Sono nato Re io. E dei sovrani possiedo la superbia e quel distacco dagli altri uomini, che nemmeno la beffa del Destino toccatomi in sorte ha saputo piegare. Per un capriccio degli dei sono nato deforme e mostruoso. Un ibrido indefinito. Un bastardo.
Il mio capo bovino non ha mai conosciuto carezza di madre. Il mio corpo di uomo non sa cosa sia la bocca di una donna. La sola mano sopra questo petto è la mia che, premuta conto il cuore, controlla se per caso non si sia finalmente stancato di battere con tanta precisione.
La mia possanza fisica mi sfinisce, mi annienta perché mi fa rassegnare all’idea che dovrò convivere ancora troppi anni con questo involucro che non mi rappresenta, che non mi appartiene.
Provo desideri come tutti gli uomini, ma nessuno li conosce. Come tutti gli uomini ho malinconie struggenti che mi allungano le notti, ma nessuno che le ascolti. Qualche volta sogno anche, perché per mia sfortuna anche questa capacità tutta umana mi è stata concessa.
Ma è la lucidità dei miei pensieri, la loro presenza costante e soffocante la mia vera condanna, molto più che la mia condizione.
La mia nascita venne salutata come un evento. Io. Primo figlio maschio di Minosse, ero destinato per diritto ad essere il signore di quest’isola dimenticata in mezzo all’Egeo. Miei sarebbero stati il trono e tutti i privilegi lussuosi e decadenti che già furono dei miei antenati.
Ma quella promessa di vita è durata lo spazio esatto intercorso tra il mio parto e l’urlo di orrore della mia levatrice.
Raccontano che mia madre non abbia voluto neanche vedermi, perché sapeva “cosa” ero.
Raccontano che si sia accoppiata con un toro per soddisfare un insano desiderio carnale.
Ma entrambi sappiamo che eravamo pedine di una partita molto più grande di noi.
Poseidone, dio indegno di questo maledetto mare che avvolge di splendore azzurro qualunque distanza possa coprire il mio sguardo, aveva inviato in dono a mio padre il più bell'animale del suo pascolo perché egli lo sacrificasse in suo onore. Ma egli lo offese nascondendo il superbo toro e sacrificandone un altro al suo posto. Solo la stupida avidità di quell’uomo poteva sperare di ingannare un dio con un raggiro così meschino. Con un’astuzia senza alcun talento.
Io pago quella colpa. Il mio corpo testimonia quel torto. Io sono il compimento di una vendetta. Raccontano che fu per punire lui che mia madre venne presa dal folle desiderio per quell’animale.
Lei, regina dignitosa e moglie devota era ridotta ad una baccante, un’invasata. Percorreva senza pace ogni stanza del Palazzo in cerca di qualcosa che placasse quella fame. Sentiva le carni infiammarsi addosso, si stracciava le vesti e ciocche di capelli ancora sanguinanti dal capo.Essa conosceva bene il nome della sola cosa che l’avrebbe guarita, placata. Ma la negava. Cercava anche lei di ingannare un Dio ancora più vendicativo di Poseidone. Anche lei senza astuzia e senza talento.
“Lo voglio” Continuava ad urlare dolorosamente il suo ventre pulsante.
Convocarono al suo letto sacerdoti, indovini e cerusici. Le fecero bagni lenitivi di malva e biancospino. Sanguisughe sazie del suo sangue pazzo le cadevano dal corpo senza tuttavia averla sfinita, né guarita. Tutta la scienza degli uomini si guardava attonita ai piedi di quel letto. Doveva essere uno spettacolo buffo vedere scolorire dai loro volti tutta la presunzione della loro finta conoscenza.
Mia madre sarebbe morta di quel desiderio. Ma non morì. Perchè lei conosceva il male e anche il suo rimedio. Se solo lei sapesse che non l’ho mai odiata.
Raccontano che dopo la mia nascita mia madre pregò con voce lacrimosa e supplichevole Dedalo, l’architetto di corte, di costruire un luogo in cui potermi nascondere.
- Un pozzo profondo, una spelonca oscura, un sarcofago con la lega più resistente mai scoperta.Purché io non lo veda mai. Nascondimelo alla vista ti prego.-
Non era solo ribrezzo il suo. Io ero la testimonianza della sua vergogna, della sua lussuria.
Con la stessa voce lacrimevole lo aveva supplicato pochi mesi prima di costruire per lei una giovenca di legno incava all’interno e ricoperta di pelo di animale in cui potesse nascondersi perché la sua magnifica ossessione la possedesse comodamente.
Di tutti gli inganni che ho fin qui elencato questo fu il solo che riuscì alla perfezione, perché vi era dell’ ingegno in questa astuzia, vi era finalmente del talento. Il toro montò mia madre credendola solo una giovenca, perché gli animali sono creature semplici, credono solo in ciò che vedono e quel che non capiscono lo temono o lo sfuggono. Il toro non conosceva l’umana depravazione né poteva apprezzare la raffinatezza dell’inganno. E’ così che io venni al mondo.
Certe volte penso che sia Dedalo il mio vero padre perché senza la sua occulta architettura non ci sarebbe stato il Minotauro né la sua casa. Perché io esisto solo in questo labirinto che mi hanno costruito intorno. Ed il mio nome sarà associato anche nei secoli futuri indissolubilmente alla mia casa senza finestre ma con centinaia di porte che si aprono sul nulla. Porte senza serrature né chiavi perché nel mio dedalo non c’è bisogno di inferriate, lucchetti o gelosie. Sono il prigioniero di una prigione senza sbarre, sono prigioniero della mia diversità.
Per sopravvivere mi sono nutrito dell’odio che provo verso il mondo, col tempo ho imparato quasi ad amare la mia solitudine perché a mio modo mi rende libero e mi elevo nel disprezzo che ho per il genere umano. Eppure certe volte non posso fare a meno di pensare a mia madre.
Sempre ciò che ci dà ribrezzo lo occultiamo agli occhi. E allora che i tuoi begli occhi, il cui colore ignoro, non vedano altro che cieli tersi e vele di porpora che solcano i mari, madre. Che tu possa gioire della bellezza del creato e dimenticare così la deformità che hai portato in grembo. Io ti capisco. Ti maledico per tutto l’amore che non mi hai concesso eppure ti capisco. Se io non fossi stato uno scherzo della natura sarei forse stato diverso da te? No. Avrei uguale indifferenza, uguale disgusto per ciò che è diverso, anomalo e deforme. Farei battere con sadico compiacimento i mendicanti storpi che osano appestare l’aria della mia reggia e forse calpesterei col mio cavallo migliore lanciato al galoppo gli infermi che non si tirano via per tempo dalla mia strada. Forse userei parole come feccia, ultimi e intoccabili per additarli.
Certe volte, quando non mi pesa troppo addosso questa malinconia di essere unico, penso persino che questa deformità mi abbia reso diverso anche dentro, migliore.
Altre volte invece, mentre guardo in silenzio un tramonto da uno dei terrazzi tutti identici del mio labirinto, mi prende la solitudine immensa di essere uomo a metà. E allora mi domando come sarebbe stata la mia vita, non se io fossi stato interamente uomo, perché per troppi anni me lo sono chiesto con disperata sofferenza, ma se fossi stato interamente bestia. Mosso soltanto da istinti primitivi, essenziali: bere, nutrirmi, accoppiarmi per richiamo del desiderio, senza le sottigliezze del piacere, gli inganni degli umani, le contraddizioni, le sublimi altezze e le striscianti bassezze che significano Essere Umano. Forse è questo essere felici: non possedere la pesante eredità di pensieri e di malinconie che mi fanno uomo, malgrado il mio aspetto lo neghi. E che mi fanno schiavo della mia solitudine.
Il sole della mattina brillò sulla spada di bronzo. Non restava più traccia di sangue.
"Lo crederesti, Arianna?" disse Teseo.
"Il Minotauro non s'è quasi difeso."(*)
Piccola bibliografia per saperne di più:
Ovidio, Metamorfosi.
J. L. Borges La casa di Asterione.(*) da cui è tratta l’ultima frase.