Il Circo Barnum:
Dalla deformità ributtante alla spettacolarizzazione dell’orrore. Il Signor Phineas Taylor Barnum era a suo modo un genio. Senza dubbio un precursore dei tempi. Non era un volgare truffatore, lui era un affabulatore, un bugiardo con del grande talento. Qualcuno direbbe un ciarlatano, come quelli che giravano di paese in paese su sgangherati carrozzoni vendendo miracolose lozioni che promettevano di guarire allo stesso modo: la gotta, i piedi gonfi, la caduta dei capelli, l’impotenza e i peli superflui, garantendo in tutti i casi gli stessi strepitosi risultati. Ma questa definizione sarebbe ingiusta e riduttiva per il Sig. Barnum. Egli non si limitava infatti ad inventare menzogne, le imbastiva con straordinari e immaginifici particolari, le cesellava con la cura di un orafo. Attraverso un uso sapiente che mescolava la diceria, la leggenda metropolitana con il potere nascente dei primi media: i quotidiani, egli le faceva diventare quelle bugie probabili, verosimili. Il linguaggio televisivo e quello della pubblicità sono in qualche modo debitrici a questo eccentrico personaggio. Il Signor Barnum era un creatore di storie, un inventore di fantasie. Se avesse avuto del talento letterario sarebbe diventato probabilmente un nuovo Jules Verne o un nuovo Tolkien. Ma quello in cui il Signor Barnum era davvero bravo era fare soldi. Si considerava un impresario, un rispettabile uomo d’affari che aveva scelto un ramo piuttosto particolare: la mostruosità, il deforme, la rarità. Il Signor Barnum rivoluzionò completamente l’idea del Circo affiancandolo alla fiera di paese. Nei suoi spettacoli non c’erano trapezisti, clowns, belve feroci o mangiatori di fuoco. Ma potevi trovare la donna più vecchia del mondo, la ballerina da una gamba sola, la gigantessa Swan e i suoi selvaggi australiani, la donna barbuta, il nano, l’uomo pachiderma. Alla tradizionale magia del circo, che tiene gli spettatori con gli occhi sgranati e la bocca spalancata, egli aggiunse il gusto del grottesco, solleticando quella curiosità morbosa tipica degli esseri umani per tutto ciò che è diverso dalla normalità, dall’armonia della natura. Il circo Barnum e tutt’oggi sinonimo di carrozzone, di calderone indistinto di cose del tutto diverse fra sé. Non era decisamente un uomo political correct il Sign. Barnum, ma la sua assoluta mancanza di ipocrisia me lo rende molto simpatico. Non ha mai detto di essere qualcosa di diverso da un impresario, da uno che faceva soldi vendendo qualcosa. Mi chiedo in particolare se sia da biasimare lui ad aver messo in piedi questo spettacolo degli “orrori” o le centinaia di persone che ogni giorno lo affollavano, si accalcavano intorno a questi personaggi storcendo il naso o coprendoselo con fazzoletti profumati, come se stessero per visitare un lazzaretto di lebbrosi. Se non altro il sign. Phineas Taylor Barnum dopo lo spettacolo beveva qualcosa con i suoi dipendenti, chiacchierava del più e del meno con la gigantessa Swan e forse consolava le afflizioni amorose dell’uomo pachiderma. Forse c’era davvero più umanità in Barnum, che trattava bene i suoi “tesori” perché erano la sua impresa, di quanta ce ne fosse nell’accaldata alto borghesia americana che andava a visitare il suo museo. Quello che mi interessa comunque non è riabilitare la figura del Signor Barnum, quello che mi ha colpito della sua storia è il processo che egli compie sul concetto di diversità. Da Barnum in poi infatti si è andato assistendo ad una spettacolarizzazione della diversità che è andata via via degenerando. E’ lo stesso principio che è oggi alla base di un certo tipo di trasmissioni televisive che puntano tutto sul caso umano, sulla storia strappalacrime, sul dolore vissuto minuto per minuto come una cronaca di calcio, sui delitti di bambini seguiti come se fossero fiction, sulle domande stupidamente cattive a cui io continuo a non capire come le persone possano prestarsi, o sulla presenza nella casa del grande fratello di un trans che risponde solo ad un esigenza di marketing: cosa ci mettiamo quest’anno? Con cosa droghiamo gli ascolti? Con cosa facciamo parlare di noi? Ma anche questo non è che un altro modo di ghettizzare, di usare la diversità in tutte le sue forme. Storicamente, fin dall’antichità, coloro che erano diversi venivano tenuti ai margini della società come non graditi alla vista. La diversità era interpretata come una stigma mandata come punizione dagli dei (nel caso dei greci) o da Dio (qualche secolo dopo). Era cioè un monito, un segno distintivo. Il messaggio di fondo era insomma che se era nato così c’era un motivo intelligibile, una volontà soprannaturale di segnarlo, di additarlo agli occhi di tutti. Al danno del Caso, all’errore di calcolo della natura, si aggiungeva insomma la beffa. Chi era deforme era anche cattivo, aveva una colpa da pagare e Dio lo puniva in questo modo. La stessa etimologia della parola “monstrum” deriva da dimostrare, palesare qualcosa. I diversi dovevano nascondersi, evitare il contatto con gli altri, potevano al massimo trascinarsi agli angoli di una strada o sul sagrato di una chiesa per chiedere l’elemosina nei giorni di messa, purché finita la funzione strisciassero di nuovo da dove erano venuti. Tornassero nel nulla. I diversi devono stare con i diversi, così come i neri con i neri, gli ebrei nel loro ghetto, gli africani a casa loro e via discorrendo. La ghettizzazione è sempre stata vista come una forma di difesa per preservarsi da un contagio, da un imbastardimento, da un’invasione. E’ davvero cambiato molto da allora? Oggi i ghetti si creano in maniera spontanea, non c’è bisogno di alzare muri, le distanze fra le persone si misurano col silenzio, con l’incapacità reale e tangibile di capire l’altro, ma anche solo di fare lo sforzo di ascoltarlo. L’integrazione è una bella parola di cui qualcuno ogni tanto si riempie la bocca da sopra un palco, ma realmente dov’è? La nostra società è sulla carta senz’altro più civile di quella del medioevo, o del secolo scorso. Il nuovo glossario political corect ha dato una bella ripulita ad alcune definizioni del passato, una mano di vernice semantica sulle parole inopportune da dire. Così il cieco è diventato non-vedente, il tetraplegico è un diversamente abile e così via. Ma basta davvero questa operazione simpatia a far cambiare un atteggiamento, una propensione umana che è millenaria, è atavica in noi? La nostra società si è sviluppata intorno ad uno stato di diritto che tutela le fasce più deboli e gli incapaci di intendere. Sono state messe in pratica leggi lodevoli sui diritti dei disabili, eppure questo non basta ad evitare le risatine stupide tra ragazzetti, gli episodi di bullismo verso i minorati, lo scegliere donne-kamikaze disabili per farle esplodere in un mercato affollato dell’Iraq. Noi siamo lontani anni luce da un atteggiamento realmente civile o tollerante o di integrazione, perché queste cose non si possono imporre per legge. L’educazione, la cultura, il confronto vero con realtà diverse dalle nostre sono la sola strada che possono fare sviluppare la microcefalea da cui siamo afflitti. Forse è per questo che leggendo di Barnum e del suo Circo delle rarità mi è risultato simpatico oggi, probabilmente lui non si sarebbe nascosto dietro ad una definizione corretta, non avrebbe detto: Hey lei, uomo affetto da nanismo come si chiama? Gli avrebbe detto: John ti fai una birra dopo questo fottuto spettacolo?