi la realtà. Per capire e far capire.”
“No Gianni. Tu stai lì perché ti pagano. Anzi, tu stai lì perché il giornale ti paga e il giornale ha una linea editoriale e tu la devi rispettare.”
“La linea editoriale si cambia, la realtà no. La guerra se ne fotte della tua linea editoriale, la morte se ne fotte del bisogno di essere tranquillizzati, le bombe fanno male chiunque le sganci”.
“Gianni risparmiami questa filosofia da quattro soldi. Tu hai un cliente e il cliente ti sta spiegando la sua esigenza. Non si è mai visto un avvocato che di punto in bianco si mette ad accusare il suo cliente solo perché sospetta che, in fondo in fondo, non sia uno stinco di santo. L’avvocato al massimo inventa, copre, di certo non si mette a discutere col giudice dei suoi sospetti. Riscrivi l’articolo se sei in grado di farlo o scrivi un pezzo di colore, parla degli esuli e della splendida gara di solidarietà. Ecco, scrivi un bel pezzo sul fatto che la pandemia ci ha cambiati, che ci ha fatto scoprire che gli altri siamo noi. Cita la campana di Hemingway con la tua prosa intensa e vedrai che goduria per il lettore. Ora ti devo lasciare”.
“Io non faccio l’avvocato!” stava dicendo mentre la lo raggiunse il clic, che pose fine alla conversazione.
Io non faccio l’avvocato, continuava a dire mentre scagliava via quel foglietto, che fino a questo momento aveva continuato a stringere nervosamente tra le mani.
Si alzò dal letto.
La televisione accesa rimandava immagini di guerra, tanto per cambiare.
L’ultima ora scorreva in rosso sotto le immagini e riferiva del fallimento dell’ennesimo incontro tra le opposte diplomazie.
Le immagini delle case in fiamme a Mariupol dopo l’ennesimo cannoneggiamento di artiglieria stridevano con il cauto ottimismo, che le parti avevano, comunque, espresso uscendo a mani vuote dall’ennesimo faccia a faccia.
Le diplomazie parlavano, mentre Mariupol perdeva i propri figli.
“Nomen omen” bisbigliò Gianni, alzando le sopracciglia.
Pensava alla consorte di Paolo I, alla cui memoria la città era dedicata e al fatto che anche a lei vennero sottratti dalla zarina i primi due figli.
Si avvicinò al balcone, aprì i vetri ed uscì.
Lo raggiunse un vento gelido.
Una luna piena - immensa e quasi irreale - illuminava la notte silenziosa e quelle strade deserte, dove neanche un cane si prendeva la scena.
Notte di guerra, notte di coprifuoco, notte di luna piena del Verme, ma di certo neanche i coleotteri avevano l’ardire di uscire dalle loro larve.
Era notte da rimanere rintanati, specie se la natura ti aveva fatto grazia di un riparo.
Di primavera neanche l’ombra e non certo solo per il clima, che in queste latitudini ed oggi era l’unica cosa che potesse fregiarsi dell’aggettivo normale.
Si piegò sulle ginocchia, appoggiò la schiena alla ringhiera e tirò fuori una sigaretta.
La portò nervosamente alla bocca, l’accese ed aspirò forte.
Mentre il primo fumo gli colpiva i polmoni pensava a sua figlia.
Ci aveva pensato spesso in questi giorni.
Ogni volta che vedeva bambini seguire silenziosi le carovane di cittadini in fuga dalle città, ogni volta che li vedeva trasalire per lo spavento, ma senza abbandonarsi al pianto, all’ennesimo colpo di artiglieria - che si incaricava gentilmente di rompere il disperato silenzio del corridoio umanitario, aggiungendo terrore alla disperazione - ogni volta che li vedeva abbracciati alle mamme o soli nei rifugi di fortuna non poteva che pensare a Sofia.
A lei aveva pensato ad Irpin, quando aveva visto quella orribile scena sotto il monumento ai caduti della seconda guerra mondiale.
Un’intera famiglia riversa sul terreno e coperta da pietosi teli di fortuna.
Una famiglia che aveva lasciato la casa per correre incontro ad un destino quasi inconcepibile, un colpo di artiglieria sparato in mezzo al nulla, un appuntamento già scritto.
Non si poteva guardare quell’immagine senza pensare ad una scarpa slacciata, ad un inciampo ad un capriccio dovuto alla fame, ad uno di quei banali avvenimenti che capitano ogni giorno e che avrebbe avuto l’inconsapevole quanto auspicabile pregio di provocare un ritardo.
Una scarpa slacciata, una mamma china davanti al figlio nell’atto di rifare il fiocco alle stringhe e che di un tratto trasaliva per un boato a poca distanza.
Mamma mia bambini, cambiamo strada, speriamo che nessuno stesse passando di lì, povera gente…!
O magari era successo l’esatto opposto ed un banale inciampo aveva favorito l’appuntamento, si era incaricato di disegnare la scena per come la si vedeva.
Aveva, magari, favorito il destino di un padre, sopravvissuto alla sua vita, testimone oculare di un efferato omicidio, che aveva molti mandanti e tanti colpevoli.
Più di ogni cosa lo aveva colpito quella valigia, rimasta in piedi e lasciata lì a vegliare su quei corpi, monumento alla speranza di un futuro, inutile contenitore di cose, che non sarebbero più servite.
Si domandò cosa racchiudesse, quali oggetti o abiti, tra tutti quelli di una vita, una famiglia in fuga avesse scelto.
Immaginò la scena della madre, circondata dai figli vocianti ed eccitati dalla novità del viaggio, che apriva cassetti e armadi e faceva mente locale su cosa sarebbe servito più di tutto nei giorni futuri.
Li aveva per forza immaginati quei giorni futuri, mentre riempiva la valigia.
Erano rimasti lì, nella sua mente, i giorni futuri, incastonati in un presente eterno e già fuggito.
Erano rimasti in quella valigia, che Gianni non smetteva di fissare.
Rivide il trolley di Sofia.
Rivide quel minuscolo fagotto trascinare con gran cipiglio quel bagaglio più grande di lei.
Risentì il ritmato battere di quelle ruote sulle scale di casa sua.
Rivide gli occhi di Sofia, tristi e arrossati, che lo guardavano dal basso verso l’alto.
Rivide la sua piccola mano, quella libera dallo sforzo, che si agitava nell’aria, anche più del necessario, per la segreta paura che il padre non vedesse quel saluto, l’ultimo.
Erano mesi che non la vedeva, ma oggi – e per la prima volta - era felice di pensarla lontana da lui.
Era felice di pensarla al sicuro, laddove tutti i bambini dovrebbero essere.
Magari a giocare alla guerra, ma solo a giocarla.
La quotidianità con sua figlia era un’altra delle cose che si era infranta sullo scoglio del d’altra parte e del ma anche.
Lo aveva letto chiaramente negli occhi di sua moglie nell’atto di salutare per la prima volta i componenti di quella scorta, che avevano assegnato per la protezione della sua famiglia.
Lo aveva letto ancor prima a chiare lettere nella smorfia, che aveva trasfigurato il volto di Francesca appena svegliata dall’ennesimo squillo notturno del telefono.
Mentre era in redazione aveva ricevuto un messaggio sul cellulare.
La moglie gli preannunciava che dovevano assolutamente parlare.
Quella sera aveva anticipato il rientro, per rispetto e per l’ansia di capire.
O forse, sarebbe più onesto dire, per la speranza di non aver capito.
Appena aprì la porta di casa e vide le valigie capì di aver capito.
“Ciao”, disse, “sono qui”.
“Ciao Gianni, io e Sofia stiamo per andare, volevo parlarti perché mi sembra più giusto così, che lasciare un semplice biglietto”.
“Ma andare dove?”
“Per il momento da mia madre, poi si vedrà”.
“Ed io? Francesca siamo una famiglia, avrò diritto anche io di partecipare alle scelte”.
“Ah ecco, ora siamo una famiglia….”.
“Lo siamo sempre stati. Nella mia considerazione e nei fatti Francesca.”
“No Gianni. Nei fatti mi sembra evidente che lo siamo, nella tua considerazione proprio no!”.
“Sei ingiusta”.
“No. Sono obiettiva. Nelle tue scelte viene sempre prima il tuo stramaledetto lavoro. Anzi no, non è neanche il lavoro il vero problema, è il tuo maniacale fanatismo, il tuo narcisismo”.
“Io semplicemente lavoro. Quello che tu chiami fanatismo o addirittura narcisismo ha un nome: si chiama professionalità”.
“E no Gianni, tutti lavoriamo, anche i tuoi colleghi lavorano. Ti sei chiesto perché solo tu – anzi solo noi – siamo costretti a girare con degli uomini armati, che ci seguono pure se andiamo in un bagno pubblico? Dimmi, te lo sei chiesto? O a te sembra tutto normale? A me no Gianni, io sono stanca. Io ho sposato un giornalista. Uno che imbratta fogli per vivere. Se volevo vivere con l’angoscia avrei sposato un poliziotto, un PM ed invece ho sposato un uomo, che dovrebbe stare in una cazzo di redazione ed il cui solo rischio dovrebbe essere che si faccia male ad un dito, cambiando uno stramaledettissimo toner!”
Gianni la guardava con gli occhi sbarrati e la fronte aggrottata.
Sembrava che la volesse mettere a fuoco ed invece cercava solo una risposta adatta ed efficace, risolutiva.
Rimaneva, però, in un inebetito silenzio.
Non condivideva nemmeno una parola di quello che la moglie aveva appena detto ed ancor meno gli era piaciuto il modo, ma non riusciva ad abbozzare nemmeno una risposta.
Proprio lui, che con le parole ci viveva, stava fermo lì come una macchina a secco, come una barca incagliata o un veliero in bonaccia, incapace di parlare.
Se avessimo potuto per un momento interrompere la scena e domandargli perché diavolo non trovasse una risposta che fosse una, in realtà ci avrebbe detto che non era vero, che non erano le parole a mancare, ma la voglia di parlare.
Semplicemente trovava non dignitoso scendere a quel livello, dare dignità di dialogo a quello che era solo un pretestuoso atto di accusa da parte di chi stava cercando solo una motivazione postuma ad una scelta già fatta.
Cosa puoi rispondere ad una donna che descriveva in quel modo il mestiere del giornalista?
Cosa puoi rispondere ad una donna che trasformava una vittima in carnefice, e della sua famiglia per giunta?
Stai a vedere che aveva scelto lui di dover girare con la scorta? Ma era mai possibile che davvero pensasse che per lui fosse un piacere? Un vanto vanaglorioso? Un godimento narcisistico, per usare una parola che aveva imparato ad odiare da quando le donne avevano cominciato ad abusarne, come se fossero diventate tutte psicoterapeute.
La risposta alle sue domande era si e lo capì appena qualche secondo dopo, quando sua moglie, approfittando del silenzio dell’interlocutore, ricominciò il suo j’accuse con veemenza crescente.
“Tutti i tuoi colleghi – chi più chi meno – hanno affrontato l’argomento della mafia in qualche loro articolo. Per forza, capisco benissimo che chi scrive su un giornale siciliano non può fare a meno di farlo. Ma lo hanno fatto in termini generici e se hanno stigmatizzato, lo hanno fatto pesando ogni singola parola, perfino la punteggiatura. Lo hanno fatto per dovere, per lavoro, ma in modo da passare quasi inosservati. Tu no Gianni. A te cosa è venuto in mente di fare? Rispondi Santo Dio!”.
“Ma che stai dicendo?” balbettò Gianni, “ho semplicemente fatto il mio dovere…”.
“Il tuo DOVERE?” urlò Francesca, accompagnando la domanda con una stizzita gragnola di colpi sulle braccia del marito.
“Si, quello per cui mi pagano e quello che si aspettano i lettori”, rispose Gianni, buttando un occhio a Sofia per vedere come reagiva alla scena e sforzandosi di abbozzare un sorriso tranquillizzante ed una espressione faceta, di quelle che dicono sta scherzando mamma…mica stiamo litigando davvero….
“No Gianni! Te lo dico io cosa hai fatto. Tu hai fatto un fottutissimo dossier, con tanto di nomi, cognomi, date, fatti, luoghi, collegamenti, intrecci… Hai lavorato come un detective, magari ti sei pure infiltrato come nei film. Sta di fatto che hai passato fuori casa un numero imprecisato di notti. Ad un certo punto ho sospettato che avessi un’amante. Ma magari Gianni. Magari avessi scopato invece di andare in giro a fare l’eroe. Ma chi ti credi di essere? Ultimo? Sei solo l’ultimo dei coglioni Gianni, ecco che sei. E questi sono i risultati!”.
“Cosa dovevo fare secondo te? Sapere e tacere? Omettere? Farmi complice? Il giornalismo è testimonianza ed è anche indagine. Un giornalista la verità la cerca, mica gli cade dal cielo. Si chiama approfondimento!”.
“Ecco bravo. Approfondisci! Approfondisci, ma con uno bravo davvero, il motivo per il quale un lettore nella tua testa esaltata conta più di tua figlia. Non dico nemmeno di tua moglie a questo punto, ma di tua figlia! Ci pensi mai che hai una figlia? Ci hai pensato quando scrivevi quasi pure il codice fiscale di gente, che, per lavoro e per indole, spara, gente che riesce ad uccidere anche i bambini? E no lui doveva testimoniare, lui lo doveva al lettore…. Ma chi cazzo è per noi il lettore? Lo sai cosa ci fa il lettore con il tuo articolo? Ci fa il fondo della pattumiera per non far colare le cocce del cocomero, che mangiava sputacchiando semi sulla canotta bisunta, mentre leggeva il tuo approfondimento, magari ruttando a mò di punteggiatura… Lui adesso si è pure scordato quello che ha letto, loro no… E noi stiamo qui chiusi come i sorci e non abbiamo più nemmeno il tuo splendido articolo da mettere sotto l’immondizia in cui hai ridotto la nostra famiglia, che sta colando a picco, che la coccia del cocomero se lo sogna!”
“Brava Francesca. Banalizza, sfotti, fatti una bella risata. Ma ci sei mai stata in quei paesi che sembrano in perenne stato di guerra? Dove il coprifuoco la gente se lo impone per quieto vivere, dove pure gli scuri hanno occhi? L’hai mai respirato l’odore della paura? I mafiosi non sono nessuno. Comandano perché la gente ha paura, perché se uno si ribella e rimane solo non sopravvive un giorno. Questa gente è disunita, hanno sostituito l’eroismo di un popolo con la somma delle paure dei singoli. Se non dà voce a questo popolo chi ha la fortuna di avere alle spalle una potente cassa di risonanza, se chi può parlare al cuore di tutti non infonde coraggio con l’esempio, se non fa capire a tutti che non sono soli, allora loro avranno vinto per sempre Francesca. Ed io sarò stato complice. Un giornalista non può nascondersi dietro gli scuri, un giornalista deve aprirli, deve fare entrare luce, aria pulita. Lo capisci?”.
“No Gianni. Capisco solo che sei in preda ad un delirio di onnipotenza. Capisco che magari sarai pure un bravo giornalista, ma sei un pessimo padre ed un marito incosciente. Capisco che per te conta infondere coraggio a degli sconosciuti, anche se questo significa gettare nel terrore e mettere in pericolo tua figlia. Capisco che questa casa è il fortino di una resistenza e non è adatta ad una bambina. Per questo andiamo via. Ti farò sapere dove andremo a stare non appena possibile. Cerca almeno di non farti uccidere, se puoi. Meglio avere un padre con qualche rotella in meno che essere orfani.”.
Non diede nemmeno il tempo di replicare.
Prese la bambina per mano, voltò le spalle al marito ed uscì dalla porta di casa.
Mentre il vento gelido scompigliava i suoi capelli, Gianni lo ripercorse tutto quel dialogo.
Poteva ripetere a memoria ogni singola parola ed oggi il ricordo era ancora più vivido.
Solo che al posto del rumore del trolley sulle scale, oggi si stava incaricando l’artiglieria di dare ritmo alla scena.
Non poté fare a meno di chiedersi se avessero ragione loro.
In fondo la redazione, seppure con parole più misurate, aveva espresso sul suo lavoro lo stesso giudizio della moglie.
E se a sbagliare fosse davvero lui?
Forse era il caso di rimandare a domani la risposta a questo angoscioso interrogativo.
Decise di affidare al sonno quel compito che la doccia non aveva saputo assolvere.
Rientrò nella stanza, chiuse la finestra e si sdraiò sul letto senza nemmeno svestirsi.
Non per essere pronto in caso di allarme aereo, ma più semplicemente perché non vedeva l’ora di calare il sipario su questa giornata e sui suoi ingombranti pensieri.
La stanchezza si scontrò con l’inquietudine e vinse a mani basse.
Si addormentò e sognò.
Sognò la chiesa gremita.
Sognò gli occhi pieni di paura e speranza dei malati.
Sognò le strane parole che provenivano dall’altare.
Segnò sé stesso con un taccuino in mano ed un bizzarro impermeabile da tenente Colombo.
Anche nel sogno il miracolo non si compì, anche nel sogno la sua segreta speranza non andò delusa.
Ad un certo punto, però, tutti si voltarono verso la porta della chiesa, alcuni con più fatica degli altri, ma tutti nello stesso momento.
Si voltò anche lui e vide dal fondo della chiesa avanzare una strana processione.
Davanti a tutti avanzava Gesù in tonaca bianca, dietro di lui Francesca in canotta, con in una mano Sofia e nell’altra una fetta di cocomero.
Accanto a lei il caporedattore, che indossava una toga, con tanto di alamari dorati ed il bavaglino.
Dietro di loro una teoria infinita di persone con un giornale in una mano e nell’altra un sacco per l’immondizia.
Chiudeva la fila il suo parroco.
Avanzavano in silenzio con uno sguardo ieratico e senza proferire verbo alcuno.
Anche la gente li osservava in silenzio.
In tutti si andava consolidando una certezza: ecco ci siamo!
Ma i componenti di questa lunga teoria di personaggi bizzarri, che sembrava uscita da una pellicola di felliniana memoria, nemmeno li guardavano quegli occhi, quelle stanche membra.
No, tutti fissavano un punto in fondo alla chiesa, un punto che non casualmente era occupato da Gianni.
Insomma, strano a dirsi, ma tutti, avanzando con passo marziale, guardavano Gianni.
Gianni, quasi ipnotizzato, non poteva fare a meno di ricambiare quello sguardo, mentre sentiva crescere in lui una strana angoscia.
Gesù ad un tratto arrestò il suo incedere.
Si voltò e con sguardo interrogativo, ma sempre senza parlare, guardò Francesca, il capo redattore ed il parroco.
All’unisono levarono un braccio annuendo con la testa.
Insomma, chi con una fetta di cocomero e chi con altro, ma tutti indicarono Gianni.
Gesù si voltò di nuovo verso Gianni e ricominciò a camminare.
Tutti lo seguirono, in silenzio ovviamente.
Mano a mano che il gruppo si avvicinava, Gianni indovinava particolari, che dapprima si erano celati al suo sguardo.
Gli uomini, che seguivano Francesca e precedevano il parroco, indossavano tutti una coppola ed avevano a tracolla una lupara. Non avevano gli occhi nelle orbite e la bocca era solo disegnata sul loro viso, ma senza apertura.
Sofia aveva il trolley, ma non era il suo, era molto più grande, più grande di lei. Era il trolley di Irpin e lo trascinava con uno sforzo che le si leggeva sul viso.
Il parroco brandiva nella mano destra dei fogli accartocciati e con la sinistra si batteva ritmicamente il petto con aria contrita: non poteva vedere il contenuto di quei fogli, ma Gianni era pronto a scommettere che fosse l’articolo sulla messa di guarigione.
Anche il caporedattore aveva nella mano sinistra una sporta, una di quelle che le donne usavano per fare la spesa, di quelle a rete, traforate. Era nera, con i manici di legno marroni e dentro si intravedevano un numero indefinito di bollettini di conto corrente – di quelli che si usavano per pagare le bollette prima che inventassero le domiciliazioni bancarie – una pagnotta color oro ed un lungo righello di plastica. Nel sogno gli venne immediato pensare che servisse per tracciare con precisione la linea editoriale.
La processione gli passò davanti e proseguì per un tratto la sua marcia, ma sempre senza staccare lo sguardo da Gianni.
Giunti che furono in fondo alla chiesa, tutti si sedettero su degli scranni di legno, gli stalli del coro, che Gianni avrebbe giurato non esserci in una chiesa di così recente costruzione.
Al centro stava Gesù, sulla sua destra Francesca con in braccio Sofia, sulla sua sinistra il caporedattore.
Gli altri occupavano i rimanenti stalli - chi più chi meno vicini al centro della scena – ed avevano tra le gambe il fucile a canne mozze.
Il parroco davanti a loro aveva preso il posto dell’officiante dietro l’altare.
Si sentirono le campane rintoccare e dal fondo dell’abside si avvicinò all’altare un uomo con una folta e curata barba bianca ed un paio di occhiali dalla montatura metallica: era Hemingway.
Giunto finalmente all’altare, si tolse gli occhiali, guardò davanti a sé e si limitò a dire “Signori silenzio, la Corte”.
Nel silenzio generale che da minuti contornava la scena, quella frase a Gianni sembrò tanto deludente – vista la fonte – quanto ultronea.
Finito che ebbe di pronunciarla, dal fondo si alzò il caporedattore, che, rivolto lo sguardo a Gesù e provvedendo a sistemare la toga sulle spalle, cominciò a dire: “Sig.ri della Corte, costui è Gianni, di anni 48, incensurato. Le indagini hanno permesso di appurare essere fanatico assertore di una missione, che, a suo dire, ogni giornalista avrebbe: riportare la verità. Così, senza imbellettamenti, senza chiedersi quali saranno le conseguenze, per lui e per gli altri, fosse anche per la sua famiglia. Le prove raccolte sono schiaccianti. Abbiamo qui il reperto numero 1, un articolo di giornale dal titolo “Non si accettano miracoli”, prego il parroco di consegnarlo al cancelliere. Abbiamo le testimonianze raccolte tra i suoi stessi familiari, la Corte valuterà se ascoltare anche la bambina, data la giovane età. Abbiamo, inoltre, il reperto n. 2. Trattasi di un articolo di inchiesta dal titolo “Il favore delle tenebre”, incoscientemente dato alle stampe contro il volere della moglie, sconvolgendo in tal modo e senza scrupolo una intera tranquilla comunità e la vita dell’intera sua famiglia. Abbiamo, infine, la prova della recidiva, Signori della Corte, reperto n. 3. Trattasi di una bozza di articolo dal titolo “Le due verità” proditoriamente inviato dal fronte con la subdola intenzione di deviare, approfittando della confusione del momento, la sacralità della linea editoriale e di seminare indebiti e non ammissibili dubbi e sconcerto tra i lettori. Ho qui con me i reperti nn. 4, 5 e 6. Trattasi di bollette di luce e gas, di una pagnotta pagata a peso d’oro e di un righello, quello usato per tracciare la linea editoriale più giusta. Li consegno ora al cancelliere perché li metta agli atti.”.
Gesù, rimanendo seduto sul suo ligneo stallo, si rivolse a Gianni: “Come si dichiara l’imputato? Colpevole o innocente?”.
Gianni rispose di getto: “Innocente Vostro Onore, senz’altro innocente”.
“Non sono, dunque, vere le cose riferite dal caporedattore?”, chiese Gesù, “non sei forse tu l’autore di quegli articoli?”.
“Sono io, Vostro Onore, sono senz’altro vere le circostanze. Sono false le interpretazioni, sono infondate le supposizioni sull’elemento psicologico del reato contestato. Sono completamente misconosciute le attenuanti, specifiche come generiche. Tutti gli elementi del decalogo delle Sezioni Unite sono pienamente rispettati in quegli articoli, la continenza, così come la verità e la pertinenza. Questo è un processo alla libertà di stampa, al diritto costituzionalmente garantito alla libertà di espressione…”, disse Gianni e mentre pronunciava quelle parole fu il primo a stupirsene.
“Gianni, Gianni….chi sei tu o, per meglio dire, chi credi di essere?”
“Semplicemente un uomo, che di mestiere fa il giornalista” rispose.
“Definisci giornalista”, chiese Gesù
“Giornalista è una luce, è l’occhio di bue di un riflettore, che si incarica di illuminare una scena altrimenti avvolta dal buio. Giornalista è un testimone della realtà, un testimone oculare, che, prima di raccontare, giura di dire tutta la verità niente altro che la verità e sono i lettori a dire dica lo giuro. Il giornalista è una lente, non un filtro. Trasmette in presa diretta, non sta al montaggio, non si occupa della censura, ne rifugge l’idea stessa. Ha lo sguardo rivolto alla scena che deve descrivere, non sta di spalle a guardare le espressioni di chi dovrà leggere, non cerca di capire la psicologia del lettore, ma la genesi e l’eziologia di un fenomeno. Giornalista è colui che sente l’urgenza di una missione, il bisogno insopprimibile di raccontare, di far capire. Giornalista è colui che ha fame di verità e non si ferma davanti al pericolo. Non è stato forse lei, Vostro Onore, a dire a Tommaso io sono la via, la verità e la vita? Non è stato forse lei a maledire i sepolcri imbiancati e a scacciare i mercanti dal tempio? Non fu sempre lei a dire beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati?”.
“Gianni Gianni…non ti sembra di esagerare paragonandoti a me? Ecco perché pretendi di applicare la tua logica ai miei miracoli. Non ti sembra di aver fatto con me quello di cui accusi il tuo caporedattore? Non mi stai forse dettando la tua linea editoriale nell’atto di desiderare che i miracoli assecondino la tua personale idea di giustizia e di uguaglianza? Anche il Padre mio ha mandato me a morire su una croce. Ti sei mai chiesto perché non sia sceso lui, puro spirito da una nuvoletta? No? Te lo spiego io Gianni. Perché, ponendosi nell’angolo prospettico del lettore, ha pensato che per mandare un messaggio agli uomini si doveva fare uomo, perché gli uomini – così come i lettori – hanno una capacità limitata di guardare in faccia realtà più grandi della loro immaginazione, della loro umana comprensione, di quanto siano disposti o capaci di credere. E tu pretendi di raccontare qualunque cosa senza curarti delle reazioni? Sei forse tu più puro del Padre mio, del Padre Nostro? Tu pecchi di Hybris Gianni ed il fatto che tu nemmeno te ne renda conto ne è la prova più piena. Tu guardi la pagliuzza nell’occhio del vicino – visto che ti piace tanto citare le Sacre Scritture – e non vedi la trave piantata nel tuo occhio. Accusi tutti di voler piegare la realtà ad un bisogno, quello che voi giornalisti definite la linea editoriale e non vedi che tu in realtà non fai altro che imporre la tua personale linea editoriale, prima ancora che alla descrizione dei fatti, all’archetipo stesso di quella descrizione. Non ti rendi conto che sei tu Gianni a voler decidere per tutti. Non voler accettare imposizioni è nobile, ma significa anche vivere nella granitica certezza che siano sempre gli altri nell’errore. E quando è così l’oggettività che tu pretendi di esercitare è negata in radice dal tuo personalissimo archetipo di oggettività. Ed è per questo che io ti condanno. Per quello che credi, ma più ancora per quello che non vedi. Sarai portato nella cripta e legato vivo su un putridarium. Il tempo si incaricherà di liberare il tuo corpo e la tua mente dai nauseabondi umori dalla tua presunzione”.
Mentre Gianni si gettava in ginocchio in lacrime, invocando pietà, la sveglia suonò e la scena scomparve.
Gianni si sollevò sul letto.
Era affannato e sudato.
Guardò la stanza dell’albergo e la televisione rimasta accesa: gli sembrò bellissima.
Anche il fatto di essere solo come un cane, in una stanza d’albergo, in un paese straniero, circondato da sacchi di trincea e da colpi di artiglieria, gli sembrò fantastico.
Si mise le mani tra i capelli e cominciò a scuoterli, come se avesse paura che le immagini di quell’incubo, uscendo dalla sua mente, potessero rimanere incastrate tra i ricci.
Altro che sonno ristoratore.
Un buon caffè era quello di cui avrebbe avuto un gran bisogno stamattina.
Dovette accontentarsi di una rabberciata soluzione solubile.
Le due settimane di guerra – in uno con la naturale predisposizione dell’uomo a farsi formica davanti all’incertezza del futuro – avevano già determinato una profonda contrazione delle disponibilità anche dei generi di prima necessità.
Tra questi - ed in un tale momento - Gianni inseriva a buon diritto anche il caffè.
Nonostante fosse una soluzione di ripiego – e forse per l’identità di radici tra la parola solubile e la parola soluzione, gli venne da pensare – il caffè riuscì dove doccia e sonno avevano fallito.
Mentre assaporava, infatti, quella brodaglia semi tiepida con lo sguardo fisso su un punto insignificante della stanza e, quindi, più propriamente perso nel nulla, improvvisamente gli arrivò la verità.
Non l’aveva mai capita – o almeno non del tutto – questa storia della verità e della sua celante evidenza.
La sua capacità di rimanere giorni, mesi ed anni ferma davanti a te, senza fare nulla per nascondersi, eppure non essere vista.
Insomma, la verità per solito non fa nulla, né per celarsi, né per disvelarsi: il miracolo avviene al di fuori di lei, quando, non si sa davvero perché, ad un certo punto smetti di guardare e la cominci a vedere.
Così, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Insomma, improvvisamente gli fu chiaro che stava semplicemente invertendo i termini della questione.
La domanda non era se avessero ragione gli altri o se fosse lui ad essere nel giusto.
La vera questione su cui interrogarsi era la finitezza o meno della sua capacità di accettare una vera dinamica evolutiva del suo essere.
Insomma, che tra lui e gli altri vi fosse oggi una profonda incompatibilità nel modo di intendere l’informazione e il ruolo del giornalista era un dato di fatto evidente, sul quale non c’era da interrogarsi.
Andava semplicemente accettato, come si accetta il fatto che una giornata duri ventiquattro ore, che le stagioni siano quattro ecc.
Il vero problema era stabilire quanto Gianni fosse disposto a cambiare per venire incontro al pensiero dominante.
Forse l’accusa di hybris era fondata davvero, perché fino a quel momento era stato convinto che fossero tutti gli altri a dover cambiare e accettare la sua verità.
Ma non è così, il pensiero dominante non è qualcosa che puoi cambiare dall’oggi al domani.
Ed allora i termini della questione si riducevano a questo: sei disposto a cambiare o dovrai semplicemente renderti conto che in questo momento non c’è spazio per il tuo modo di lavorare?
Le sue convinzioni erano profondamente radicate, troppo per pensare di cambiarle.
Non rimaneva che la seconda scelta.
Gianni prese il portatile e cominciò a scrivere.
TITOLO: Quella sottile linea mossa.
SOTTOTITOLO: La ballata triste dei d’altra parte e dei ma anche.
“Cari lettori, questo è un addio o forse un arrivederci.
Alla fine di queste poche righe di commiato troverete le mie dimissioni.
Non posso rassegnarle dal mio modo di essere, al massimo posso farlo dal mio lavoro.
Mi è stato chiesto di applicare a questa guerra semplicità di lettura, ma alle guerre in generale ed a questa in particolare non si addice una lettura semplice.
Alla vita non si addice la semplicità.
Ogni considerazione svolta su di essa implica una serie infinita di d’altra parte e di ma anche.
La realtà cari lettori non ha mai contorni perfettamente definiti ed invece ci viene chiesto di leggere e rappresentare questa guerra come l’eterna lotta tra il bene ed il male, tra i buoni ed i cattivi.
Ci viene chiesta propaganda e non giornalismo.
L’idea che il lettore debba essere addomesticato ad una verità comoda, semplice, utile è la stessa che sta alla base del sacrificio inconsapevole di un popolo.
Per solito chi muore non sa mai davvero il perché: conosce la causa prossima, ma non sa nulla della scaturigine prima.
Chi sa tutto, invece, è di solito chi non muore durante le guerre, quelli che muovono i fili, i burattinai.
Per questo, quando mi viene chiesto di ridurre tutto al confronto tra i buoni ed i cattivi – come quando la maestra a scuola ci instillava i primi rudimenti della delazione – io non riesco a mettere a paragone due Stati, ma solo da una parte la politica e dall’altra la povera gente, quella che combatte da volontaria con armi di fortuna o quella che scappa in mezzo al fuoco dei mortai.
La povera gente pensa di star sacrificando la propria vita per la libertà, non sa davvero nulla di quello che ha realmente portato a questa guerra, di quali sordidi interessi sono inconsapevoli vittime.
Esistono verità oggettive e fatti obiettivi, ma appena finiscono sulla bocca dei politici, dei Governanti – siano essi i protagonisti diretti del conflitto o il cosiddetto occidente democratico – perdono la loro obiettività, si ammalano di ipocrisia ed aprono il campo ad una lunghissima teoria di ma anche e d’altra parte.
Nessuna delle dichiarazioni dei potenti è sincera.
Tutti i protagonisti di questa partita a scacchi iniziata con la caduta del Muro di Berlino sanno come e perché si è arrivati a questa guerra, ma preferiscono dire cose non vere, preferiscono prendere in giro i loro popoli.
Tutti i protagonisti della più recente partita a scacchi iniziata a Kiev del 2014 sanno per filo e per segno cosa ci sia alla base del conflitto e cosa ci si stia giocando per davvero, ma ricorrono a frasi di circostanza.
È assolutamente vero che non è tollerabile che uno Stato attacchi un altro Stato sovrano per difendere propri interessi, che ne minacci libertà ed indipendenza.
Ma quando questa osservazione la fa il Presidente degli Stati Uniti, a me viene da ridere, ma non si può dire, perché sarebbe politicamente scorretto.
E così ci è stato chiesto di dimenticare la Baia dei Porci, l’invasione di Panama (operazione giusta causa….), quella di Grenada nelle Antille (operazione Urgent Fury), la vicenda Noriega, sandinisti e contras in Nicaragua, il colpo di stato in Guatemala, la guerra in Vietnam, i dossier falsi che autorizzarono l’invasione dell’Iraq.
Più in generale ci è stato chiesto di dimenticare la dottrina Monroe - che sta alla base di tutti gli interventi degli Stati Uniti contro Stati sovrani del continente americano – ed in forza della quale gli USA avrebbero considerato ogni tentativo di estendere il sistema politico continentale europeo a qualsiasi territorio dell'emisfero occidentale come pericoloso per la loro pace e sicurezza e come esplicita manifestazione di inimicizia contro gli USA.
Cercare di capire le cause, contestualizzare in un ambito più ampio quello che sta succedendo è utile e necessario, ma mi è stato detto che è inopportuno.
E così mi è stato detto: se non riesci a tenere la linea editoriale nello spiegare la guerra, parla dell’emergenza umanitaria e della gara di solidarietà che si è scatenata in tutta Europa.
Meglio di no, fidatevi…
Altrimenti dovrei dire che quello che succede con i profughi lungo la frontiera polacca – quella con la Bielorussia e quella con l’Ucraina – rappresenta un fatto ancora più grave della guerra stessa.
L’emblema della miseria umana, la certificazione del razzismo dominante.
Per questo cari lettori rassegno le mie dimissioni con effetto immediato.
Altri vi racconteranno quello che riterranno giusto che voi sappiate o crediate. Io credo che per rischiare la vita occorre un valido motivo e la propaganda non lo è.
Specie se è così ipocrita.
Ad maiora.”
Non inviò questo articolo al suo giornale, si limitò a pubblicarlo sui suoi canali social.
Si sentì sollevato, improvvisamente più leggero.
Cominciò a prepararsi per il ritorno in Italia
Scrisse alla figlia.
È da lei, dal suo rapporto con lei, che desiderava ricominciare.
Magari su basi diverse.
Finalmente.
A questo pensava con un sorriso amaro, ora, sulla terrazza del suo albergo, mentre l’ultima eco di un sole al tramonto colorava di un rosso pallido quel foglio, che teneva nella mano e su cui ancora fissava lo sguardo incredulo.
Non che fosse un uomo poco risoluto o indeciso, men che meno pavido, faremmo torto alla sua persona affermandolo e, ancor di più, alla professione, che aveva scelto.
Proprio nel cimento lavorativo, ad esempio, potremmo dire che aveva dato prova di grande determinazione e risolutezza.
Mentre gli altri ragazzi della sua età dedicavano il proprio tempo libero allo svago o, con alterna fortuna, ai primi cimenti amatori, il nostro si forzava di frequentare la parrocchia, non certo per la sua fervente devozione, ma perché portatrice sana di un giornalino su cui pubblicare i suoi primi articoli.
Quel giornalino parrocchiale ed un altro - limitato, per diffusione e tematiche, all’angusto perimetro di un quartiere – erano stati la sua palestra, il luogo dove per la prima volta gli era stato concesso di dimostrare il suo valore.
Era quella che si definiva una penna, fluente nella lirica, rigoroso nella ricerca delle fonti, originale, appassionato ed appassionante nel racconto e soprattutto acuto nelle considerazioni, anche se l’articolo aveva ad oggetto l’organizzazione della processione di Pasqua o il grave problema della Peronospora, che flagellava le amate piante del quartiere.
Proprio mentre la sua fama cominciava ad affermarsi tra fedeli e stretti conterranei, però, per la prima volta quegli scogli fecero la propria comparsa.
Gli effetti furono immediati e devastanti.
Gli era stato affidato dal parroco un compito delicato ed avvincente, una di quelle occasioni che aspettava da tanto tempo.
Era stato inviato in una chiesa di un altro quartiere per assistere ad una messa di guarigione e per farne un avvincente ed esaustivo resoconto per i fedeli della parrocchia.
Era arrivato anche in grande anticipo rispetto all’orario indicato, eppure la chiesa era gremita fin sul sagrato, segno tangibile della devozione di cui godeva l’officiante, la cui fama era già giunta anche alle orecchie del nostro acerbo cronista ben prima di ricevere il delicato incarico.
Più ancora della messa, lo colpirono gli occhi.
Velati, stanchi, disperati e disperanti, ma, nello stesso tempo, in essi balenava il lampo di una malcelata attesa.
Guardavano l’officiante come si guarda l’attaccante della propria squadra nell’atto di sistemare un pallone sul dischetto del rigore a tempo scaduto, come un contadino guarda un fronte nuvoloso all’orizzonte dopo una stagione di secca.
Si riconosceva in quegli sguardi la paura di un difetto di fede, di una mancanza di merito, di una indegnità, che li condannasse al temuto - e oramai prossimo - trapasso o li relegasse nel crogiolo di un dolore crescente e definitivo.
Con loro e su di loro lo sguardo amorevole e commosso dei famigliari, di chi era disposto a giurare che, se un miracolo doveva esserci, scusate tutti, ma spetta al mio.
Dall’altare giungeva una litania appena percepibile e percepita, ma lo spettacolo, il terribile spettacolo era tutto lì, in quelle membra stanche, in quei corpi martoriati dalla malattia, in quelle facce sospese nell’attesa di una grazia, che li redimesse dal loro senza fine pena mai o dal loro patibolo.
Scrisse quell’articolo, descrisse con maestria e commozione quegli occhi, quell’attesa silenziosa, quella tensione palpabile, quella speranza, ma scrisse anche della sua soddisfazione per il fatto che il miracolo non si compì, che nessuno si fosse alzato dalla lettiga o dalla sedia a rotelle, correndo verso l’altare e gridando al miracolo.
Non riuscì a fare a meno di scrivere del suo sollievo per non aver dovuto vedere negli occhi degli altri anche l’invidia o la consapevolezza di un castigo meritato.
La cera lacca apposta sulla paura del non essere degni, di non meritare la carezza amorevole del divino, la spietata convinzione di un inferno in paziente attesa della loro morte.
Se miracolo doveva essere, doveva essere per tutti, perché la speranza e la fede di tutti meritavano ricompensa.
L’Altissimo non è un mago, che si pavoneggia per la riuscita di un gioco di prestigio, il suo Dio, l’archetipo del suo Essere Supremo, se può, provvede per tutti, non ha il cuore tanto duro da aggiungere dolore a dolore per la narcisistica riuscita di uno spettacolo, per dimostrare di saper fare miracoli.
Non ha bisogno di conferme, non può non commuoversi davanti a tutti quegli sguardi, nessuno escluso.
No, il suo Dio quel giorno aveva dato il segno più tangibile di sé non mostrandosi, non esibendosi.
Applicava, come ai più sarà parso chiaro, alla sfera del sacro la sua radicata idea di giustizia, quell’idea che lo portava a pensare che non può esserci un diritto, se non viene riconosciuto a tutti.
Rifuggiva l’idea dei suini di orweliana memoria, quell’icastica scritta che troneggiava nel tribunale della fattoria, che ammoniva sul fatto che siamo tutti uguali davanti alla legge, ma che qualcuno è semplicemente più uguale degli altri.
Applicava rigorosamente il merito in ogni ambito della vita quotidiana, ma non alla fruizione dei diritti.
Così era certo che facesse anche Dio nel proprio ambito di stretta competenza, i miracoli.
Giustizia ed uguaglianza nella sua testa erano un binomio indissolubile e vedeva nella dottrina cristiana l’affermazione trascendente di quel principio.
D’altra parte, i miracoli - la moltiplicazione dei pani e dei pesci, ma anche quello delle nozze di Cana - non avevano fatto distinzioni: i pesci ed il pane furono distribuiti a tutti, così come non si fecero eccezioni tra gli invitati, se non per ipotetica astemia.
È pur vero che ad essere resuscitate furono tre persone in particolare, ma la prima fu premiata per la repentina fede, che lo portò a pensare al giovane Gesù per la grazia di una guarigione – in un’epoca dove non doveva essere in nutrita compagnia, ove solo si pensi al fatto che di lì a pochi anni, al grido di Barabba, molti degli altri mandarono Cristo a morire sulla croce – il secondo ed il terzo si giovarono della compassione propria della sfera umana di Gesù, che non resistette alle lacrime della madre del giovinetto prematuramente dipartito ed al sentimento dell’amicizia.
E il lebbroso? direte voi.
Proprio dalla storia del lebbroso il nostro giovane giornalista aveva tratto la speranza che quel giorno il miracolo non si sarebbe compiuto.
Gesù, restituendo grazia al suo aspetto e salute alle sue membra, gli raccomandò solo di non raccontare a nessuno della sua guarigione miracolosa.
Quando questi ebbe a tradire quella promessa – vuoi per l’umana tendenza alla condivisione della meraviglia, vuoi per la naturale gioia per la guarigione - Gesù guarì anche i dieci lebbrosi, che lo avevano cercato per ricevere identica grazia: ma non lo fece davanti a loro, ma ad ognuno - e da solo - sulla strada che gli aveva indicato.
Inutile dire che l’articolo non conobbe mai la carta del giornalino della parrocchia e da quella striminzita redazione da quel giorno scomparve un nome, il suo.
Ora quel pezzo di carta stretto tra le sue mani rischiava di riproporre il medesimo esito, ma con conseguenze sicuramente più fatali per la sua carriera.
Per questo continuava a leggere e rileggere quelle poche righe, giunte per mail dalla sua redazione, in risposta all’ultimo pezzo inviato dal fronte, a cui aveva dato il titolo “Le due verità”.
Se ci ponessimo al posto del nostro inviato su questa terrazza a pochi chilometri dalla linea del fronte, leggeremmo la seguente laconica frase: “Nonostante l’estrema considerazione per la difficile situazione emotiva che stai certamente vivendo, spiace comunicare che il pezzo da te inviato non corrisponde alla linea editoriale scelta da questo quotidiano, ragione per la quale o lo riscrivi o non verrà pubblicato. Siamo certi di poter contare sulla tua professionalità e la tua comprensione”.
Se il nostro inviato fosse tipo da riflettere a voce alta, ora lo sentiremmo affermare che proprio la sua professionalità gli impediva di comprendere il tenore ed il contenuto del messaggio.
Si era limitato a riportare fatti documentati e verificati, cosa mai poteva cambiare nel pezzo e soprattutto in che modo una linea editoriale poteva stravolgere la realtà dei fatti?
Decise di entrare in doccia, magari il getto di acqua caldo lo avrebbe calmato ed aiutato a riflettere, a schiarirsi le idee, a comprendere quello che in questo momento si rifiutava non già di condividere, ma finanche di capire.
Ne uscì sicuramente più rilassato, ma assolutamente non più persuaso.
Il sole aveva appena finito la sua parabola discendente.
Le prime luci di Kiev cominciavano ad accendersi, proprio mentre ripartiva la sirena dell’allarme aereo.
Si versò da bere, si sedette sul letto con le gambe incrociate, aprì il suo portatile e rilesse l’articolo incriminato: non vi trovò nemmeno una virgola che potesse essere cambiata, nemmeno una parola che volesse cambiare.
Rilesse il messaggio - giunto dalla calda comodità della redazione - e gli scappò di pensare che forse non avrebbe fatto male un po' di sano fronte a chi pretendeva di dettare a questo insensato orrore una linea editoriale.
Alla fine decise di chiamare il capo redattore.
Era la decisione giusta, magari lo avrebbe convinto delle sue ragioni.
Il telefono fece solo due squilli.
“Ehilà Gianni, aspettavo la tua telefonata. Come va laggiù?”
“Ciao. Abbastanza bene dai, data la situazione”.
“Ci sono novità importanti di giornata?”
“Beh il fonte attorno a Kiev avanza, ma a rilento. Ora però la città vede gli effetti della guerra anche in pieno centro. Ci sono stati morti e feriti e psicologicamente questo pesa. Per il resto si aprono nuovi fronti dal mare.”
“Si ho seguito l’aggiornamento da Odessa, è terribile che abbiano bombardato anche questa città”
“Non dare retta a quei giornalisti, che scrivono rimanendo in albergo. Odessa non è stata bombardata, nemmeno le hanno sentite le esplosioni ad Odessa”.
“Ma come no? È su tutti i siti. Anche i telegiornali hanno aperto con questa notizia”.
“Lo so. Ma non cambia il fatto che il cannoneggiamento era indirizzato su una zona costiera, alla foce del fiume Dnestr. Certo si trova a sud di Odessa, ma è ad oltre quaranta chilometri dalla città”.
“Sarà”
“No è. Bisogna essere precisi nel dare le notizie. Non che non sia grave l’apertura – reale o strategica – di un nuovo fronte, ma tu ci pensi anche solo a quante persone all’estero hanno parenti ad Odessa? Che senso ha dire una cosa per un’altra? Sarebbe come se gli inviati di guerra dell’epoca avessero scritto che gli alleati erano sbarcati a San Felice al Circeo invece che ad Anzio solo perché era una meta turistica più rinomata e faceva più presa sul lettore, capisci?”
“Vabbè, tanto se non è oggi, Putin la bombarda domani. Avrà fatto le prove… Senti io ti devo lasciare perché sto entrando in uno studio televisivo. Sono ospite di questo spazio di approfondimento sulla guerra in Ucraina”.
Bell’approfondimento pensò, ma non lo disse
Disse, invece: “Capisco e non voglio rubarti agli spettatori…, ma io ho bisogno di parlarti due minuti a proposito del pezzo di ieri e del messaggio che mi è arrivato”.
“Bravo. Hai già riscritto il pezzo? Mandamelo, così appena finisco in tv me lo leggo. Poi ti faccio sapere”
“No. Non ho riscritto l’articolo, volevo parlarti proprio di questo. Non ho capito il messaggio e vorrei che mi spiegassi il motivo per il quale non può essere pubblicato così come è”.
“Stai scherzando spero. Ma lo hai riletto? Cosa c’è da capire?”
“L’ho appena riletto e proprio per questo non riesco a capire. Sono tutti fatti oggettivi, sono dichiarazioni ufficiali e documenti verificati”.
“Gianni non frega un cazzo a nessuno se le notizie sono verificate o le dichiarazioni sono ufficiali. Quello che non va è il tratto salomonico dell’articolo. Siamo in una guerra santo Dio, lo capisci o no?”
Meglio di te sicuro, avrebbe voluto rispondere, ma disse solo: “e cosa c’entra che sono – e non siamo – in guerra?”.
“Significa che bisogna scegliere un campo, non si può stare un po' di qua ed un po' di là. Significa che il lettore sa che c’è un invasore ed un invaso e che da che mondo è mondo l’invasore è il cattivo e l’invaso è la vittima. Non puoi raccontare ad un bambino che Cenerentola non fu portata alla festa da ballo del principe perché non era presentabile, perché bestemmiava ogni cinque minuti o che Biancaneve era una stalker e la povera strega una donna esasperata. Questa è ignavia. Non puoi dare in pasto alla mente del lettore le tue pippe mentali!”.
“Ma che dici? Il lettore deve capire, deve arrivare da solo al suo giudizio. Noi dobbiamo solo fornirgli i dati, gli strumenti d’analisi. Sono lettori di giornali, non bambini”.
“Sbagli. Quando io vado a fare benzina e la pago quasi il doppio, quando compro il pane e lo pago quanto pagavo un panino farcito o se sarò costretto a razionare l’elettricità o quando mi prenderà uno sturbo leggendo la bolletta io devo sapere che tutto questo ha un senso, che sono nel giusto, che non si poteva fare diversamente, che ne vale la pena, che sto facendo stoicamente la mia parte. Non puoi insinuare un dubbio. Non mi puoi nemmeno far sospettare che la mia fazione se lo è cercato o che si poteva fare diversamente. Non puoi in generale, figurati ora che siamo appena usciti – se mai ne siamo usciti – da una pandemia e stavamo per rivedere la luce del sole”.
“Ma che cazzo stai dicendo? La mia parte? La mia fazione? E secondo te io starei qui a rischiare la vita per raccontare stupidaggini che ti tranquillizzano? E non me ne stavo a casa al sicuro a scrivere amenità secondo te? Io sto qui per guardare negli occhi la realtà. Per capire e far capire.”
“No Gianni. Tu stai lì perché ti pagano. Anzi, tu stai lì perché il giornale ti paga e il giornale ha una linea editoriale e tu la devi rispettare.”
“La linea editoriale si cambia, la realtà no. La guerra se ne fotte della tua linea editoriale, la morte se ne fotte del bisogno di essere tranquillizzati, le bombe fanno male chiunque le sganci”.
“Gianni risparmiami questa filosofia da quattro soldi. Tu hai un cliente e il cliente ti sta spiegando la sua esigenza. Non si è mai visto un avvocato che di punto in bianco si mette ad accusare il suo cliente solo perché sospetta che, in fondo in fondo, non sia uno stinco di santo. L’avvocato al massimo inventa, copre, di certo non si mette a discutere col giudice dei suoi sospetti. Riscrivi l’articolo se sei in grado di farlo o scrivi un pezzo di colore, parla degli esuli e della splendida gara di solidarietà. Ecco, scrivi un bel pezzo sul fatto che la pandemia ci ha cambiati, che ci ha fatto scoprire che gli altri siamo noi. Cita la campana di Hemingway con la tua prosa intensa e vedrai che goduria per il lettore. Ora ti devo lasciare”.
“Io non faccio l’avvocato!” stava dicendo mentre la lo raggiunse il clic, che pose fine alla conversazione.
Io non faccio l’avvocato, continuava a dire mentre scagliava via quel foglietto, che fino a questo momento aveva continuato a stringere nervosamente tra le mani.
Si alzò dal letto.
La televisione accesa rimandava immagini di guerra, tanto per cambiare.
L’ultima ora scorreva in rosso sotto le immagini e riferiva del fallimento dell’ennesimo incontro tra le opposte diplomazie.
Le immagini delle case in fiamme a Mariupol dopo l’ennesimo cannoneggiamento di artiglieria stridevano con il cauto ottimismo, che le parti avevano, comunque, espresso uscendo a mani vuote dall’ennesimo faccia a faccia.
Le diplomazie parlavano, mentre Mariupol perdeva i propri figli.
“Nomen omen” bisbigliò Gianni, alzando le sopracciglia.
Pensava alla consorte di Paolo I, alla cui memoria la città era dedicata e al fatto che anche a lei vennero sottratti dalla zarina i primi due figli.
Si avvicinò al balcone, aprì i vetri ed uscì.
Lo raggiunse un vento gelido.
Una luna piena - immensa e quasi irreale - illuminava la notte silenziosa e quelle strade deserte, dove neanche un cane si prendeva la scena.
Notte di guerra, notte di coprifuoco, notte di luna piena del Verme, ma di certo neanche i coleotteri avevano l’ardire di uscire dalle loro larve.
Era notte da rimanere rintanati, specie se la natura ti aveva fatto grazia di un riparo.
Di primavera neanche l’ombra e non certo solo per il clima, che in queste latitudini ed oggi era l’unica cosa che potesse fregiarsi dell’aggettivo normale.
Si piegò sulle ginocchia, appoggiò la schiena alla ringhiera e tirò fuori una sigaretta.
La portò nervosamente alla bocca, l’accese ed aspirò forte.
Mentre il primo fumo gli colpiva i polmoni pensava a sua figlia.
Ci aveva pensato spesso in questi giorni.
Ogni volta che vedeva bambini seguire silenziosi le carovane di cittadini in fuga dalle città, ogni volta che li vedeva trasalire per lo spavento, ma senza abbandonarsi al pianto, all’ennesimo colpo di artiglieria - che si incaricava gentilmente di rompere il disperato silenzio del corridoio umanitario, aggiungendo terrore alla disperazione - ogni volta che li vedeva abbracciati alle mamme o soli nei rifugi di fortuna non poteva che pensare a Sofia.
A lei aveva pensato ad Irpin, quando aveva visto quella orribile scena sotto il monumento ai caduti della seconda guerra mondiale.
Un’intera famiglia riversa sul terreno e coperta da pietosi teli di fortuna.
Una famiglia che aveva lasciato la casa per correre incontro ad un destino quasi inconcepibile, un colpo di artiglieria sparato in mezzo al nulla, un appuntamento già scritto.
Non si poteva guardare quell’immagine senza pensare ad una scarpa slacciata, ad un inciampo ad un capriccio dovuto alla fame, ad uno di quei banali avvenimenti che capitano ogni giorno e che avrebbe avuto l’inconsapevole quanto auspicabile pregio di provocare un ritardo.
Una scarpa slacciata, una mamma china davanti al figlio nell’atto di rifare il fiocco alle stringhe e che di un tratto trasaliva per un boato a poca distanza.
Mamma mia bambini, cambiamo strada, speriamo che nessuno stesse passando di lì, povera gente…!
O magari era successo l’esatto opposto ed un banale inciampo aveva favorito l’appuntamento, si era incaricato di disegnare la scena per come la si vedeva.
Aveva, magari, favorito il destino di un padre, sopravvissuto alla sua vita, testimone oculare di un efferato omicidio, che aveva molti mandanti e tanti colpevoli.
Più di ogni cosa lo aveva colpito quella valigia, rimasta in piedi e lasciata lì a vegliare su quei corpi, monumento alla speranza di un futuro, inutile contenitore di cose, che non sarebbero più servite.
Si domandò cosa racchiudesse, quali oggetti o abiti, tra tutti quelli di una vita, una famiglia in fuga avesse scelto.
Immaginò la scena della madre, circondata dai figli vocianti ed eccitati dalla novità del viaggio, che apriva cassetti e armadi e faceva mente locale su cosa sarebbe servito più di tutto nei giorni futuri.
Li aveva per forza immaginati quei giorni futuri, mentre riempiva la valigia.
Erano rimasti lì, nella sua mente, i giorni futuri, incastonati in un presente eterno e già fuggito.
Erano rimasti in quella valigia, che Gianni non smetteva di fissare.
Rivide il trolley di Sofia.
Rivide quel minuscolo fagotto trascinare con gran cipiglio quel bagaglio più grande di lei.
Risentì il ritmato battere di quelle ruote sulle scale di casa sua.
Rivide gli occhi di Sofia, tristi e arrossati, che lo guardavano dal basso verso l’alto.
Rivide la sua piccola mano, quella libera dallo sforzo, che si agitava nell’aria, anche più del necessario, per la segreta paura che il padre non vedesse quel saluto, l’ultimo.
Erano mesi che non la vedeva, ma oggi – e per la prima volta - era felice di pensarla lontana da lui.
Era felice di pensarla al sicuro, laddove tutti i bambini dovrebbero essere.
Magari a giocare alla guerra, ma solo a giocarla.
La quotidianità con sua figlia era un’altra delle cose che si era infranta sullo scoglio del d’altra parte e del ma anche.
Lo aveva letto chiaramente negli occhi di sua moglie nell’atto di salutare per la prima volta i componenti di quella scorta, che avevano assegnato per la protezione della sua famiglia.
Lo aveva letto ancor prima a chiare lettere nella smorfia, che aveva trasfigurato il volto di Francesca appena svegliata dall’ennesimo squillo notturno del telefono.
Mentre era in redazione aveva ricevuto un messaggio sul cellulare.
La moglie gli preannunciava che dovevano assolutamente parlare.
Quella sera aveva anticipato il rientro, per rispetto e per l’ansia di capire.
O forse, sarebbe più onesto dire, per la speranza di non aver capito.
Appena aprì la porta di casa e vide le valigie capì di aver capito.
“Ciao”, disse, “sono qui”.
“Ciao Gianni, io e Sofia stiamo per andare, volevo parlarti perché mi sembra più giusto così, che lasciare un semplice biglietto”.
“Ma andare dove?”
“Per il momento da mia madre, poi si vedrà”.
“Ed io? Francesca siamo una famiglia, avrò diritto anche io di partecipare alle scelte”.
“Ah ecco, ora siamo una famiglia….”.
“Lo siamo sempre stati. Nella mia considerazione e nei fatti Francesca.”
“No Gianni. Nei fatti mi sembra evidente che lo siamo, nella tua considerazione proprio no!”.
“Sei ingiusta”.
“No. Sono obiettiva. Nelle tue scelte viene sempre prima il tuo stramaledetto lavoro. Anzi no, non è neanche il lavoro il vero problema, è il tuo maniacale fanatismo, il tuo narcisismo”.
“Io semplicemente lavoro. Quello che tu chiami fanatismo o addirittura narcisismo ha un nome: si chiama professionalità”.
“E no Gianni, tutti lavoriamo, anche i tuoi colleghi lavorano. Ti sei chiesto perché solo tu – anzi solo noi – siamo costretti a girare con degli uomini armati, che ci seguono pure se andiamo in un bagno pubblico? Dimmi, te lo sei chiesto? O a te sembra tutto normale? A me no Gianni, io sono stanca. Io ho sposato un giornalista. Uno che imbratta fogli per vivere. Se volevo vivere con l’angoscia avrei sposato un poliziotto, un PM ed invece ho sposato un uomo, che dovrebbe stare in una cazzo di redazione ed il cui solo rischio dovrebbe essere che si faccia male ad un dito, cambiando uno stramaledettissimo toner!”
Gianni la guardava con gli occhi sbarrati e la fronte aggrottata.
Sembrava che la volesse mettere a fuoco ed invece cercava solo una risposta adatta ed efficace, risolutiva.
Rimaneva, però, in un inebetito silenzio.
Non condivideva nemmeno una parola di quello che la moglie aveva appena detto ed ancor meno gli era piaciuto il modo, ma non riusciva ad abbozzare nemmeno una risposta.
Proprio lui, che con le parole ci viveva, stava fermo lì come una macchina a secco, come una barca incagliata o un veliero in bonaccia, incapace di parlare.
Se avessimo potuto per un momento interrompere la scena e domandargli perché diavolo non trovasse una risposta che fosse una, in realtà ci avrebbe detto che non era vero, che non erano le parole a mancare, ma la voglia di parlare.
Semplicemente trovava non dignitoso scendere a quel livello, dare dignità di dialogo a quello che era solo un pretestuoso atto di accusa da parte di chi stava cercando solo una motivazione postuma ad una scelta già fatta.
Cosa puoi rispondere ad una donna che descriveva in quel modo il mestiere del giornalista?
Cosa puoi rispondere ad una donna che trasformava una vittima in carnefice, e della sua famiglia per giunta?
Stai a vedere che aveva scelto lui di dover girare con la scorta? Ma era mai possibile che davvero pensasse che per lui fosse un piacere? Un vanto vanaglorioso? Un godimento narcisistico, per usare una parola che aveva imparato ad odiare da quando le donne avevano cominciato ad abusarne, come se fossero diventate tutte psicoterapeute.
La risposta alle sue domande era si e lo capì appena qualche secondo dopo, quando sua moglie, approfittando del silenzio dell’interlocutore, ricominciò il suo j’accuse con veemenza crescente.
“Tutti i tuoi colleghi – chi più chi meno – hanno affrontato l’argomento della mafia in qualche loro articolo. Per forza, capisco benissimo che chi scrive su un giornale siciliano non può fare a meno di farlo. Ma lo hanno fatto in termini generici e se hanno stigmatizzato, lo hanno fatto pesando ogni singola parola, perfino la punteggiatura. Lo hanno fatto per dovere, per lavoro, ma in modo da passare quasi inosservati. Tu no Gianni. A te cosa è venuto in mente di fare? Rispondi Santo Dio!”.
“Ma che stai dicendo?” balbettò Gianni, “ho semplicemente fatto il mio dovere…”.
“Il tuo DOVERE?” urlò Francesca, accompagnando la domanda con una stizzita gragnola di colpi sulle braccia del marito.
“Si, quello per cui mi pagano e quello che si aspettano i lettori”, rispose Gianni, buttando un occhio a Sofia per vedere come reagiva alla scena e sforzandosi di abbozzare un sorriso tranquillizzante ed una espressione faceta, di quelle che dicono sta scherzando mamma…mica stiamo litigando davvero….
“No Gianni! Te lo dico io cosa hai fatto. Tu hai fatto un fottutissimo dossier, con tanto di nomi, cognomi, date, fatti, luoghi, collegamenti, intrecci… Hai lavorato come un detective, magari ti sei pure infiltrato come nei film. Sta di fatto che hai passato fuori casa un numero imprecisato di notti. Ad un certo punto ho sospettato che avessi un’amante. Ma magari Gianni. Magari avessi scopato invece di andare in giro a fare l’eroe. Ma chi ti credi di essere? Ultimo? Sei solo l’ultimo dei coglioni Gianni, ecco che sei. E questi sono i risultati!”.
“Cosa dovevo fare secondo te? Sapere e tacere? Omettere? Farmi complice? Il giornalismo è testimonianza ed è anche indagine. Un giornalista la verità la cerca, mica gli cade dal cielo. Si chiama approfondimento!”.
“Ecco bravo. Approfondisci! Approfondisci, ma con uno bravo davvero, il motivo per il quale un lettore nella tua testa esaltata conta più di tua figlia. Non dico nemmeno di tua moglie a questo punto, ma di tua figlia! Ci pensi mai che hai una figlia? Ci hai pensato quando scrivevi quasi pure il codice fiscale di gente, che, per lavoro e per indole, spara, gente che riesce ad uccidere anche i bambini? E no lui doveva testimoniare, lui lo doveva al lettore…. Ma chi cazzo è per noi il lettore? Lo sai cosa ci fa il lettore con il tuo articolo? Ci fa il fondo della pattumiera per non far colare le cocce del cocomero, che mangiava sputacchiando semi sulla canotta bisunta, mentre leggeva il tuo approfondimento, magari ruttando a mò di punteggiatura… Lui adesso si è pure scordato quello che ha letto, loro no… E noi stiamo qui chiusi come i sorci e non abbiamo più nemmeno il tuo splendido articolo da mettere sotto l’immondizia in cui hai ridotto la nostra famiglia, che sta colando a picco, che la coccia del cocomero se lo sogna!”
“Brava Francesca. Banalizza, sfotti, fatti una bella risata. Ma ci sei mai stata in quei paesi che sembrano in perenne stato di guerra? Dove il coprifuoco la gente se lo impone per quieto vivere, dove pure gli scuri hanno occhi? L’hai mai respirato l’odore della paura? I mafiosi non sono nessuno. Comandano perché la gente ha paura, perché se uno si ribella e rimane solo non sopravvive un giorno. Questa gente è disunita, hanno sostituito l’eroismo di un popolo con la somma delle paure dei singoli. Se non dà voce a questo popolo chi ha la fortuna di avere alle spalle una potente cassa di risonanza, se chi può parlare al cuore di tutti non infonde coraggio con l’esempio, se non fa capire a tutti che non sono soli, allora loro avranno vinto per sempre Francesca. Ed io sarò stato complice. Un giornalista non può nascondersi dietro gli scuri, un giornalista deve aprirli, deve fare entrare luce, aria pulita. Lo capisci?”.
“No Gianni. Capisco solo che sei in preda ad un delirio di onnipotenza. Capisco che magari sarai pure un bravo giornalista, ma sei un pessimo padre ed un marito incosciente. Capisco che per te conta infondere coraggio a degli sconosciuti, anche se questo significa gettare nel terrore e mettere in pericolo tua figlia. Capisco che questa casa è il fortino di una resistenza e non è adatta ad una bambina. Per questo andiamo via. Ti farò sapere dove andremo a stare non appena possibile. Cerca almeno di non farti uccidere, se puoi. Meglio avere un padre con qualche rotella in meno che essere orfani.”.
Non diede nemmeno il tempo di replicare.
Prese la bambina per mano, voltò le spalle al marito ed uscì dalla porta di casa.
Mentre il vento gelido scompigliava i suoi capelli, Gianni lo ripercorse tutto quel dialogo.
Poteva ripetere a memoria ogni singola parola ed oggi il ricordo era ancora più vivido.
Solo che al posto del rumore del trolley sulle scale, oggi si stava incaricando l’artiglieria di dare ritmo alla scena.
Non poté fare a meno di chiedersi se avessero ragione loro.
In fondo la redazione, seppure con parole più misurate, aveva espresso sul suo lavoro lo stesso giudizio della moglie.
E se a sbagliare fosse davvero lui?
Forse era il caso di rimandare a domani la risposta a questo angoscioso interrogativo.
Decise di affidare al sonno quel compito che la doccia non aveva saputo assolvere.
Rientrò nella stanza, chiuse la finestra e si sdraiò sul letto senza nemmeno svestirsi.
Non per essere pronto in caso di allarme aereo, ma più semplicemente perché non vedeva l’ora di calare il sipario su questa giornata e sui suoi ingombranti pensieri.
La stanchezza si scontrò con l’inquietudine e vinse a mani basse.
Si addormentò e sognò.
Sognò la chiesa gremita.
Sognò gli occhi pieni di paura e speranza dei malati.
Sognò le strane parole che provenivano dall’altare.
Segnò sé stesso con un taccuino in mano ed un bizzarro impermeabile da tenente Colombo.
Anche nel sogno il miracolo non si compì, anche nel sogno la sua segreta speranza non andò delusa.
Ad un certo punto, però, tutti si voltarono verso la porta della chiesa, alcuni con più fatica degli altri, ma tutti nello stesso momento.
Si voltò anche lui e vide dal fondo della chiesa avanzare una strana processione.
Davanti a tutti avanzava Gesù in tonaca bianca, dietro di lui Francesca in canotta, con in una mano Sofia e nell’altra una fetta di cocomero.
Accanto a lei il caporedattore, che indossava una toga, con tanto di alamari dorati ed il bavaglino.
Dietro di loro una teoria infinita di persone con un giornale in una mano e nell’altra un sacco per l’immondizia.
Chiudeva la fila il suo parroco.
Avanzavano in silenzio con uno sguardo ieratico e senza proferire verbo alcuno.
Anche la gente li osservava in silenzio.
In tutti si andava consolidando una certezza: ecco ci siamo!
Ma i componenti di questa lunga teoria di personaggi bizzarri, che sembrava uscita da una pellicola di felliniana memoria, nemmeno li guardavano quegli occhi, quelle stanche membra.
No, tutti fissavano un punto in fondo alla chiesa, un punto che non casualmente era occupato da Gianni.
Insomma, strano a dirsi, ma tutti, avanzando con passo marziale, guardavano Gianni.
Gianni, quasi ipnotizzato, non poteva fare a meno di ricambiare quello sguardo, mentre sentiva crescere in lui una strana angoscia.
Gesù ad un tratto arrestò il suo incedere.
Si voltò e con sguardo interrogativo, ma sempre senza parlare, guardò Francesca, il capo redattore ed il parroco.
All’unisono levarono un braccio annuendo con la testa.
Insomma, chi con una fetta di cocomero e chi con altro, ma tutti indicarono Gianni.
Gesù si voltò di nuovo verso Gianni e ricominciò a camminare.
Tutti lo seguirono, in silenzio ovviamente.
Mano a mano che il gruppo si avvicinava, Gianni indovinava particolari, che dapprima si erano celati al suo sguardo.
Gli uomini, che seguivano Francesca e precedevano il parroco, indossavano tutti una coppola ed avevano a tracolla una lupara. Non avevano gli occhi nelle orbite e la bocca era solo disegnata sul loro viso, ma senza apertura.
Sofia aveva il trolley, ma non era il suo, era molto più grande, più grande di lei. Era il trolley di Irpin e lo trascinava con uno sforzo che le si leggeva sul viso.
Il parroco brandiva nella mano destra dei fogli accartocciati e con la sinistra si batteva ritmicamente il petto con aria contrita: non poteva vedere il contenuto di quei fogli, ma Gianni era pronto a scommettere che fosse l’articolo sulla messa di guarigione.
Anche il caporedattore aveva nella mano sinistra una sporta, una di quelle che le donne usavano per fare la spesa, di quelle a rete, traforate. Era nera, con i manici di legno marroni e dentro si intravedevano un numero indefinito di bollettini di conto corrente – di quelli che si usavano per pagare le bollette prima che inventassero le domiciliazioni bancarie – una pagnotta color oro ed un lungo righello di plastica. Nel sogno gli venne immediato pensare che servisse per tracciare con precisione la linea editoriale.
La processione gli passò davanti e proseguì per un tratto la sua marcia, ma sempre senza staccare lo sguardo da Gianni.
Giunti che furono in fondo alla chiesa, tutti si sedettero su degli scranni di legno, gli stalli del coro, che Gianni avrebbe giurato non esserci in una chiesa di così recente costruzione.
Al centro stava Gesù, sulla sua destra Francesca con in braccio Sofia, sulla sua sinistra il caporedattore.
Gli altri occupavano i rimanenti stalli - chi più chi meno vicini al centro della scena – ed avevano tra le gambe il fucile a canne mozze.
Il parroco davanti a loro aveva preso il posto dell’officiante dietro l’altare.
Si sentirono le campane rintoccare e dal fondo dell’abside si avvicinò all’altare un uomo con una folta e curata barba bianca ed un paio di occhiali dalla montatura metallica: era Hemingway.
Giunto finalmente all’altare, si tolse gli occhiali, guardò davanti a sé e si limitò a dire “Signori silenzio, la Corte”.
Nel silenzio generale che da minuti contornava la scena, quella frase a Gianni sembrò tanto deludente – vista la fonte – quanto ultronea.
Finito che ebbe di pronunciarla, dal fondo si alzò il caporedattore, che, rivolto lo sguardo a Gesù e provvedendo a sistemare la toga sulle spalle, cominciò a dire: “Sig.ri della Corte, costui è Gianni, di anni 48, incensurato. Le indagini hanno permesso di appurare essere fanatico assertore di una missione, che, a suo dire, ogni giornalista avrebbe: riportare la verità. Così, senza imbellettamenti, senza chiedersi quali saranno le conseguenze, per lui e per gli altri, fosse anche per la sua famiglia. Le prove raccolte sono schiaccianti. Abbiamo qui il reperto numero 1, un articolo di giornale dal titolo “Non si accettano miracoli”, prego il parroco di consegnarlo al cancelliere. Abbiamo le testimonianze raccolte tra i suoi stessi familiari, la Corte valuterà se ascoltare anche la bambina, data la giovane età. Abbiamo, inoltre, il reperto n. 2. Trattasi di un articolo di inchiesta dal titolo “Il favore delle tenebre”, incoscientemente dato alle stampe contro il volere della moglie, sconvolgendo in tal modo e senza scrupolo una intera tranquilla comunità e la vita dell’intera sua famiglia. Abbiamo, infine, la prova della recidiva, Signori della Corte, reperto n. 3. Trattasi di una bozza di articolo dal titolo “Le due verità” proditoriamente inviato dal fronte con la subdola intenzione di deviare, approfittando della confusione del momento, la sacralità della linea editoriale e di seminare indebiti e non ammissibili dubbi e sconcerto tra i lettori. Ho qui con me i reperti nn. 4, 5 e 6. Trattasi di bollette di luce e gas, di una pagnotta pagata a peso d’oro e di un righello, quello usato per tracciare la linea editoriale più giusta. Li consegno ora al cancelliere perché li metta agli atti.”.
Gesù, rimanendo seduto sul suo ligneo stallo, si rivolse a Gianni: “Come si dichiara l’imputato? Colpevole o innocente?”.
Gianni rispose di getto: “Innocente Vostro Onore, senz’altro innocente”.
“Non sono, dunque, vere le cose riferite dal caporedattore?”, chiese Gesù, “non sei forse tu l’autore di quegli articoli?”.
“Sono io, Vostro Onore, sono senz’altro vere le circostanze. Sono false le interpretazioni, sono infondate le supposizioni sull’elemento psicologico del reato contestato. Sono completamente misconosciute le attenuanti, specifiche come generiche. Tutti gli elementi del decalogo delle Sezioni Unite sono pienamente rispettati in quegli articoli, la continenza, così come la verità e la pertinenza. Questo è un processo alla libertà di stampa, al diritto costituzionalmente garantito alla libertà di espressione…”, disse Gianni e mentre pronunciava quelle parole fu il primo a stupirsene.
“Gianni, Gianni….chi sei tu o, per meglio dire, chi credi di essere?”
“Semplicemente un uomo, che di mestiere fa il giornalista” rispose.
“Definisci giornalista”, chiese Gesù
“Giornalista è una luce, è l’occhio di bue di un riflettore, che si incarica di illuminare una scena altrimenti avvolta dal buio. Giornalista è un testimone della realtà, un testimone oculare, che, prima di raccontare, giura di dire tutta la verità niente altro che la verità e sono i lettori a dire dica lo giuro. Il giornalista è una lente, non un filtro. Trasmette in presa diretta, non sta al montaggio, non si occupa della censura, ne rifugge l’idea stessa. Ha lo sguardo rivolto alla scena che deve descrivere, non sta di spalle a guardare le espressioni di chi dovrà leggere, non cerca di capire la psicologia del lettore, ma la genesi e l’eziologia di un fenomeno. Giornalista è colui che sente l’urgenza di una missione, il bisogno insopprimibile di raccontare, di far capire. Giornalista è colui che ha fame di verità e non si ferma davanti al pericolo. Non è stato forse lei, Vostro Onore, a dire a Tommaso io sono la via, la verità e la vita? Non è stato forse lei a maledire i sepolcri imbiancati e a scacciare i mercanti dal tempio? Non fu sempre lei a dire beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati?”.
“Gianni Gianni…non ti sembra di esagerare paragonandoti a me? Ecco perché pretendi di applicare la tua logica ai miei miracoli. Non ti sembra di aver fatto con me quello di cui accusi il tuo caporedattore? Non mi stai forse dettando la tua linea editoriale nell’atto di desiderare che i miracoli assecondino la tua personale idea di giustizia e di uguaglianza? Anche il Padre mio ha mandato me a morire su una croce. Ti sei mai chiesto perché non sia sceso lui, puro spirito da una nuvoletta? No? Te lo spiego io Gianni. Perché, ponendosi nell’angolo prospettico del lettore, ha pensato che per mandare un messaggio agli uomini si doveva fare uomo, perché gli uomini – così come i lettori – hanno una capacità limitata di guardare in faccia realtà più grandi della loro immaginazione, della loro umana comprensione, di quanto siano disposti o capaci di credere. E tu pretendi di raccontare qualunque cosa senza curarti delle reazioni? Sei forse tu più puro del Padre mio, del Padre Nostro? Tu pecchi di Hybris Gianni ed il fatto che tu nemmeno te ne renda conto ne è la prova più piena. Tu guardi la pagliuzza nell’occhio del vicino – visto che ti piace tanto citare le Sacre Scritture – e non vedi la trave piantata nel tuo occhio. Accusi tutti di voler piegare la realtà ad un bisogno, quello che voi giornalisti definite la linea editoriale e non vedi che tu in realtà non fai altro che imporre la tua personale linea editoriale, prima ancora che alla descrizione dei fatti, all’archetipo stesso di quella descrizione. Non ti rendi conto che sei tu Gianni a voler decidere per tutti. Non voler accettare imposizioni è nobile, ma significa anche vivere nella granitica certezza che siano sempre gli altri nell’errore. E quando è così l’oggettività che tu pretendi di esercitare è negata in radice dal tuo personalissimo archetipo di oggettività. Ed è per questo che io ti condanno. Per quello che credi, ma più ancora per quello che non vedi. Sarai portato nella cripta e legato vivo su un putridarium. Il tempo si incaricherà di liberare il tuo corpo e la tua mente dai nauseabondi umori dalla tua presunzione”.
Mentre Gianni si gettava in ginocchio in lacrime, invocando pietà, la sveglia suonò e la scena scomparve.
Gianni si sollevò sul letto.
Era affannato e sudato.
Guardò la stanza dell’albergo e la televisione rimasta accesa: gli sembrò bellissima.
Anche il fatto di essere solo come un cane, in una stanza d’albergo, in un paese straniero, circondato da sacchi di trincea e da colpi di artiglieria, gli sembrò fantastico.
Si mise le mani tra i capelli e cominciò a scuoterli, come se avesse paura che le immagini di quell’incubo, uscendo dalla sua mente, potessero rimanere incastrate tra i ricci.
Altro che sonno ristoratore.
Un buon caffè era quello di cui avrebbe avuto un gran bisogno stamattina.
Dovette accontentarsi di una rabberciata soluzione solubile.
Le due settimane di guerra – in uno con la naturale predisposizione dell’uomo a farsi formica davanti all’incertezza del futuro – avevano già determinato una profonda contrazione delle disponibilità anche dei generi di prima necessità.
Tra questi - ed in un tale momento - Gianni inseriva a buon diritto anche il caffè.
Nonostante fosse una soluzione di ripiego – e forse per l’identità di radici tra la parola solubile e la parola soluzione, gli venne da pensare – il caffè riuscì dove doccia e sonno avevano fallito.
Mentre assaporava, infatti, quella brodaglia semi tiepida con lo sguardo fisso su un punto insignificante della stanza e, quindi, più propriamente perso nel nulla, improvvisamente gli arrivò la verità.
Non l’aveva mai capita – o almeno non del tutto – questa storia della verità e della sua celante evidenza.
La sua capacità di rimanere giorni, mesi ed anni ferma davanti a te, senza fare nulla per nascondersi, eppure non essere vista.
Insomma, la verità per solito non fa nulla, né per celarsi, né per disvelarsi: il miracolo avviene al di fuori di lei, quando, non si sa davvero perché, ad un certo punto smetti di guardare e la cominci a vedere.
Così, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Insomma, improvvisamente gli fu chiaro che stava semplicemente invertendo i termini della questione.
La domanda non era se avessero ragione gli altri o se fosse lui ad essere nel giusto.
La vera questione su cui interrogarsi era la finitezza o meno della sua capacità di accettare una vera dinamica evolutiva del suo essere.
Insomma, che tra lui e gli altri vi fosse oggi una profonda incompatibilità nel modo di intendere l’informazione e il ruolo del giornalista era un dato di fatto evidente, sul quale non c’era da interrogarsi.
Andava semplicemente accettato, come si accetta il fatto che una giornata duri ventiquattro ore, che le stagioni siano quattro ecc.
Il vero problema era stabilire quanto Gianni fosse disposto a cambiare per venire incontro al pensiero dominante.
Forse l’accusa di hybris era fondata davvero, perché fino a quel momento era stato convinto che fossero tutti gli altri a dover cambiare e accettare la sua verità.
Ma non è così, il pensiero dominante non è qualcosa che puoi cambiare dall’oggi al domani.
Ed allora i termini della questione si riducevano a questo: sei disposto a cambiare o dovrai semplicemente renderti conto che in questo momento non c’è spazio per il tuo modo di lavorare?
Le sue convinzioni erano profondamente radicate, troppo per pensare di cambiarle.
Non rimaneva che la seconda scelta.
Gianni prese il portatile e cominciò a scrivere.
TITOLO: Quella sottile linea mossa.
SOTTOTITOLO: La ballata triste dei d’altra parte e dei ma anche.
“Cari lettori, questo è un addio o forse un arrivederci.
Alla fine di queste poche righe di commiato troverete le mie dimissioni.
Non posso rassegnarle dal mio modo di essere, al massimo posso farlo dal mio lavoro.
Mi è stato chiesto di applicare a questa guerra semplicità di lettura, ma alle guerre in generale ed a questa in particolare non si addice una lettura semplice.
Alla vita non si addice la semplicità.
Ogni considerazione svolta su di essa implica una serie infinita di d’altra parte e di ma anche.
La realtà cari lettori non ha mai contorni perfettamente definiti ed invece ci viene chiesto di leggere e rappresentare questa guerra come l’eterna lotta tra il bene ed il male, tra i buoni ed i cattivi.
Ci viene chiesta propaganda e non giornalismo.
L’idea che il lettore debba essere addomesticato ad una verità comoda, semplice, utile è la stessa che sta alla base del sacrificio inconsapevole di un popolo.
Per solito chi muore non sa mai davvero il perché: conosce la causa prossima, ma non sa nulla della scaturigine prima.
Chi sa tutto, invece, è di solito chi non muore durante le guerre, quelli che muovono i fili, i burattinai.
Per questo, quando mi viene chiesto di ridurre tutto al confronto tra i buoni ed i cattivi – come quando la maestra a scuola ci instillava i primi rudimenti della delazione – io non riesco a mettere a paragone due Stati, ma solo da una parte la politica e dall’altra la povera gente, quella che combatte da volontaria con armi di fortuna o quella che scappa in mezzo al fuoco dei mortai.
La povera gente pensa di star sacrificando la propria vita per la libertà, non sa davvero nulla di quello che ha realmente portato a questa guerra, di quali sordidi interessi sono inconsapevoli vittime.
Esistono verità oggettive e fatti obiettivi, ma appena finiscono sulla bocca dei politici, dei Governanti – siano essi i protagonisti diretti del conflitto o il cosiddetto occidente democratico – perdono la loro obiettività, si ammalano di ipocrisia ed aprono il campo ad una lunghissima teoria di ma anche e d’altra parte.
Nessuna delle dichiarazioni dei potenti è sincera.
Tutti i protagonisti di questa partita a scacchi iniziata con la caduta del Muro di Berlino sanno come e perché si è arrivati a questa guerra, ma preferiscono dire cose non vere, preferiscono prendere in giro i loro popoli.
Tutti i protagonisti della più recente partita a scacchi iniziata a Kiev del 2014 sanno per filo e per segno cosa ci sia alla base del conflitto e cosa ci si stia giocando per davvero, ma ricorrono a frasi di circostanza.
È assolutamente vero che non è tollerabile che uno Stato attacchi un altro Stato sovrano per difendere propri interessi, che ne minacci libertà ed indipendenza.
Ma quando questa osservazione la fa il Presidente degli Stati Uniti, a me viene da ridere, ma non si può dire, perché sarebbe politicamente scorretto.
E così ci è stato chiesto di dimenticare la Baia dei Porci, l’invasione di Panama (operazione giusta causa….), quella di Grenada nelle Antille (operazione Urgent Fury), la vicenda Noriega, sandinisti e contras in Nicaragua, il colpo di stato in Guatemala, la guerra in Vietnam, i dossier falsi che autorizzarono l’invasione dell’Iraq.
Più in generale ci è stato chiesto di dimenticare la dottrina Monroe - che sta alla base di tutti gli interventi degli Stati Uniti contro Stati sovrani del continente americano – ed in forza della quale gli USA avrebbero considerato ogni tentativo di estendere il sistema politico continentale europeo a qualsiasi territorio dell'emisfero occidentale come pericoloso per la loro pace e sicurezza e come esplicita manifestazione di inimicizia contro gli USA.
Cercare di capire le cause, contestualizzare in un ambito più ampio quello che sta succedendo è utile e necessario, ma mi è stato detto che è inopportuno.
E così mi è stato detto: se non riesci a tenere la linea editoriale nello spiegare la guerra, parla dell’emergenza umanitaria e della gara di solidarietà che si è scatenata in tutta Europa.
Meglio di no, fidatevi…
Altrimenti dovrei dire che quello che succede con i profughi lungo la frontiera polacca – quella con la Bielorussia e quella con l’Ucraina – rappresenta un fatto ancora più grave della guerra stessa.
L’emblema della miseria umana, la certificazione del razzismo dominante.
Per questo cari lettori rassegno le mie dimissioni con effetto immediato.
Altri vi racconteranno quello che riterranno giusto che voi sappiate o crediate. Io credo che per rischiare la vita occorre un valido motivo e la propaganda non lo è.
Specie se è così ipocrita.
Ad maiora.”
Non inviò questo articolo al suo giornale, si limitò a pubblicarlo sui suoi canali social.
Si sentì sollevato, improvvisamente più leggero.
Cominciò a prepararsi per il ritorno in Italia
Scrisse alla figlia.
È da lei, dal suo rapporto con lei, che desiderava ricominciare.
Magari su basi diverse.
Finalmente.
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“D’altra parte” e “ma anche” erano gli scogli dove, ogni volta, si infrangeva la marea delle sue decisioni e dei suoi buoni propositi.
A questo pensava con un sorriso amaro, ora, sulla terrazza del suo albergo, mentre l’ultima eco di un sole al tramonto colorava di un rosso pallido quel foglio, che...
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24/03/2022 18:04:31
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UNA RISATA LI SEPPELLIRA’
03 dicembre 2021 ore 10:35 segnala
Ma respirare fa sempre così rumore?
Questo pensava Elia, mentre freddo e buio lo avvolgevano e lo facevano tremare, ma molto meno di quanto vi riuscisse il martellio innaturale di quei passi e di quelle grida rauche e stizzite.
Li aveva sentiti arrivare da lontano, quella ritmica, fatta di stivali che battevano all'unisono, fino a qualche anno fa lo avrebbe esaltato, magari avrebbe cercato di riprodurla con i suoi amati soldatini.
Ora no, ora era un segnale.
Lo era da quando era rimasto solo in quella casa, la sua casa, la loro casa.
Era il segnale che segnava il tempo di quell'intercapedine, di quel buio, di quel freddo.
Il tempo di quello sforzo innaturale di trattenere il respiro, di reprimere il suo rumore vitale, perché nessuno lo spezzasse per sempre.
Quanto era diverso questo nascondino, qui nessuno contava a ritroso, nessuno avrebbe gridato il suo nome unito ad un tana per, chi lo cercava non si sarebbe seduto accanto a lui a mangiare una fetta di pane, burro e marmellata ed a progettare il prossimo gioco, quello che li avrebbe condotti fino a cena.
Sentiva le voci sempre più vicine ed alterate, sentiva gli oggetti cadere e le sedie spostarsi e si sforzava di respirare più piano, ma più a lungo tratteneva il respiro e più rumore faceva il prossimo.
Sperava che suo nonno avesse ragione, non lo aveva mai sperato così tanto: diceva sempre che solo una bieca ignoranza poteva condurre a tanta insensata violenza, solo la mancanza di educazione per il bello poteva consentire l'insorgere di un odio così cieco ed innaturale.
Siccome per natura ogni uomo è attratto da ciò che meglio lo rappresenta, allora il nonno sosteneva che per costruire un nascondiglio, che proteggesse e difendesse da quegli uomini, non si poteva che scegliere una libreria e dietro la più ricca libreria di casa aveva deciso di costruire quell'intercapedine.
"Solo la cultura, solo il bello può sconfiggerli, vedrai che funzionerà".
Ed in effetti finora aveva funzionato, ma solo per lui.
Il nonno aveva scelto di non sperimentarlo quel nascondiglio o forse aveva deciso che quel che rimaneva della sua vita non valesse nemmeno lo sforzo di trattenere un respiro.
Appena il rettore lo aveva mandato a chiamare aveva capito che quei folli avevano tutta l'intenzione di applicarle quelle leggi razziali, che per il diritto - per noi che eravamo la culla del diritto - rappresentavano un ossimoro.
Aveva passato la sua vita ad insegnare, aveva iniziato ogni corso ricordando agli studenti, che lo fissavano in ammirato silenzio, che il diritto, quello che gli antichi romani chiamavano ius, era il complesso di regole che consentiva una civile convivenza tra i membri di una qualsiasi comunità e che non vi poteva essere civile convivenza, se quelle regole non fossero ispirate ai principi di eguaglianza e non discriminazione.
Per questo quelle leggi - a cui per colmo molti suoi colleghi si erano dedicati - rappresentavano un ossimoro, perché erano la negazione stessa di quei principi e non meritavano nemmeno l'appellativo di leggi e men che meno di ius.
Il rettore non aveva avuto nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi mentre gli comunicava che la sua carriera accademica sarebbe finita il giorno stesso, che la sua razza era di ostacolo all'esercizio della professione, che qualcuno aveva deciso che per il sano sviluppo di studenti ariani la contaminazione con idee giudaiche rappresentava un pericolo.
Era il 1939 e, se avesse potuto scegliere, quella data avrebbe voluta incisa sulla sua lapide.
Aveva provato a continuare a vivere, si era dedicato alla famiglia ed a quel nipote che aveva il potere di farlo sentire vivo.
Ma qualsiasi essere vivente strappato al proprio elemento naturale non sopravvive che pochi attimi: quegli anni erano stati per lui la contrazione di un pesce posato sulla barca o sulla riva, le sue branchie si andavano progressivamente seccando, i suoi movimenti rallentando.
Ed alla fine decise di risolvere il problema del fiato - lo stesso che ora Elia sperimentava - una volta per tutte, in un uggioso pomeriggio autunnale: un colpo alla sedia e quella corda ad apparecchiare un addio, a togliere un disturbo, a pareggiare un'offesa.
Lo trovò suo figlio - il padre di Elia - immobile ed austero.
Aveva indossato la toga per la sua ultima lezione, ma non il bavaglino, perché il cappio l'avrebbe gualcito: aveva scelto il silenzio per la sua lectio magistralis, sarebbe bastata la scena a ricordare a tutti che il primo dei diritti, il più inalienabile è quello al decoro, alla dignità e quel diritto nessuno poteva pensare di toglierglielo.
Elia quella sera aveva trovato il bavaglino piegato sul cuscino del suo letto e dentro un biglietto con una sola frase: "Ricorda Elia nessuna notte è eterna. Tornerai alla tua scuola, riderai ancora seduto al banco con Mattia e, anche se non mi vedrai, non sarai mai solo. Una risata li seppellirà ed il mondo riprenderà il suo corso, dedicando appena un momento per scrollarsi di dosso il loro fango. Ma tu non dimenticare mai, perché ciò che è stato può tornare e non dovrai permetterlo. Io non ho saputo impedirlo, ma tu sarai più forte perché hai imparato a conoscere il pericolo ed il nemico".
Dopo qualche anno si era ritrovato ad essere l'uomo di casa: il padre aveva deciso che non si poteva aspettare il prossimo nemico, ma che andasse combattuto questo nemico, quello che aveva tolto al padre la gioia di vivere, quello che aveva tolto al figlio il diritto di studiare, quello che aveva tolto a tutti la dignità e la gioia di vivere.
Non avrebbe aspettato quella risata, si sarebbe incaricato lui di dargli sepoltura e così aveva salutato la famiglia e si era fatto partigiano.
Fu fucilato con quattordici compagni all'alba del 10 agosto del 1944 a Piazzale Loreto ed il suo corpo fu lasciato lì sul selciato per quattordici ore.
Mentre usciva dal carcere di San Vittore ed ancora mentre il plotone caricava i suoi fucili pensava alla moglie ed al figlio e li immaginava nella loro casa.
Voleva crederli al sicuro e ancora insieme, non poteva sapere che la moglie lo aspettava lì, dove quei colpi lo avrebbero condotto.
Era stata catturata durante una retata e condotta a morte in una camera a gas in una fredda località polacca.
Stava tornando dalla spesa quando fu catturata e aveva in una mano il pane per Elia e nell'altra la tessera per il suo acquisto.
Quel pomeriggio Elia non avrebbe avuto il suo pane, burro e marmellata e nemmeno l'amorevole sguardo della mamma, che sapeva farlo sentire comunque al sicuro, ma avrebbe avuto il suo nascondino.
Mancava un nome alla loro lista e lo cercarono dappertutto, meno che dietro alla libreria dove tremava e si sforzava di trattenere il respiro.
Il nonno conosceva bene anche l'indole degli uomini evidentemente.
Tornarono quasi ogni giorno in quella casa: mettere l'ultima croce su quella lista era diventata oramai una questione di principio.
Quando si allontanavano Elia aspettava qualche ora, poi lentamente apriva la porta segreta e sbucava tra i libri.
Anche quel giorno la scena si svolse nello stesso identico modo: ad Elia sembrava quasi di ballare con loro, ripetendo con attenzione gli identici passi, attento al tempo ed ai suoni.
Era quasi mezzogiorno ed Elia si diresse verso la scuola o, per meglio dire, quella che era stata la sua scuola.
Camminava rasente i muri, con un cappello un pò fuori stagione calzato sulla testa ed il bavero della giacca alzato.
Ad ogni angolo si fermava, sporgeva la testa e si guardava intorno.
Se tutto era tranquillo, attraversava correndo e di nuovo riprendeva la sua andatura, sfiorando le pareti.
Giunto sotto la finestra della sua classe, si nascose dietro il solito albero ed emise due fischi secchi e ravvicinati.
Era il segnale.
Mattia, come ogni giorno, prese un sacchetto da sotto il banco, lo nascose sotto la maglietta, chiese alla maestra di avere il permesso per andare in bagno.
Giunto nel bagno, avendo cura di non essere visto da nessuno, aprì la finestra, emise un fischio e dopo qualche secondo lanciò il sacchetto.
Si affacciò per controllare il buon esito della consegna, guardò il compagno di banco con il sacchetto in mano e sorrise, facendo un saluto con la mano, accompagnato dal solito occhiolino.
Elia ripercorse la stessa strada a ritroso, entrò in casa, aprì il sacchetto e prima di dare inizio al pasto con il pensiero ringraziò la mamma di Mattia, che anche oggi aveva pensato a lui.
Questa scena si ripeteva ogni giorno ed Elia aveva cominciato a trovarla quasi normale.
Potenza dell'abitudine e dello spirito di adattamento.
Per qualche giorno quel suono ritmico di stivali sbattuti sul selciato non si sentì ed un giorno Elia fu colpito da un grande frastuono che proveniva dalla strada.
Non sembravano urla di paura - quelle aveva imparato a riconoscerle - ma grida di gioia, accompagnate ad un certo punto da un suono di banda.
Trovò il coraggio di affacciarsi ed una voce dalla strada gli gridò: scendi Elia, la guerra è finita!
Era Mattia, mano nella mano di sua madre.
Non rivide nessuno della sua famiglia e non gli esplose mai sul viso nemmeno quella risata inumante, che il nonno aveva preannunciato nel suo ultimo messaggio.
Ma non dimenticò mai, per impegno e non solo.
Fu bambino e poi uomo dagli incubi ricorrenti e dalle poche parole.
Tornò in quella scuola e si fece onore.
Andò anche all'Università ed in quell'aula, sulla cui porta faceva bella mostra di sé il nome del nonno in ottone.
Indossò quella toga, che fu l'alta uniforme scelta dal nonno per il suo addio e quel bavaglino e ne fece lo strumento del suo lavoro.
Insegnò ed iniziò ogni corso ricordando cosa fosse il diritto ed a cosa servisse.
Scrisse.
Scrisse dei suoi fantasmi.
Scrisse dei suoi incubi, fatti di freddo, buio e dei loro passi ritmati e delle loro voci rauche e adirate.
Scrisse di quel sacchetto quotidiano, che fu il suo personale Padre Nostro, dell’amorevole altruismo di quella madre, che inventò forse la prima adozione a distanza e dell’occhiolino di Mattia, che lo nutriva nell’anima prima ancora che quel sacchetto lanciato con un fischio si dedicasse al suo corpo.
Scrisse di sua madre e le dedicò una fondazione, che chiamò pane, burro e marmellata.
Scrisse di suo padre, ma sarebbe più esatto dire che lesse di suo padre e della sua storia, che si consumava troppo presto lontano da quel bambino che tremava di freddo e di paura dentro ad una intercapedine.
In fondo scrivere significava restituire qualcosa di quel grande favore che i libri gli avevano riservato.
Soprattutto non smise mai di scrivere e di parlare di suo nonno, del suo atto estremo di ribellione, orribile eppure dignitoso.
Conservò sempre quel biglietto e lo rilesse migliaia di volte nel privato delle sue case prima di coricarsi ed in ogni occasione pubblica: non dimenticare significa anche spiegare quanto successe a chi non lo visse.
Un giorno, già anziano ed in pensione, una folla vociante lo avvolse mentre era in taxi, fermo nel traffico.
Non gli portarono alla memoria le grida di quel giorno che gli restituì la luce, non avevano il suono argentino della festa, molto di più la rabbia ceca di quelle voci rauche e straniere.
Gli slogan erano ossessivi e ritmati come quei passi.
Scese dal taxi e lo investì l’urlo libertà, libertà che la gente passandogli davanti gli urlava sulla faccia, proprio a lui.
Lesse i cartelli che i manifestanti ostentavano con fierezza: parlavano di dittatura e di Norimberga.
Su alcuni di essi campeggiava l’immagine di un uomo in divisa e la scritta NO alla dittatura.
Nessuno li stava deportando, nessuno li stava minacciando con un fucile, non dovevano stare nascosti durante un rastrellamento, nessuno voleva ucciderli - semmai convincerli a salvarsi - ma ugualmente gridavano libertà libertà e si ribellavano alla dittatura.
Gli venne normale chiedersi se qualcuno di loro sapesse davvero di cosa stesse parlando, ma mentre inseguiva questo pensiero il suo sguardo si posò su una donna e sul suo abito: aveva una stella di Davide al centro del petto ed un numero scritto sul braccio.
Non poté non pensare a sua madre, al suo viaggio, al suono delle rotaie percorso da quel vagone merci carico di umanità a perdere, di quel fischio che risvegliava la madre dai suoi pensieri spaventati e smarriti.
La vide tremare al freddo, in una baracca di legno nel mezzo del nulla di un paese straniero e sconosciuto, con quel numero tatuato sul braccio.
La vide in fila mentre si recava a fare la doccia con i capelli rasati, lei, proprio lei che non si addormentava e non si risvegliava nemmeno una volta senza lusingare i suoi lunghi capelli castani con decine di colpi di quella spazzola, da cui Elia non aveva mai saputo separarsi.
La vide aspettare un’acqua che non la bagnò mai, la vide accasciata sul pavimento e più tardi ammassata al freddo su altri corpi nudi a comporre un quadro irreale e futurista.
Senza scegliere di farlo si ritrovò ad inseguire quella donna, sentiva dolore, fastidio ed il bisogno di parlarle, di raccontare, di spiegare e di chiedere spiegazioni.
La raggiunse e le chiese educatamente perché, perché indossava quei simboli, perché li profanava, perché si paragonava agli ebrei, camminando senza costrizione tra molti che ostentavano saluti fascisti.
La donna lo guardò con odio e gli cominciò a gridare in faccia schiavo, schiavo, schiavo, mentre la folla si accalcava intorno a lui e gli intimava di togliersi la mascherina.
Cercava di argomentare, di parlare, ma più lo faceva e più veniva investito da urla di scherno.
Una ragazza lo spinse e gli disse se non capisci è perché sei schiavo del regime, vattene vecchio!
Scosse la testa con un senso di fastidio ed una lacrima solcò il suo viso.
Qualcosa nella sua missione di testimonianza e memoria era andato storto.
E per la prima volta in vita sua, mentre rientrava nel taxi, sentì di dover chiedere scusa a suo nonno.
Questo pensava Elia, mentre freddo e buio lo avvolgevano e lo facevano tremare, ma molto meno di quanto vi riuscisse il martellio innaturale di quei passi e di quelle grida rauche e stizzite.
Li aveva sentiti arrivare da lontano, quella ritmica, fatta di stivali che battevano all'unisono, fino a qualche anno fa lo avrebbe esaltato, magari avrebbe cercato di riprodurla con i suoi amati soldatini.
Ora no, ora era un segnale.
Lo era da quando era rimasto solo in quella casa, la sua casa, la loro casa.
Era il segnale che segnava il tempo di quell'intercapedine, di quel buio, di quel freddo.
Il tempo di quello sforzo innaturale di trattenere il respiro, di reprimere il suo rumore vitale, perché nessuno lo spezzasse per sempre.
Quanto era diverso questo nascondino, qui nessuno contava a ritroso, nessuno avrebbe gridato il suo nome unito ad un tana per, chi lo cercava non si sarebbe seduto accanto a lui a mangiare una fetta di pane, burro e marmellata ed a progettare il prossimo gioco, quello che li avrebbe condotti fino a cena.
Sentiva le voci sempre più vicine ed alterate, sentiva gli oggetti cadere e le sedie spostarsi e si sforzava di respirare più piano, ma più a lungo tratteneva il respiro e più rumore faceva il prossimo.
Sperava che suo nonno avesse ragione, non lo aveva mai sperato così tanto: diceva sempre che solo una bieca ignoranza poteva condurre a tanta insensata violenza, solo la mancanza di educazione per il bello poteva consentire l'insorgere di un odio così cieco ed innaturale.
Siccome per natura ogni uomo è attratto da ciò che meglio lo rappresenta, allora il nonno sosteneva che per costruire un nascondiglio, che proteggesse e difendesse da quegli uomini, non si poteva che scegliere una libreria e dietro la più ricca libreria di casa aveva deciso di costruire quell'intercapedine.
"Solo la cultura, solo il bello può sconfiggerli, vedrai che funzionerà".
Ed in effetti finora aveva funzionato, ma solo per lui.
Il nonno aveva scelto di non sperimentarlo quel nascondiglio o forse aveva deciso che quel che rimaneva della sua vita non valesse nemmeno lo sforzo di trattenere un respiro.
Appena il rettore lo aveva mandato a chiamare aveva capito che quei folli avevano tutta l'intenzione di applicarle quelle leggi razziali, che per il diritto - per noi che eravamo la culla del diritto - rappresentavano un ossimoro.
Aveva passato la sua vita ad insegnare, aveva iniziato ogni corso ricordando agli studenti, che lo fissavano in ammirato silenzio, che il diritto, quello che gli antichi romani chiamavano ius, era il complesso di regole che consentiva una civile convivenza tra i membri di una qualsiasi comunità e che non vi poteva essere civile convivenza, se quelle regole non fossero ispirate ai principi di eguaglianza e non discriminazione.
Per questo quelle leggi - a cui per colmo molti suoi colleghi si erano dedicati - rappresentavano un ossimoro, perché erano la negazione stessa di quei principi e non meritavano nemmeno l'appellativo di leggi e men che meno di ius.
Il rettore non aveva avuto nemmeno il coraggio di guardarlo negli occhi mentre gli comunicava che la sua carriera accademica sarebbe finita il giorno stesso, che la sua razza era di ostacolo all'esercizio della professione, che qualcuno aveva deciso che per il sano sviluppo di studenti ariani la contaminazione con idee giudaiche rappresentava un pericolo.
Era il 1939 e, se avesse potuto scegliere, quella data avrebbe voluta incisa sulla sua lapide.
Aveva provato a continuare a vivere, si era dedicato alla famiglia ed a quel nipote che aveva il potere di farlo sentire vivo.
Ma qualsiasi essere vivente strappato al proprio elemento naturale non sopravvive che pochi attimi: quegli anni erano stati per lui la contrazione di un pesce posato sulla barca o sulla riva, le sue branchie si andavano progressivamente seccando, i suoi movimenti rallentando.
Ed alla fine decise di risolvere il problema del fiato - lo stesso che ora Elia sperimentava - una volta per tutte, in un uggioso pomeriggio autunnale: un colpo alla sedia e quella corda ad apparecchiare un addio, a togliere un disturbo, a pareggiare un'offesa.
Lo trovò suo figlio - il padre di Elia - immobile ed austero.
Aveva indossato la toga per la sua ultima lezione, ma non il bavaglino, perché il cappio l'avrebbe gualcito: aveva scelto il silenzio per la sua lectio magistralis, sarebbe bastata la scena a ricordare a tutti che il primo dei diritti, il più inalienabile è quello al decoro, alla dignità e quel diritto nessuno poteva pensare di toglierglielo.
Elia quella sera aveva trovato il bavaglino piegato sul cuscino del suo letto e dentro un biglietto con una sola frase: "Ricorda Elia nessuna notte è eterna. Tornerai alla tua scuola, riderai ancora seduto al banco con Mattia e, anche se non mi vedrai, non sarai mai solo. Una risata li seppellirà ed il mondo riprenderà il suo corso, dedicando appena un momento per scrollarsi di dosso il loro fango. Ma tu non dimenticare mai, perché ciò che è stato può tornare e non dovrai permetterlo. Io non ho saputo impedirlo, ma tu sarai più forte perché hai imparato a conoscere il pericolo ed il nemico".
Dopo qualche anno si era ritrovato ad essere l'uomo di casa: il padre aveva deciso che non si poteva aspettare il prossimo nemico, ma che andasse combattuto questo nemico, quello che aveva tolto al padre la gioia di vivere, quello che aveva tolto al figlio il diritto di studiare, quello che aveva tolto a tutti la dignità e la gioia di vivere.
Non avrebbe aspettato quella risata, si sarebbe incaricato lui di dargli sepoltura e così aveva salutato la famiglia e si era fatto partigiano.
Fu fucilato con quattordici compagni all'alba del 10 agosto del 1944 a Piazzale Loreto ed il suo corpo fu lasciato lì sul selciato per quattordici ore.
Mentre usciva dal carcere di San Vittore ed ancora mentre il plotone caricava i suoi fucili pensava alla moglie ed al figlio e li immaginava nella loro casa.
Voleva crederli al sicuro e ancora insieme, non poteva sapere che la moglie lo aspettava lì, dove quei colpi lo avrebbero condotto.
Era stata catturata durante una retata e condotta a morte in una camera a gas in una fredda località polacca.
Stava tornando dalla spesa quando fu catturata e aveva in una mano il pane per Elia e nell'altra la tessera per il suo acquisto.
Quel pomeriggio Elia non avrebbe avuto il suo pane, burro e marmellata e nemmeno l'amorevole sguardo della mamma, che sapeva farlo sentire comunque al sicuro, ma avrebbe avuto il suo nascondino.
Mancava un nome alla loro lista e lo cercarono dappertutto, meno che dietro alla libreria dove tremava e si sforzava di trattenere il respiro.
Il nonno conosceva bene anche l'indole degli uomini evidentemente.
Tornarono quasi ogni giorno in quella casa: mettere l'ultima croce su quella lista era diventata oramai una questione di principio.
Quando si allontanavano Elia aspettava qualche ora, poi lentamente apriva la porta segreta e sbucava tra i libri.
Anche quel giorno la scena si svolse nello stesso identico modo: ad Elia sembrava quasi di ballare con loro, ripetendo con attenzione gli identici passi, attento al tempo ed ai suoni.
Era quasi mezzogiorno ed Elia si diresse verso la scuola o, per meglio dire, quella che era stata la sua scuola.
Camminava rasente i muri, con un cappello un pò fuori stagione calzato sulla testa ed il bavero della giacca alzato.
Ad ogni angolo si fermava, sporgeva la testa e si guardava intorno.
Se tutto era tranquillo, attraversava correndo e di nuovo riprendeva la sua andatura, sfiorando le pareti.
Giunto sotto la finestra della sua classe, si nascose dietro il solito albero ed emise due fischi secchi e ravvicinati.
Era il segnale.
Mattia, come ogni giorno, prese un sacchetto da sotto il banco, lo nascose sotto la maglietta, chiese alla maestra di avere il permesso per andare in bagno.
Giunto nel bagno, avendo cura di non essere visto da nessuno, aprì la finestra, emise un fischio e dopo qualche secondo lanciò il sacchetto.
Si affacciò per controllare il buon esito della consegna, guardò il compagno di banco con il sacchetto in mano e sorrise, facendo un saluto con la mano, accompagnato dal solito occhiolino.
Elia ripercorse la stessa strada a ritroso, entrò in casa, aprì il sacchetto e prima di dare inizio al pasto con il pensiero ringraziò la mamma di Mattia, che anche oggi aveva pensato a lui.
Questa scena si ripeteva ogni giorno ed Elia aveva cominciato a trovarla quasi normale.
Potenza dell'abitudine e dello spirito di adattamento.
Per qualche giorno quel suono ritmico di stivali sbattuti sul selciato non si sentì ed un giorno Elia fu colpito da un grande frastuono che proveniva dalla strada.
Non sembravano urla di paura - quelle aveva imparato a riconoscerle - ma grida di gioia, accompagnate ad un certo punto da un suono di banda.
Trovò il coraggio di affacciarsi ed una voce dalla strada gli gridò: scendi Elia, la guerra è finita!
Era Mattia, mano nella mano di sua madre.
Non rivide nessuno della sua famiglia e non gli esplose mai sul viso nemmeno quella risata inumante, che il nonno aveva preannunciato nel suo ultimo messaggio.
Ma non dimenticò mai, per impegno e non solo.
Fu bambino e poi uomo dagli incubi ricorrenti e dalle poche parole.
Tornò in quella scuola e si fece onore.
Andò anche all'Università ed in quell'aula, sulla cui porta faceva bella mostra di sé il nome del nonno in ottone.
Indossò quella toga, che fu l'alta uniforme scelta dal nonno per il suo addio e quel bavaglino e ne fece lo strumento del suo lavoro.
Insegnò ed iniziò ogni corso ricordando cosa fosse il diritto ed a cosa servisse.
Scrisse.
Scrisse dei suoi fantasmi.
Scrisse dei suoi incubi, fatti di freddo, buio e dei loro passi ritmati e delle loro voci rauche e adirate.
Scrisse di quel sacchetto quotidiano, che fu il suo personale Padre Nostro, dell’amorevole altruismo di quella madre, che inventò forse la prima adozione a distanza e dell’occhiolino di Mattia, che lo nutriva nell’anima prima ancora che quel sacchetto lanciato con un fischio si dedicasse al suo corpo.
Scrisse di sua madre e le dedicò una fondazione, che chiamò pane, burro e marmellata.
Scrisse di suo padre, ma sarebbe più esatto dire che lesse di suo padre e della sua storia, che si consumava troppo presto lontano da quel bambino che tremava di freddo e di paura dentro ad una intercapedine.
In fondo scrivere significava restituire qualcosa di quel grande favore che i libri gli avevano riservato.
Soprattutto non smise mai di scrivere e di parlare di suo nonno, del suo atto estremo di ribellione, orribile eppure dignitoso.
Conservò sempre quel biglietto e lo rilesse migliaia di volte nel privato delle sue case prima di coricarsi ed in ogni occasione pubblica: non dimenticare significa anche spiegare quanto successe a chi non lo visse.
Un giorno, già anziano ed in pensione, una folla vociante lo avvolse mentre era in taxi, fermo nel traffico.
Non gli portarono alla memoria le grida di quel giorno che gli restituì la luce, non avevano il suono argentino della festa, molto di più la rabbia ceca di quelle voci rauche e straniere.
Gli slogan erano ossessivi e ritmati come quei passi.
Scese dal taxi e lo investì l’urlo libertà, libertà che la gente passandogli davanti gli urlava sulla faccia, proprio a lui.
Lesse i cartelli che i manifestanti ostentavano con fierezza: parlavano di dittatura e di Norimberga.
Su alcuni di essi campeggiava l’immagine di un uomo in divisa e la scritta NO alla dittatura.
Nessuno li stava deportando, nessuno li stava minacciando con un fucile, non dovevano stare nascosti durante un rastrellamento, nessuno voleva ucciderli - semmai convincerli a salvarsi - ma ugualmente gridavano libertà libertà e si ribellavano alla dittatura.
Gli venne normale chiedersi se qualcuno di loro sapesse davvero di cosa stesse parlando, ma mentre inseguiva questo pensiero il suo sguardo si posò su una donna e sul suo abito: aveva una stella di Davide al centro del petto ed un numero scritto sul braccio.
Non poté non pensare a sua madre, al suo viaggio, al suono delle rotaie percorso da quel vagone merci carico di umanità a perdere, di quel fischio che risvegliava la madre dai suoi pensieri spaventati e smarriti.
La vide tremare al freddo, in una baracca di legno nel mezzo del nulla di un paese straniero e sconosciuto, con quel numero tatuato sul braccio.
La vide in fila mentre si recava a fare la doccia con i capelli rasati, lei, proprio lei che non si addormentava e non si risvegliava nemmeno una volta senza lusingare i suoi lunghi capelli castani con decine di colpi di quella spazzola, da cui Elia non aveva mai saputo separarsi.
La vide aspettare un’acqua che non la bagnò mai, la vide accasciata sul pavimento e più tardi ammassata al freddo su altri corpi nudi a comporre un quadro irreale e futurista.
Senza scegliere di farlo si ritrovò ad inseguire quella donna, sentiva dolore, fastidio ed il bisogno di parlarle, di raccontare, di spiegare e di chiedere spiegazioni.
La raggiunse e le chiese educatamente perché, perché indossava quei simboli, perché li profanava, perché si paragonava agli ebrei, camminando senza costrizione tra molti che ostentavano saluti fascisti.
La donna lo guardò con odio e gli cominciò a gridare in faccia schiavo, schiavo, schiavo, mentre la folla si accalcava intorno a lui e gli intimava di togliersi la mascherina.
Cercava di argomentare, di parlare, ma più lo faceva e più veniva investito da urla di scherno.
Una ragazza lo spinse e gli disse se non capisci è perché sei schiavo del regime, vattene vecchio!
Scosse la testa con un senso di fastidio ed una lacrima solcò il suo viso.
Qualcosa nella sua missione di testimonianza e memoria era andato storto.
E per la prima volta in vita sua, mentre rientrava nel taxi, sentì di dover chiedere scusa a suo nonno.
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Ma respirare fa sempre così rumore?
Questo pensava Elia, mentre freddo e buio lo avvolgevano e lo facevano tremare, ma molto meno di quanto vi riuscisse il martellio innaturale di quei passi e di quelle grida rauche e stizzite.
Li aveva sentiti arrivare da lontano, quella ritmica, fatta di stivali...
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03/12/2021 10:35:44
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I cannoni di Navarone
18 luglio 2020 ore 16:11 segnala
Ogni volta che la distonia col mondo diventava più evidente, ogni volta che quel freddo interiore reclamava il calore benevolo di uno sguardo - di quello sguardo - senza nemmeno che se ne rendesse conto prendeva quella direzione e cominciava a camminare, come fa un ferro entrato nella sfera di attrazione di un magnete.
Era sempre stato così, sin da quando aveva lasciato la pace ovattata della sua casa per mischiarsi con il mondo in prima elementare, come un piccolo affluente, che, camminando sotto traccia, alla fine debba affrontare l'idea di entrare in quel fiume, di doversi fare fiume.
Si dice che avere una famiglia affettuosa e protettiva sia una fortuna - e di fatto lo è o almeno lui lo continuava a pensare - ma tutte le cose hanno un rovescio della medaglia.
Lui lo aveva scoperto in prima elementare, quando si era reso conto per la prima volta del fatto di non avere un corredo anticorpale simile a quello degli altri, di non essersi allenato per stare con gli altri, ma meglio sarebbe stato dire per resistere agli altri o almeno sarebbe meglio se volessimo descrivere come lui pensava la cosa.
Così, ogni volta che i compagni lo facevano sentire diverso, ogni volta che si creava un'occasione che ingigantiva il solco che segnava la distinzione, ogni volta che il noi e lui o l'io e gli altri - a seconda dell'angolo prospettico dal quale ci si dispone all'osservazione - emergeva con più chiarezza, ogni volta insomma che quella differenza diventava motivo di isolamento, lui usciva di scuola e, cuffie nell'orecchio e cappuccio in testa, si lasciava alle spalle quelle voci ostili e si incamminava verso la direzione di quel magnete.
Arrivava a casa del nonno e lì trovava ad attenderlo quello sguardo, che sapeva renderlo sereno senza soffocarlo d'affetto.
Era il senso critico benevole di quello sguardo, il perenne interrogativo che esprimeva a renderlo diverso dal resto degli sguardi famigliari.
Nei suoi genitori trovava amore, ma era incondizionato, senza l'ombra di un dubbio, senza il bisogno di capire.
Era amore a prescindere il loro, che lo proteggeva, ma non lo aiutava.
Era amore che cercava un motivo quello del nonno e dargli quel motivo lo faceva stare bene, lo costringeva a mettere le cose in discussione, a mettersi in discussione.
Era un amore palestra e sapeva di averne bisogno, là fuori ogni cosa esigeva un perché.
Ora era cresciuto e quegli occhi invecchiati, ma quel bisogno così come quello sguardo sapevano ancora attrarsi, come una volta.
Suonò alla porta ed attese.
Quel tempo si era progressivamente dilatato, quell'attesa era cresciuta con il passare degli anni.
Da dietro quella porta immaginava la scena, la fatica dei suoi passi.
Suonare quel campanello era come accendere un motore: col tempo l'accensione diventa più lenta, la senti la fatica, lo sforzo di quel motore, ma quando finalmente aria, benzina e scintilla trovano il punto giusto per festeggiare un incontro, beh lo riconosci che è lui, il suo suono non cambia.
Quando, infatti, finalmente quella porta si aprì e comparve la faccia canuta del nonno, beh lo riconobbe subito quello sguardo, quell'interrogativo amorevole e critico che il tempo non poteva cambiare.
Ah, tu sei?
Si, ciao nonno, come stai?
Come un ferro ad arrugginire fu la risposta, accompagnata da un sospiro, che seppe esprimere un misto perfetto di ironia ed amara accettazione dell'ineluttabile.
Ma entra e togliti quel cappuccio, qua dentro non ti serve.
Ah si scusa nonno.
Tolse il cappuccio e sfilò le cuffie con la stessa lentezza e solennità con la quale un guerriero medioevale sfila l'armatura alla fine di una battaglia.
Se hai fame o sete sai dove sta la roba, se aspetti che lo faccia io diventi vecchio pure tu..
Tranquillo ci penso io nonno, tu cosa vuoi?
Un paio di gambe nuove, ma quelle non le trovi in frigorifero...
Spero di no..
No tranquillo, la badante è talmente crudele che se pure uccidesse qualcuno lo mangerebbe subito..
Risero pensando a quel donnone dell'est, che, in effetti, era tanto efficiente quanto brusca.
Allora dimmi, che ti è successo stavolta figliolo?
Niente nonno.
Ma perchè non ti togli questo vizio di rispondere sempre così? Io sto invecchiando ed i tempi a questa età è meglio accorciarli...
No, intendevo dire niente di importante..
Già va meglio, ma tutti e due sappiamo che quando si parla di te non esiste nulla di non importante...
Do troppa importanza alle cose, vero nonno?
No, è più giusto dire che la cogli l'importanza delle cose. Ogni cosa ne ha, ma alle volte non la vediamo. L'importanza non è un qualcosa che diamo, è un qualcosa che è. Tu hai solo una capacità innata nel coglierla.
O nel subirla...
Questo dipende da te, non dalle cose.
Ho discusso con Francesca, ma sono più deluso da Mario.
Hai scoperto che hanno una storia?
No, quello no. Mi fido di Francesca.
Ed allora perchè sei deluso da Mario? che c'entra con la discussione con la tua fidanzata?
Le parla male di me, non perde occasione per enfatizzare qualche mio difetto o per attribuirmene qualcuno e lei si fa influenzare.
Forse gli piace.
Non lo so, ma non capisco perché una persona debba spendere tutto quel tempo per distruggerne un'altra.
Eh..
Voglio dire, se ti piace una donna non sarebbe meglio se mostrassi la tua parte migliore, se le facessi capire quanto vali tu piuttosto che denigrare gli altri?
Si, in teoria hai ragione. Ma parti dal presupposto che ci sia qualcosa da mostrare...
Beh non è che se distruggi me resti solo tu... Francesca lascerebbe me, ma ci sarebbe il resto del mondo a quel punto da distruggere.
E' un pareggio figliolo.
In che senso?
Vedi, è come quando devi fare le gambe di un tavolo o di una sedia.
Non capisco.
Se devi costruire un tavolo e devi fare in modo che non zoppichi devi fare le gambe tutte uguali, no?
Si, penso di si
Ecco, metti che tu hai quattro pezzi di legno e che l'altezza giusta sia quello del più lungo tu che fai?
Vai avanti nonno.
In teoria dovresti portare la lunghezza degli altri pezzi a pareggiare quella del pezzo che ha la lunghezza adatta. Ma non puoi. In natura non si può aggiungere una qualità che le cose non hanno, ma si può levare. Sarai costretto a portare tutti i pezzi di legno all'altezza di quello più piccolo. Il tavolo non sarà dell'altezza che avevi in mente, ma non dondolerà...E'un pareggio..
A togliere qualità..rispose con lo sguardo pensieroso di chi insegue un ragionamento.
A metterla è impossibile, la qualità di una cosa o di una persona non è qualcosa che puoi aggiungere, è come il coraggio di Don Abbondio..
Ma è una cosa stupidamente cattiva
No, è sopravvivenza. E' nobile l'atto di una iena che mangia una carcassa che non ha conquistato, di un animale che non ha cacciato?
Direi di no.
Non lo è, ma è sopravvivenza. La iena non è stata dotata di nessuna qualità per cacciare, ragione per la quale o dignitosamente si pone all'attesa dell'estinzione o fa quello che può. Non sarà nobile, ma è utile, necessario.
Si ma è una cosa ignobile parlare male delle persone che nemmeno conosci.
Sono d'accordo, ma ognuno è costretto ad usare le armi che ha o a desistere e la dignità della desistenza è un'altra cosa che somiglia tanto al coraggio di manzoniana memoria.
Quindi fa bene?
No, fa una cosa ignobile, ma è l'unica che la sua natura gli consente di fare. Cosa le ha detto di te?
Che sono un pallone gonfiato, che nemmeno la vedo, che non so apprezzare le sue qualità, perchè sono troppo impegnato a mostrare le mie.
Ed è vero?
No che non è vero, lo sai meglio di chiunque altro che non è vero.
Io si, ma tu lo sai? lei lo sa?
Io si, lei lo spero.
Se lei crede al fido Jago è lei il problema, non la iena...
Ma è un atteggiamento odioso, vergognoso!
Vedi figliolo, quando ero piccolo noi si giocava a fare castelli con le carte. Hai mai fatto castelli con le carte?
No, veramente no.
Peccato, la tua generazione ha avuto senza dubbio giochi più belli, ma ha perso il senso dello sforzo e la vertigine dell'instabilità.
Spiegati meglio.
Quando giochi a fare castelli con le carte devi misurare ogni tuo movimento. Ogni volta che il castello cresce di un piano deve crescere anche lo sforzo della tua attenzione. Basta un minimo movimento sbagliato e tutto il castello crolla in un attimo.
Immagino di si.
Vedi la vita è così. Per costruire una cosa bella - e le cose belle sono ontologicamente delicate come una rosa - devi compiere uno sforzo di attenzione enorme, di dedizione, di cura del particolare. E più diventa grande e più devi metterci attenzione, più tempo avrai dedicato a quella costruzione e meno sarà il tempo che impiegherà a crollare. E maggiore ovviamente sarà la delusione. E poi ci sono loro..
Loro chi?
E' questa la lezione che ho imparato da piccolo giocando con i castelli di carta. Ho imparato che poi ci sono loro. Ci sono quelli che arrivano e senza motivo danno un colpo al tavolino e fanno crollare il castello. E poi ridono. E tu ti fai mille domande, ti chiedi perchè, che gusto ci si prova, a che serve fare una cosa così stupida. Ma sono le domande sbagliate e crescere significa soprattutto capire quale sia la domanda giusta.
Cioè?
Vedi la domanda giusta è: di cosa sta ridendo?
Della bravata immagino nonno.
No, ti sbagli. Sta ridendo della tua delusione, sta ridendo del tuo dispiacere, sta ridendo del senso di inanità di uno sforzo. Crescere significa accettare che nella vita ci sono anche loro.
Loro, quelli che fanno crollare il castello di carta?
No figliolo, peggio. Quelli che ridono per questo, quelli che godono di questo. Quelli che per pareggio non si mettono accanto a te e provano a farne uno più bello o più alto, ma preferiscono distruggere il tuo e si sentono appagati.
Ma qualcuno dovrebbe darsi cura di spiegarglielo non credi?
Si e questo è l'aspetto più bello di essere giovani: l'idealismo, la ferrea convinzione che tutto sia possibile, che il mondo volga istintivamente al bello, al buono.
E non è così?
E' giusto che alla tua età tu lo pensi ancora, ma poi la vita si incarica di spiegarti che non è così. Che quel bambino cresce e si fa uomo, ma riderà sempre della tua delusione. Tu potrai spiegargli mille volte che fare un castello più bello è la risposta giusta alla sua invidia, ma lui non cambierà mai. Vedi è come se tu cercassi di spiegare la critica della ragion pura al Charlie.
Al mio cane?
Esatto, alla fine lui non capirà, ma non sarà lui nell'errore, sarai tu il matto. E' nella sua natura non capire Kant e tu non potrai farci niente.
Ma è triste.
No, vanno semplicemente accettati. Sono come i cannoni di Navarone, messi lì, invisibili e comunque capaci di vanificare ogni tuo sforzo. Tu puoi desistere dalla missione che ti sei prefissata o continuare perchè la consideri importante, meritevole di ogni sacrificio. L'unica cosa che non potrai fare è fare finta che non ci siano i cannoni di Navarone, perchè loro continueranno a sparare, vanificando tutti i tuoi sforzi, se non troverai il modo di neutralizzarli....
Era sempre stato così, sin da quando aveva lasciato la pace ovattata della sua casa per mischiarsi con il mondo in prima elementare, come un piccolo affluente, che, camminando sotto traccia, alla fine debba affrontare l'idea di entrare in quel fiume, di doversi fare fiume.
Si dice che avere una famiglia affettuosa e protettiva sia una fortuna - e di fatto lo è o almeno lui lo continuava a pensare - ma tutte le cose hanno un rovescio della medaglia.
Lui lo aveva scoperto in prima elementare, quando si era reso conto per la prima volta del fatto di non avere un corredo anticorpale simile a quello degli altri, di non essersi allenato per stare con gli altri, ma meglio sarebbe stato dire per resistere agli altri o almeno sarebbe meglio se volessimo descrivere come lui pensava la cosa.
Così, ogni volta che i compagni lo facevano sentire diverso, ogni volta che si creava un'occasione che ingigantiva il solco che segnava la distinzione, ogni volta che il noi e lui o l'io e gli altri - a seconda dell'angolo prospettico dal quale ci si dispone all'osservazione - emergeva con più chiarezza, ogni volta insomma che quella differenza diventava motivo di isolamento, lui usciva di scuola e, cuffie nell'orecchio e cappuccio in testa, si lasciava alle spalle quelle voci ostili e si incamminava verso la direzione di quel magnete.
Arrivava a casa del nonno e lì trovava ad attenderlo quello sguardo, che sapeva renderlo sereno senza soffocarlo d'affetto.
Era il senso critico benevole di quello sguardo, il perenne interrogativo che esprimeva a renderlo diverso dal resto degli sguardi famigliari.
Nei suoi genitori trovava amore, ma era incondizionato, senza l'ombra di un dubbio, senza il bisogno di capire.
Era amore a prescindere il loro, che lo proteggeva, ma non lo aiutava.
Era amore che cercava un motivo quello del nonno e dargli quel motivo lo faceva stare bene, lo costringeva a mettere le cose in discussione, a mettersi in discussione.
Era un amore palestra e sapeva di averne bisogno, là fuori ogni cosa esigeva un perché.
Ora era cresciuto e quegli occhi invecchiati, ma quel bisogno così come quello sguardo sapevano ancora attrarsi, come una volta.
Suonò alla porta ed attese.
Quel tempo si era progressivamente dilatato, quell'attesa era cresciuta con il passare degli anni.
Da dietro quella porta immaginava la scena, la fatica dei suoi passi.
Suonare quel campanello era come accendere un motore: col tempo l'accensione diventa più lenta, la senti la fatica, lo sforzo di quel motore, ma quando finalmente aria, benzina e scintilla trovano il punto giusto per festeggiare un incontro, beh lo riconosci che è lui, il suo suono non cambia.
Quando, infatti, finalmente quella porta si aprì e comparve la faccia canuta del nonno, beh lo riconobbe subito quello sguardo, quell'interrogativo amorevole e critico che il tempo non poteva cambiare.
Ah, tu sei?
Si, ciao nonno, come stai?
Come un ferro ad arrugginire fu la risposta, accompagnata da un sospiro, che seppe esprimere un misto perfetto di ironia ed amara accettazione dell'ineluttabile.
Ma entra e togliti quel cappuccio, qua dentro non ti serve.
Ah si scusa nonno.
Tolse il cappuccio e sfilò le cuffie con la stessa lentezza e solennità con la quale un guerriero medioevale sfila l'armatura alla fine di una battaglia.
Se hai fame o sete sai dove sta la roba, se aspetti che lo faccia io diventi vecchio pure tu..
Tranquillo ci penso io nonno, tu cosa vuoi?
Un paio di gambe nuove, ma quelle non le trovi in frigorifero...
Spero di no..
No tranquillo, la badante è talmente crudele che se pure uccidesse qualcuno lo mangerebbe subito..
Risero pensando a quel donnone dell'est, che, in effetti, era tanto efficiente quanto brusca.
Allora dimmi, che ti è successo stavolta figliolo?
Niente nonno.
Ma perchè non ti togli questo vizio di rispondere sempre così? Io sto invecchiando ed i tempi a questa età è meglio accorciarli...
No, intendevo dire niente di importante..
Già va meglio, ma tutti e due sappiamo che quando si parla di te non esiste nulla di non importante...
Do troppa importanza alle cose, vero nonno?
No, è più giusto dire che la cogli l'importanza delle cose. Ogni cosa ne ha, ma alle volte non la vediamo. L'importanza non è un qualcosa che diamo, è un qualcosa che è. Tu hai solo una capacità innata nel coglierla.
O nel subirla...
Questo dipende da te, non dalle cose.
Ho discusso con Francesca, ma sono più deluso da Mario.
Hai scoperto che hanno una storia?
No, quello no. Mi fido di Francesca.
Ed allora perchè sei deluso da Mario? che c'entra con la discussione con la tua fidanzata?
Le parla male di me, non perde occasione per enfatizzare qualche mio difetto o per attribuirmene qualcuno e lei si fa influenzare.
Forse gli piace.
Non lo so, ma non capisco perché una persona debba spendere tutto quel tempo per distruggerne un'altra.
Eh..
Voglio dire, se ti piace una donna non sarebbe meglio se mostrassi la tua parte migliore, se le facessi capire quanto vali tu piuttosto che denigrare gli altri?
Si, in teoria hai ragione. Ma parti dal presupposto che ci sia qualcosa da mostrare...
Beh non è che se distruggi me resti solo tu... Francesca lascerebbe me, ma ci sarebbe il resto del mondo a quel punto da distruggere.
E' un pareggio figliolo.
In che senso?
Vedi, è come quando devi fare le gambe di un tavolo o di una sedia.
Non capisco.
Se devi costruire un tavolo e devi fare in modo che non zoppichi devi fare le gambe tutte uguali, no?
Si, penso di si
Ecco, metti che tu hai quattro pezzi di legno e che l'altezza giusta sia quello del più lungo tu che fai?
Vai avanti nonno.
In teoria dovresti portare la lunghezza degli altri pezzi a pareggiare quella del pezzo che ha la lunghezza adatta. Ma non puoi. In natura non si può aggiungere una qualità che le cose non hanno, ma si può levare. Sarai costretto a portare tutti i pezzi di legno all'altezza di quello più piccolo. Il tavolo non sarà dell'altezza che avevi in mente, ma non dondolerà...E'un pareggio..
A togliere qualità..rispose con lo sguardo pensieroso di chi insegue un ragionamento.
A metterla è impossibile, la qualità di una cosa o di una persona non è qualcosa che puoi aggiungere, è come il coraggio di Don Abbondio..
Ma è una cosa stupidamente cattiva
No, è sopravvivenza. E' nobile l'atto di una iena che mangia una carcassa che non ha conquistato, di un animale che non ha cacciato?
Direi di no.
Non lo è, ma è sopravvivenza. La iena non è stata dotata di nessuna qualità per cacciare, ragione per la quale o dignitosamente si pone all'attesa dell'estinzione o fa quello che può. Non sarà nobile, ma è utile, necessario.
Si ma è una cosa ignobile parlare male delle persone che nemmeno conosci.
Sono d'accordo, ma ognuno è costretto ad usare le armi che ha o a desistere e la dignità della desistenza è un'altra cosa che somiglia tanto al coraggio di manzoniana memoria.
Quindi fa bene?
No, fa una cosa ignobile, ma è l'unica che la sua natura gli consente di fare. Cosa le ha detto di te?
Che sono un pallone gonfiato, che nemmeno la vedo, che non so apprezzare le sue qualità, perchè sono troppo impegnato a mostrare le mie.
Ed è vero?
No che non è vero, lo sai meglio di chiunque altro che non è vero.
Io si, ma tu lo sai? lei lo sa?
Io si, lei lo spero.
Se lei crede al fido Jago è lei il problema, non la iena...
Ma è un atteggiamento odioso, vergognoso!
Vedi figliolo, quando ero piccolo noi si giocava a fare castelli con le carte. Hai mai fatto castelli con le carte?
No, veramente no.
Peccato, la tua generazione ha avuto senza dubbio giochi più belli, ma ha perso il senso dello sforzo e la vertigine dell'instabilità.
Spiegati meglio.
Quando giochi a fare castelli con le carte devi misurare ogni tuo movimento. Ogni volta che il castello cresce di un piano deve crescere anche lo sforzo della tua attenzione. Basta un minimo movimento sbagliato e tutto il castello crolla in un attimo.
Immagino di si.
Vedi la vita è così. Per costruire una cosa bella - e le cose belle sono ontologicamente delicate come una rosa - devi compiere uno sforzo di attenzione enorme, di dedizione, di cura del particolare. E più diventa grande e più devi metterci attenzione, più tempo avrai dedicato a quella costruzione e meno sarà il tempo che impiegherà a crollare. E maggiore ovviamente sarà la delusione. E poi ci sono loro..
Loro chi?
E' questa la lezione che ho imparato da piccolo giocando con i castelli di carta. Ho imparato che poi ci sono loro. Ci sono quelli che arrivano e senza motivo danno un colpo al tavolino e fanno crollare il castello. E poi ridono. E tu ti fai mille domande, ti chiedi perchè, che gusto ci si prova, a che serve fare una cosa così stupida. Ma sono le domande sbagliate e crescere significa soprattutto capire quale sia la domanda giusta.
Cioè?
Vedi la domanda giusta è: di cosa sta ridendo?
Della bravata immagino nonno.
No, ti sbagli. Sta ridendo della tua delusione, sta ridendo del tuo dispiacere, sta ridendo del senso di inanità di uno sforzo. Crescere significa accettare che nella vita ci sono anche loro.
Loro, quelli che fanno crollare il castello di carta?
No figliolo, peggio. Quelli che ridono per questo, quelli che godono di questo. Quelli che per pareggio non si mettono accanto a te e provano a farne uno più bello o più alto, ma preferiscono distruggere il tuo e si sentono appagati.
Ma qualcuno dovrebbe darsi cura di spiegarglielo non credi?
Si e questo è l'aspetto più bello di essere giovani: l'idealismo, la ferrea convinzione che tutto sia possibile, che il mondo volga istintivamente al bello, al buono.
E non è così?
E' giusto che alla tua età tu lo pensi ancora, ma poi la vita si incarica di spiegarti che non è così. Che quel bambino cresce e si fa uomo, ma riderà sempre della tua delusione. Tu potrai spiegargli mille volte che fare un castello più bello è la risposta giusta alla sua invidia, ma lui non cambierà mai. Vedi è come se tu cercassi di spiegare la critica della ragion pura al Charlie.
Al mio cane?
Esatto, alla fine lui non capirà, ma non sarà lui nell'errore, sarai tu il matto. E' nella sua natura non capire Kant e tu non potrai farci niente.
Ma è triste.
No, vanno semplicemente accettati. Sono come i cannoni di Navarone, messi lì, invisibili e comunque capaci di vanificare ogni tuo sforzo. Tu puoi desistere dalla missione che ti sei prefissata o continuare perchè la consideri importante, meritevole di ogni sacrificio. L'unica cosa che non potrai fare è fare finta che non ci siano i cannoni di Navarone, perchè loro continueranno a sparare, vanificando tutti i tuoi sforzi, se non troverai il modo di neutralizzarli....
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Ogni volta che la distonia col mondo diventava più evidente, ogni volta che quel freddo interiore reclamava il calore benevolo di uno sguardo - di quello sguardo - senza nemmeno che se ne rendesse conto prendeva quella direzione e cominciava a camminare, come fa un ferro entrato nella sfera di...
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18/07/2020 16:11:58
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L'impossibile coincidentia oppositorum
20 giugno 2020 ore 13:35 segnala
Ho passato anche quest’anno la serata ad ascoltare accesi dibattiti sulla attitudine divisiva della festa del 25 aprile, sulla sua incapacità di essere la festa di tutti. Neanche la pandemia è riuscita a preservarci da questo stucchevole ed ozioso dibattito. Ho ascoltato giornalisti esibirsi in equilibrismi grotteschi, cercando di trovare il modo, secondo loro, di essere politically correct, lungo l'insidioso crinale del "si, ma anche...". Soprattutto ho passato la serata a chiedermi chi dividesse questa festa ed ho trovato un'unica risposta: divide coloro che festeggiano la Liberazione da quelli che vedono ancora oggi nel fascismo un valore. Ed allora mi domando: ma questi giornalisti sanno il significato di questa ricorrenza? il 25 aprile è ontologicamente la vittoria di un'idea su di un'altra. Pretendere che rappresenti un momento di unione tra chi insorse e chi fu sconfitto è ossimoro storico. Mi dispiace, ma questa tendenza a fare sempre di tutto pari e patta non è esercizio che mi appassioni e non è nemmeno sintomo di obiettività, è semmai il suo contrario. La storia non si legge come un romanzo, la storia si legge come vita vera, non si giudica seduti a tavolino, bisogna entrarci e viverla. La storia non è un quadro, è vita e sangue, è fatta di sentimenti, di pulsioni, in cui anche l'odio non ha un che di negativo a prescindere. Quando leggi la storia devi vederlo un banco vuoto, ma devi anche sentire lo stato d'animo del bambino che si gira e non vede più il suo compagno di banco e la paura e lo sconcerto che attanagliano colui che quel banco è stato costretto a lasciarlo vuoto senza capire il perché. Devi entrare nella rabbia di quella famiglia, che viene ghettizzata e guarda suo figlio e non sa dargli una risposta a quel perché. Devi sentire l'odore della paura di centinaia di migliaia di famiglie ebree costrette a nascondersi come topi. Devi sentire la rabbia di chi non può più insegnare o lavorare perché da un giorno all'altro ha perso il titolo di essere umano per degradare verso quello di razza inferiore. Devi immaginare la tracotanza ottusa delle purghe, devi sentire l'odore ed il sapore dell'olio di ricino ed il suono dei manganelli. Devi pensare cosa proveresti se di punto in bianco non potessi più esprimere una tua opinione, se non potessi più leggerla. Devi stare dentro la testa di chi parla in Parlamento e già sa che morirà perché ha scelto di dire no, di non piegare la testa. Devi aver perso la tua famiglia per una guerra al fianco dell'esercito di un pazzo criminale. Devi farlo con il cuore e non con la mente il viaggio in quel vagone dopo il rastrellamento, devi sentire lo strappo di tuo figlio preso da mani estranee o il tuo sguardo separarsi da quello di tuo marito o di tua moglie, che non vedrai mai più. Devi sentire il freddo della montagna innevata che ha sentito un partigiano e stare alle Fosse Ardeatine dopo via Rasella. Devi stare a Marzabotto - a Monte Sole - o a Sant'Anna di Stazzema insieme alla tua famiglia ad implorare di non morire senza un perché, a piangere ed a disperarti vedendo i tuoi figli crivellati di colpi, mentre gli altri ridono o urlano. Quando avrai fatto questo e lo avrai moltiplicato per venti lunghi anni, beh se ancora troverai strano l'odio che ti spinge a fare strame delle spoglie del tuo nemico, beh allora ricomincia a leggere, perché qualcosa ti deve essere sfuggito...
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Ho passato anche quest’anno la serata ad ascoltare accesi dibattiti sulla attitudine divisiva della festa del 25 aprile, sulla sua incapacità di essere la festa di tutti. Neanche la pandemia è riuscita a preservarci da questo stucchevole ed ozioso dibattito. Ho ascoltato giornalisti esibirsi in...
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20/06/2020 13:35:08
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E provavo dolore
16 giugno 2020 ore 02:44 segnala
E provavo dolore, un inspiegabile dolore.
Ogni volta che diceva sono stanca io vado, guardavo lentamente quella luce verde sparire e mi preparavo alla mancanza di lei, alla mancanza di me.
Gocce di assenza cominciavano lentamente a cadere nella mia anima e si predisponevano ad allagarla fino al prossimo ciao Nic o all'immancabile stai sempre a chatta...
Sapeva farmi sentire importante, riportandomi subito a terra ogni volta che il mio cuore tornava a battere e volare.
Anche oggi ti amo, ma quel dato temporale apparentemente insignificante si poneva come un argine alle mie speranze.
L'essere più presente della mia vita sembrava vivere nella consolante certezza di un amore a tempo determinato.
Un amore fatto di margini temporali, probabilmente incerti, ma comunque presenti.
Come se fosse disposta a lasciarsi andare, ma solo a patto di una fine.
Lasciarsi andare senza confini non era contemplato nel piano di volo dei suoi sentimenti.
Un perimetro anche temporale ad un amore, che, già di per sé, era nato con un guinzaglio ben tirato, limitato come l’accesso al salotto buono delle case di lusso degli anni 70, di quelli che magari eri riuscito di nascosto a vedere solo una volta di sfuggita e col tempo non capivi se vivesse nei tuoi ricordi o nel tuo immaginario.
Già questo amore.
Condannato a sostanziarsi solo di lettere e di foto, con coccole telematiche estemporanee.
Fantasie e voglie c’erano, ma tristemente relegate nell'ambito del vorrei, ma...
Ed allora, ora come allora, anche oggi che di anni ne sono passati aspetto come ogni giorno che si apra quel sipario per vivere insieme a lei quello spicchio di vita in comune, altro non ho ed a questo punto mai avrò.
Ma per poco che sia, ora lei e le sue letterine, che compongono frasi a volte affettuose, a volte ostili, ma che sanno dipingere, quando vuole, immagini che hanno del divino, sono il centro della mia vita.
La fantasia e la speranza colmano ogni giorno quel vuoto.
E poi si ricomincia...come un cerchio perfetto che si chiude e che riparte.
Io che ho sempre odiato l'apparire condannato a sperare che si apra quel sipario.
La vita a volte sa essere ironica.
Ma per quanto impossibile a credersi lei è, eccome se è...
Ed io la amo, come si ama una donna e non certo un nick.
E provavo dolore e provo dolore, un indescrivibile dolore…
Ogni volta che diceva sono stanca io vado, guardavo lentamente quella luce verde sparire e mi preparavo alla mancanza di lei, alla mancanza di me.
Gocce di assenza cominciavano lentamente a cadere nella mia anima e si predisponevano ad allagarla fino al prossimo ciao Nic o all'immancabile stai sempre a chatta...
Sapeva farmi sentire importante, riportandomi subito a terra ogni volta che il mio cuore tornava a battere e volare.
Anche oggi ti amo, ma quel dato temporale apparentemente insignificante si poneva come un argine alle mie speranze.
L'essere più presente della mia vita sembrava vivere nella consolante certezza di un amore a tempo determinato.
Un amore fatto di margini temporali, probabilmente incerti, ma comunque presenti.
Come se fosse disposta a lasciarsi andare, ma solo a patto di una fine.
Lasciarsi andare senza confini non era contemplato nel piano di volo dei suoi sentimenti.
Un perimetro anche temporale ad un amore, che, già di per sé, era nato con un guinzaglio ben tirato, limitato come l’accesso al salotto buono delle case di lusso degli anni 70, di quelli che magari eri riuscito di nascosto a vedere solo una volta di sfuggita e col tempo non capivi se vivesse nei tuoi ricordi o nel tuo immaginario.
Già questo amore.
Condannato a sostanziarsi solo di lettere e di foto, con coccole telematiche estemporanee.
Fantasie e voglie c’erano, ma tristemente relegate nell'ambito del vorrei, ma...
Ed allora, ora come allora, anche oggi che di anni ne sono passati aspetto come ogni giorno che si apra quel sipario per vivere insieme a lei quello spicchio di vita in comune, altro non ho ed a questo punto mai avrò.
Ma per poco che sia, ora lei e le sue letterine, che compongono frasi a volte affettuose, a volte ostili, ma che sanno dipingere, quando vuole, immagini che hanno del divino, sono il centro della mia vita.
La fantasia e la speranza colmano ogni giorno quel vuoto.
E poi si ricomincia...come un cerchio perfetto che si chiude e che riparte.
Io che ho sempre odiato l'apparire condannato a sperare che si apra quel sipario.
La vita a volte sa essere ironica.
Ma per quanto impossibile a credersi lei è, eccome se è...
Ed io la amo, come si ama una donna e non certo un nick.
E provavo dolore e provo dolore, un indescrivibile dolore…
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E provavo dolore, un inspiegabile dolore.
Ogni volta che diceva sono stanca io vado, guardavo lentamente quella luce verde sparire e mi preparavo alla mancanza di lei, alla mancanza di me.
Gocce di assenza cominciavano lentamente a cadere nella mia anima e si predisponevano ad allagarla fino al...
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16/06/2020 02:44:08
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La risacca
11 giugno 2020 ore 15:08 segnala
Lo guardò negli occhi in silenzio per un lungo momento.
Era il silenzio tipico di chi sa cosa rispondere, ma non trova le parole adatte ad esprimerlo.
Ad un certo punto ruppe il silenzio e disse "La risacca".
Lui lo guardò con uno sguardo tra il sorpreso e l'interrogativo e chiese "come la risacca? io ti chiedo perchè te ne stai seduto con lo sguardo triste a mirare un punto indefinito all'orizzonte e tu mi rispondi la risacca?"
"Si, la risacca è la risposta".
"..la risacca è la risposta..?"
"Lascia perdere la storia degli scogli, là è facile. Prendi una spiaggia e pensa al mistero della risacca...".
"Scusa ma davvero non ti seguo, sei sicuro di stare bene?"
"No affatto. Ma ti sei mai chiesto il perchè della risacca sulla spiaggia?"
"Vorrei dire qualcosa di intelligente ma francamente no, non me lo sono mai chiesto e, per dirla tutta, non mi sono mai interrogato nemmeno sulla differenza tra la risacca sugli scogli e quella sulla spiaggia. La risacca è risacca..Perchè esiste una differenza fondamentale?"
"Certo che esiste ed è lì la chiave".
"...La chiave...Addirittura?"
"Certo, lo scoglio c'è, lo vedi".
"Se per questo io vedo anche la spiaggia, tu no?"
"Ma certo che la vedo, che domande.. Intendevo che lo scoglio lo vedi che sta lì a frapporsi come ostacolo, non ti può sembrare strano che il mare sia costretto a battere in ritirata. Semmai ti sembrerebbe strano il contrario".
"..Il contrario?"
"Certo! Se il mare abbattesse lo scoglio, se superasse l'ostacolo e proseguisse oltre, come se nulla fosse accaduto, parleremmo di un evento straordinario".
"Uno tsunami?"
"Ecco per esempio. E' come quando giocavamo a morra cinese da piccoli. Tu non ti chiedevi perchè la forbice vincesse sulla carta o la pietra sulla forbice e solo perchè ti sembrava normale, naturale".
"Si in effetti, la forbice che taglia la roccia mi sarebbe suonato strano..."
"La stessa cosa vale tra lo scoglio ed il mare. Per questo la risacca in quel caso non ti pone interrogativi. Con secoli di ondate il mare può modificare la roccia, ma non con un'unica onda".
"Certo, ma ancora non capisco in che modo quanto stiamo dicendo si colleghi con la mia domanda".
"E' semplice, il problema è la risacca sulla spiaggia".
"La risacca sulla spiaggia.." rispose stavolta con lo sguardo accondiscendente che si riserva ai pazzi "e certo alla domanda che hai? chi non risponderebbe la risacca...sulla spiaggia però..."
Non colse l'ironia, era troppo concentrato ad inseguire il bandolo dei suoi pensieri.
"Ecco, quindi capisci che il mistero è la risacca sulla spiaggia".
"Certo, ma va avanti così me lo chiarisci meglio diciamo.."
"E' semplice. Perchè il mare si arresta e torna indietro? te lo sei mai chiesto? Voglio dire non è che trovi un ostacolo, la spiaggia sta anche sotto il mare e come è arrivata sin lì potrebbe andare oltre. Non è come lo scoglio".
"Beh si in effetti.."
"La sua sulla spiaggia - intendo quella del mare - sembra una resa o addirittura un ripensamento, come se all'improvviso si fosse ricordato che deve sbrigare delle faccende e deve tornare indietro. Come a dire: buongiorno, bellissima spiaggia, è tutto molto bello, ma mi scuserete non posso andare avanti perchè ho da fare".
"...Quindi il mare pensa, ha una vita sociale, magari ha un'agenda..."
"Ma no!"
"Ah ecco.."
"Ed è questo il punto. Non torma indietro perchè respinto come con lo scoglio, non torna indietro perchè ha dimenticato qualcosa. No. Torna indietro per propria incapacità".
"Incapacità? Incapacità a fare cosa?"
"Gli manca la forza, gli manca la spinta, gli manca una qualità che gli permetterebbe di andare avanti. Ed allora ecco che, dopo aver percorso magari centinaia di chilometri per arrivare lì, si deve arrendere e tornarsene indietro con la coda tra le gambe".
"Capisco.."
"Nella risacca di spiaggia c'è il limite, c'è il riconoscimento di una incapacità, l'ontologica imperfezione dello sforzo, c'è la sconfitta"
"C'è la sconfitta..e quindi diciamo che tu stai qui a rimirare l'infinito con espressione triste perchè ti dispiace per la sconfitta del mare..?"
"Ma no, è l'allegoria!"
"E certo che scemo, l'allegoria di scoglio, cioè di spiaggia.."
"Ma no, l'allegoria della sconfitta per incapacità proprie, l'allegoria di una resa davanti ad ostacoli che non parrebbero esserci, l'allegoria della rinuncia incoercibile".
"Ah ecco...diciamo che sei triste per il concetto di sconfitta!"
"Ma no, che vai dicendo? e mica sono un filosofo".
"Allora spiegami bene l'ultimo passaggio, un accenno.."
"Vedi stavo quì seduto in riva al mare e finalmente ho capito. La risacca mi ha dato la risposta".
"A cosa di grazia..?"
"Al perchè di questo amore che sembra sempre stare per decollare, iniziare, proseguire, insomma progredire ed invece ogni volta si arresta e torna indietro, come l'onda in risacca!"
"Ancora? sempre con questa storia impossibile? Ma la vuoi finire una buona volta prima che impazzisci?"
"Non posso smettere, mica lo decidi di amare, ma almeno ora ho capito. Non ci sono ostacoli, non c'è uno scoglio, sono io che dopo aver percorso sette anni di cammino manco di qualcosa. Sono io che non riesco a conquistare lei, così come l'onda non conquista la spiaggia. Ed allora in questo amore sono un mare in risacca. Lei è lì, lei potrebbe essere mia, ma non riesco ad avvicinare il suo cuore perchè manco di qualcosa. Ecco la mia sconfitta, ecco la mia risacca".
Si alzò in piedi e si avvicinò al mare e cominciò a camminare sulla riva, proprio nel punto in cui, come diceva il Professor Bartleboom, il mare finisce.
E, sospirando, unì la sua alla resa dell'onda..
Era il silenzio tipico di chi sa cosa rispondere, ma non trova le parole adatte ad esprimerlo.
Ad un certo punto ruppe il silenzio e disse "La risacca".
Lui lo guardò con uno sguardo tra il sorpreso e l'interrogativo e chiese "come la risacca? io ti chiedo perchè te ne stai seduto con lo sguardo triste a mirare un punto indefinito all'orizzonte e tu mi rispondi la risacca?"
"Si, la risacca è la risposta".
"..la risacca è la risposta..?"
"Lascia perdere la storia degli scogli, là è facile. Prendi una spiaggia e pensa al mistero della risacca...".
"Scusa ma davvero non ti seguo, sei sicuro di stare bene?"
"No affatto. Ma ti sei mai chiesto il perchè della risacca sulla spiaggia?"
"Vorrei dire qualcosa di intelligente ma francamente no, non me lo sono mai chiesto e, per dirla tutta, non mi sono mai interrogato nemmeno sulla differenza tra la risacca sugli scogli e quella sulla spiaggia. La risacca è risacca..Perchè esiste una differenza fondamentale?"
"Certo che esiste ed è lì la chiave".
"...La chiave...Addirittura?"
"Certo, lo scoglio c'è, lo vedi".
"Se per questo io vedo anche la spiaggia, tu no?"
"Ma certo che la vedo, che domande.. Intendevo che lo scoglio lo vedi che sta lì a frapporsi come ostacolo, non ti può sembrare strano che il mare sia costretto a battere in ritirata. Semmai ti sembrerebbe strano il contrario".
"..Il contrario?"
"Certo! Se il mare abbattesse lo scoglio, se superasse l'ostacolo e proseguisse oltre, come se nulla fosse accaduto, parleremmo di un evento straordinario".
"Uno tsunami?"
"Ecco per esempio. E' come quando giocavamo a morra cinese da piccoli. Tu non ti chiedevi perchè la forbice vincesse sulla carta o la pietra sulla forbice e solo perchè ti sembrava normale, naturale".
"Si in effetti, la forbice che taglia la roccia mi sarebbe suonato strano..."
"La stessa cosa vale tra lo scoglio ed il mare. Per questo la risacca in quel caso non ti pone interrogativi. Con secoli di ondate il mare può modificare la roccia, ma non con un'unica onda".
"Certo, ma ancora non capisco in che modo quanto stiamo dicendo si colleghi con la mia domanda".
"E' semplice, il problema è la risacca sulla spiaggia".
"La risacca sulla spiaggia.." rispose stavolta con lo sguardo accondiscendente che si riserva ai pazzi "e certo alla domanda che hai? chi non risponderebbe la risacca...sulla spiaggia però..."
Non colse l'ironia, era troppo concentrato ad inseguire il bandolo dei suoi pensieri.
"Ecco, quindi capisci che il mistero è la risacca sulla spiaggia".
"Certo, ma va avanti così me lo chiarisci meglio diciamo.."
"E' semplice. Perchè il mare si arresta e torna indietro? te lo sei mai chiesto? Voglio dire non è che trovi un ostacolo, la spiaggia sta anche sotto il mare e come è arrivata sin lì potrebbe andare oltre. Non è come lo scoglio".
"Beh si in effetti.."
"La sua sulla spiaggia - intendo quella del mare - sembra una resa o addirittura un ripensamento, come se all'improvviso si fosse ricordato che deve sbrigare delle faccende e deve tornare indietro. Come a dire: buongiorno, bellissima spiaggia, è tutto molto bello, ma mi scuserete non posso andare avanti perchè ho da fare".
"...Quindi il mare pensa, ha una vita sociale, magari ha un'agenda..."
"Ma no!"
"Ah ecco.."
"Ed è questo il punto. Non torma indietro perchè respinto come con lo scoglio, non torna indietro perchè ha dimenticato qualcosa. No. Torna indietro per propria incapacità".
"Incapacità? Incapacità a fare cosa?"
"Gli manca la forza, gli manca la spinta, gli manca una qualità che gli permetterebbe di andare avanti. Ed allora ecco che, dopo aver percorso magari centinaia di chilometri per arrivare lì, si deve arrendere e tornarsene indietro con la coda tra le gambe".
"Capisco.."
"Nella risacca di spiaggia c'è il limite, c'è il riconoscimento di una incapacità, l'ontologica imperfezione dello sforzo, c'è la sconfitta"
"C'è la sconfitta..e quindi diciamo che tu stai qui a rimirare l'infinito con espressione triste perchè ti dispiace per la sconfitta del mare..?"
"Ma no, è l'allegoria!"
"E certo che scemo, l'allegoria di scoglio, cioè di spiaggia.."
"Ma no, l'allegoria della sconfitta per incapacità proprie, l'allegoria di una resa davanti ad ostacoli che non parrebbero esserci, l'allegoria della rinuncia incoercibile".
"Ah ecco...diciamo che sei triste per il concetto di sconfitta!"
"Ma no, che vai dicendo? e mica sono un filosofo".
"Allora spiegami bene l'ultimo passaggio, un accenno.."
"Vedi stavo quì seduto in riva al mare e finalmente ho capito. La risacca mi ha dato la risposta".
"A cosa di grazia..?"
"Al perchè di questo amore che sembra sempre stare per decollare, iniziare, proseguire, insomma progredire ed invece ogni volta si arresta e torna indietro, come l'onda in risacca!"
"Ancora? sempre con questa storia impossibile? Ma la vuoi finire una buona volta prima che impazzisci?"
"Non posso smettere, mica lo decidi di amare, ma almeno ora ho capito. Non ci sono ostacoli, non c'è uno scoglio, sono io che dopo aver percorso sette anni di cammino manco di qualcosa. Sono io che non riesco a conquistare lei, così come l'onda non conquista la spiaggia. Ed allora in questo amore sono un mare in risacca. Lei è lì, lei potrebbe essere mia, ma non riesco ad avvicinare il suo cuore perchè manco di qualcosa. Ecco la mia sconfitta, ecco la mia risacca".
Si alzò in piedi e si avvicinò al mare e cominciò a camminare sulla riva, proprio nel punto in cui, come diceva il Professor Bartleboom, il mare finisce.
E, sospirando, unì la sua alla resa dell'onda..
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Lo guardò negli occhi in silenzio per un lungo momento.
Era il silenzio tipico di chi sa cosa rispondere, ma non trova le parole adatte ad esprimerlo.
Ad un certo punto ruppe il silenzio e disse "La risacca".
Lui lo guardò con uno sguardo tra il sorpreso e l'interrogativo e chiese "come la risacca?...
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Scrive dal: | 24/05/2020 |
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