Dipingere l'anima: Danae

27 ottobre 2007 ore 16:03 segnala
 

 “Dipingerti è molto più che guardarti per ore a pochi centimetri di distanza.

Mentre ti dipingo io ti sto desiderando, senza sfamarmi. Ti percorro senza toccarti. Dipingerti è molto più che fare l’amore con te.

E’ dragare il fondo di un fiume oscuro, raschiando con un miserabile cucchiaio tutto il tuo mistero. E’ attraversarti come un pellegrino attraversa una terra santa, in cerca della sua pace, del suo perdono. Mentre ti dipingo i miei pensieri sono dita, li puoi sentire su di te.

Dipingerti è fluttuare su di te, come con l’inganno fece un dio prima di me pur di averti.

Sono io questa pioggia d’oro tra le tue cosce bianche, risalgo e scorro dentro te, ti invado e vinco, straripo e mi perdo. Sebbene pioggia, io in te annego. Perché il tuo corpo, malgrado io l’abbia dipinto per giorni e notti, resterà sempre una terra sconosciuta, un giardino segreto pungente di profumi di terra, di fiori, di aspre battaglie di letto, di sudore, di vita e di morte. Perchè di vita e di morte sei fatta. Come me, come tutti. Eppure accanto a te, anche senza toccarti, la morte mi sembra non debba mai venire.

Distante e accessibile, arrendevole eppure altrove. Forse mi basterebbe davvero allungare una mano per toccarti, sapere che sei vera, raccoglierti come un frutto, farti tremare di desiderio.

Mi basterebbe avvicinarmi a te col mio ingombrante corpo, che ogni giorno somiglia sempre più ad un nodoso albero, per farti ombra con la mia virilità ansiosa, per rubare il segreto di tutta la tua luce.

Forse potrei davvero farlo, come è accaduto prima di te con centinaia di donne.

Ma io non riesco a smettere di dipingerti.”

Pensava febbrilmente quella sera Herr Klimt nel suo studio mentre le dita, poco armoniose benché appartenessero ad un pittore, cercavano di soddisfare la velocità di quei pensieri, di anticiparli talvolta.

Sulla tavolozza egli non cercava colori, cercava parole con cui spiegarla, cercava risposte, cercava di intrappolare le proprie emozioni.

Avrebbe voluto, Herr Klimt, trovare l’interruttore di tutti quei pensieri, per spegnerlo e far finalmente tornare il silenzio e far finalmente smettere quella musica costante che sentiva con insistenza, sebbene nessuno suonasse.

Forse era stata la sua bocca a togliergli il sonno le prime notti. Quella bocca da bambina imbronciata, con quella tristezza lieve di rosso corallo. Forse era stato il candore di onice della sua pelle, come latte colante, come rotondità di luna piena.

O forse la colpa era di quella cascata di capelli rossi, che era così inutile tentare di dominare, che le ricadeva con noncuranza dovunque senza alcuna direzione precisa, senza nessuna geometria o percorso certo, senza una rotta stabilita. Come quella assurda attrazione.

“I colori mi sfuggono quando ti vedo. Non sono io a sceglierli, sei tu che parli la loro stessa lingua, li hai sedotti con la tua voce che non conosco, con la muta canzone dei tuoi occhi.

I miei colori ti appartengono, ti cercano quando non ci sei, seguono, alla deriva, le orme della tua assenza. E io sono solo dove sono i miei colori.” 

Le sue dita di uomo maturo, abituate a dipingere e ad amare corpi di donna con la stessa disinvoltura, esitarono per un momento sulla tela, come in attesa. Un sussulto appena, forse di desiderio forse di ammirazione, fatto sta che si fermarono per un istante. Fu quando si trattò di disegnarle i seni, rosei, delicati, minimi.

E’ come vedere sbocciare un fiore – pensò - sorridendo per l’eccessiva delicatezza di  un pensiero che non gli apparteneva, che gli sembrava formulato da un estraneo. Lui solitamente così disincantato, così lucidamente sarcastico.

Quante volte aveva già compiuto lo stesso gesto, non lo aveva forse fatto per Giuditta e per Eva?

Ma mai come quella volta fu un gesto d’amore. Aveva ritratto donne di qualsiasi tipo, di qualsiasi età o estrazione sociale, signore ben vestite dell’aristocrazia viennese, donne di strada, modelle pagate a giornata. Aveva rubato a quelle donne ogni più intima posizione, ogni voluttà, ogni segreto. Decine di modelle si aggiravano completamente nude per le stanze del suo studio, le teneva lì per ore, aveva adibito una delle stanze a sala d’attesa, le faceva aspettare lì per ore in attesa dei capricci della propria ispirazione e quando arrivava le teneva per ore ancora in posa.

Molte di quelle donne erano state le sue amanti. Nei salotti in marocchino rosso della Vienna perbene, si bisbigliava con disprezzo che avesse 14 figli illegittimi sparsi per la città, avuti proprio dalle sue modelle. Quegli stessi salotti che egli non aveva mai voluto imbrattare con i suoi colori per timore di non riconoscere o di trovare ridicola la propria immagine riflessa negli alti specchi appesantiti da eccessive stuccature dorate. Quegli specchi dove  la Vienna 1907  ammirava, ubriacandosene ogni sera, il proprio splendore e la propria decadenza.

Ma allora perché Danae era diversa da tutte le altre?

Herr Klimt l’aveva dipinta per mesi tutti i giorni e la ritoccava di notte nel suo letto appena tentava di chiudere gli occhi e dormire qualche ora. Danae era un’ossessione, di tutte le donne che aveva amato e dipinto, lei era la donna. Herr Klimt l’amava, forse più per ciò che credeva Danae fosse, che per ciò che realmente era. L’amava per ciò che non avrebbe mai posseduto di lei, la sua anima, il suo spirito, l’essenza ultima di lei. Così l’amava nella sua maniera, attraverso il filtro di una tela, attraverso i suoi colori, attraverso l’odore di trementina e olio di lino.

La desiderava così tanto che non aveva neanche pensato di poterla veramente toccare. Desiderava amarla così, dipingendola. Conoscendone ogni curva del corpo, ogni piega della pelle, ogni piccola imperfezione, ma senza constatare con le proprie mani che quel percorso fosse giusto, che quella mappa fosse esatta.

Herr Klimt aveva capito con gli anni che ciò che desiderava realmente da una donna, da qualsiasi donna, non era ciò che con facilità relativa egli aveva ottenuto senza neanche dover chiedere. Egli la voleva dentro di sé, voleva che gli riposasse dentro proprio in quella posizione fetale e raccolta che aveva scelto per Danae, come se potesse in questo modo essere un suo stesso organo, una parte indistinguibile di se stesso. Così da poter essere egli stesso Danae e viceversa, pittore e opera, uomo e donna, amante e amato. Come in uno specchio o come in un sogno dove tutto è riflesso, capovolto, deformato eppure simile alla realtà. Come in un sogno, in quella Vienna di inizio secolo dove anche sognare era diventata una moda da salotto, un argomento nuovo di cui sparlare, una sfera privata da interpretare, da fare a pezzi come poco prima si usava con una buona reputazione. 

Ma Herr Klimt in questo inseguiva un sogno vano, nutriva un’ossessione irrealizzabile: possedere un’anima, dipingerla, intrappolarla su una tela.

Quando finalmente terminò il quadro, fece qualche passo indietro contemplandolo, con la stessa soddisfazione che deve provare un uomo che ha appena scalato la montagna più alta del mondo.

Aveva ancora le mani sporche dei suoi colori erano impastati al sottile strato di sudore sulla fronte, intrappolati fra le rughe e nella barba che cominciava ad imbiancare senza saggezza.

Klimt guardò la sua modella, sembrava un guscio vuoto ora che Danae ne era venuta fuori. La guardò a lungo silenzioso portandosi il pollice alle labbra e strofinandole delicatamente. Per due lunghi mesi aveva creduto di amarla, attraverso il contraccettivo di quella tela, inutilmente bianca prima del loro incontro e che ora invece straripava dei colori straziati del suo desiderio, finalmente placato,intrappolato, sistemato. Aveva dato un ordine e un nome a tutto, perfino all’arroganza scompigliata di quella chioma rossa. E ne sembrava al contempo soddisfatto e sfinito.

Versò per due del vino di una qualità scadente e gliene offrì, sedendosi sul letto dove lei si era sistemata in una posizione più comoda. La larga tunica con cui era solito dipingere gli conferiva un aspetto ridicolo e imponente allo stesso tempo.

“Da domani non avrò più bisogno di te, ti ringrazio.” le disse con tono cortese e distaccato.

Non era vero, ma egli non ne dubitò un solo istante mentre pronunciava quella frase. Non poteva ascoltare quanto suonasse falsa quella voce, perché dietro di lui, immobile e perfetta ora viveva Danae, che era tutto ciò che voleva, che avrebbe reso immortale quel pungente desiderio provato un giorno per la donna distesa sul suo letto a qualche passo soltanto.

Qualche passo che Herr Klimt decise di non fare, amando Danae più della donna fatta di carne, e di tempo che disfa.

 

 

 

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   “Dipingerti è molto più che guardarti per ore a pochi centimetri di distanza. Mentre ti dipingo io ti sto desiderando, senza sfamarmi. Ti percorro senza toccarti. Dipingerti è molto più che fare l’amore con te. E’ dragare il fondo di un fiume oscuro, raschiando con un miserabile...
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27/10/2007 16:03:59
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Commenti

  1. chiaraoscura 27 ottobre 2007 ore 19:53
    come sempre... narrativa scorrevole e "poetica", mai stucchevole. Qualche errorino di battitura. Forse anche nell'ultima frase metterei una virgola prima della "e", in questo caso opponendosi alle classiche regole grammaticali, per dare incisività e definire meglio le due parti della frase. E' molto bella perchè sentita. Anche se (forse sono io troppo "morbosa") mi soffermerei anche sul piacere fisico e le sue manifestazioni, allusivamente, mentre Klimt si trova seduto vicino alla modella e guarda, però, il dipinto. Narcisistico fino in fondo. P.S.: a me diverte fare ritratti di tanto in tanto... Mai trovato un figaccione che accettasse di "aspettare per ore aspettando i capricci della mia ispirazione"! :-)))
  2. Ack13 28 ottobre 2007 ore 01:25
    Klimt aveva la sua arte e il voler dipingere l'anima forse, ma che dire di tutte le immagini sbiadite e imprecise dentro di noi che puntualmente amiamo al posto della persona che le ha generate? Forse dovremmo esercitarci a... dipingere? :-)))
  3. IberideRossa 28 ottobre 2007 ore 04:31
    Si può amare così?

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