“I colori mi sfuggono quando ti vedo. Non sono io a sceglierli, sei tu che parli la loro stessa lingua, li hai sedotti con la tua voce che non conosco, con la muta canzone dei tuoi occhi.
I miei colori ti appartengono, ti cercano quando non ci sei, seguono, alla deriva, le orme della tua assenza. E io sono solo dove sono i miei colori.”
Le sue dita di uomo maturo, abituate a dipingere e ad amare corpi di donna con la stessa disinvoltura, esitarono per un momento sulla tela, come in attesa. Un sussulto appena, forse di desiderio forse di ammirazione, fatto sta che si fermarono per un istante. Fu quando si trattò di disegnarle i seni, rosei, delicati, minimi. E’ come vedere sbocciare un fiore – pensò - sorridendo per l’eccessiva delicatezza di un pensiero che non gli apparteneva, che gli sembrava formulato da un estraneo. Lui solitamente così disincantato, così lucidamente sarcastico. Quante volte aveva già compiuto lo stesso gesto, non lo aveva forse fatto per Giuditta e per Eva? Ma mai come quella volta fu un gesto d’amore. Aveva ritratto donne di qualsiasi tipo, di qualsiasi età o estrazione sociale, signore ben vestite dell’aristocrazia viennese, donne di strada, modelle pagate a giornata. Aveva rubato a quelle donne ogni più intima posizione, ogni voluttà, ogni segreto. Decine di modelle si aggiravano completamente nude per le stanze del suo studio, le teneva lì per ore, aveva adibito una delle stanze a sala d’attesa, le faceva aspettare lì per ore in attesa dei capricci della propria ispirazione e quando arrivava le teneva per ore ancora in posa. Molte di quelle donne erano state le sue amanti. Nei salotti in marocchino rosso della Vienna perbene, si bisbigliava con disprezzo che avesse 14 figli illegittimi sparsi per la città, avuti proprio dalle sue modelle. Quegli stessi salotti che egli non aveva mai voluto imbrattare con i suoi colori per timore di non riconoscere o di trovare ridicola la propria immagine riflessa negli alti specchi appesantiti da eccessive stuccature dorate. Quegli specchi dove la Vienna 1907 ammirava, ubriacandosene ogni sera, il proprio splendore e la propria decadenza. Ma allora perché Danae era diversa da tutte le altre? Herr Klimt l’aveva dipinta per mesi tutti i giorni e la ritoccava di notte nel suo letto appena tentava di chiudere gli occhi e dormire qualche ora. Danae era un’ossessione, di tutte le donne che aveva amato e dipinto, lei era la donna. Herr Klimt l’amava, forse più per ciò che credeva Danae fosse, che per ciò che realmente era. L’amava per ciò che non avrebbe mai posseduto di lei, la sua anima, il suo spirito, l’essenza ultima di lei. Così l’amava nella sua maniera, attraverso il filtro di una tela, attraverso i suoi colori, attraverso l’odore di trementina e olio di lino. La desiderava così tanto che non aveva neanche pensato di poterla veramente toccare. Desiderava amarla così, dipingendola. Conoscendone ogni curva del corpo, ogni piega della pelle, ogni piccola imperfezione, ma senza constatare con le proprie mani che quel percorso fosse giusto, che quella mappa fosse esatta. Herr Klimt aveva capito con gli anni che ciò che desiderava realmente da una donna, da qualsiasi donna, non era ciò che con facilità relativa egli aveva ottenuto senza neanche dover chiedere. Egli la voleva dentro di sé, voleva che gli riposasse dentro proprio in quella posizione fetale e raccolta che aveva scelto per Danae, come se potesse in questo modo essere un suo stesso organo, una parte indistinguibile di se stesso. Così da poter essere egli stesso Danae e viceversa, pittore e opera, uomo e donna, amante e amato. Come in uno specchio o come in un sogno dove tutto è riflesso, capovolto, deformato eppure simile alla realtà. Come in un sogno, in quella Vienna di inizio secolo dove anche sognare era diventata una moda da salotto, un argomento nuovo di cui sparlare, una sfera privata da interpretare, da fare a pezzi come poco prima si usava con una buona reputazione. Ma Herr Klimt in questo inseguiva un sogno vano, nutriva un’ossessione irrealizzabile: possedere un’anima, dipingerla, intrappolarla su una tela. Quando finalmente terminò il quadro, fece qualche passo indietro contemplandolo, con la stessa soddisfazione che deve provare un uomo che ha appena scalato la montagna più alta del mondo. Aveva ancora le mani sporche dei suoi colori erano impastati al sottile strato di sudore sulla fronte, intrappolati fra le rughe e nella barba che cominciava ad imbiancare senza saggezza. Klimt guardò la sua modella, sembrava un guscio vuoto ora che Danae ne era venuta fuori. La guardò a lungo silenzioso portandosi il pollice alle labbra e strofinandole delicatamente. Per due lunghi mesi aveva creduto di amarla, attraverso il contraccettivo di quella tela, inutilmente bianca prima del loro incontro e che ora invece straripava dei colori straziati del suo desiderio, finalmente placato,intrappolato, sistemato. Aveva dato un ordine e un nome a tutto, perfino all’arroganza scompigliata di quella chioma rossa. E ne sembrava al contempo soddisfatto e sfinito. Versò per due del vino di una qualità scadente e gliene offrì, sedendosi sul letto dove lei si era sistemata in una posizione più comoda. La larga tunica con cui era solito dipingere gli conferiva un aspetto ridicolo e imponente allo stesso tempo. “Da domani non avrò più bisogno di te, ti ringrazio.” le disse con tono cortese e distaccato. Non era vero, ma egli non ne dubitò un solo istante mentre pronunciava quella frase. Non poteva ascoltare quanto suonasse falsa quella voce, perché dietro di lui, immobile e perfetta ora viveva Danae, che era tutto ciò che voleva, che avrebbe reso immortale quel pungente desiderio provato un giorno per la donna distesa sul suo letto a qualche passo soltanto. Qualche passo che Herr Klimt decise di non fare, amando Danae più della donna fatta di carne, e di tempo che disfa.