Lady Day
11 gennaio 2008 ore 22:07 segnala
Nel 1915 Baltimora doveva somigliare ad una specie di enorme cantiere navale a cielo aperto.
Gente, merci e disperazione di ogni tipo transitavano attraverso il suo porto.
La Grande guerra in America era solo un concetto astratto, un titolo sul giornale. Dall’altra parte dell’oceano il rombo dei cannoni di Verdun o l’odore di carne putrefatta nelle trincee faceva fatica ad arrivare. Ma anche Baltimora aveva la sua guerra privata, più strisciante, quotidiana, una guerra senza divise, senza bandiere. Era la guerra sottovoce che si combatteva per sopravvivere ogni giorno, quella della povertà, della fame, della disperazione che brulicava nelle grandi città all’ombra del Sogno Americano.
Era quella combattuta dalla Babele di immigrati che mandavano avanti il treno dell’economia senza parlare una sola parola di americano. Era quella dei neri a cui era permesso esibirsi nei locali alla moda dei bianchi, ma non di entrarvi ad ascoltare la loro musica, la loro invenzione. Dovevano aspettare buoni e in silenzio chiusi in sgabuzzini il momento di salire sul palco, quasi che la loro sola presenza bastasse ad appestare l’aria. Un po’ come si fa con certi animali esotici tenuti in gabbia e tirati fuori solo al momento di farli saltare allo schiocco della frusta per far vedere quanto sono stati ammaestrati bene.
E’ in un quartiere poverissimo dei sobborghi di Baltimora che crebbe Eleonor Fargan, prima di diventare Billie Holiday.
Eleonor era stata un incidente di percorso tra un ragazzino di 16 anni, Clarence Holiday, che reggeva il Banjo meglio di quanto facesse con il wiskey e le voglie ancora acerbe di Sadie Fargan, madre a 14 anni.
Forse i ragazzini bianchi si chiedevano quale regalo gli avrebbe portato Babbo Natale nello stesso momento in cui Eleonor si chiedeva perché diavolo stesse al mondo. Come tutti i ragazzini Eleonor era maledettamente sveglia eppure certe parole, come casa, famiglia o amore lei non riusciva ad impararle, perchè non ne possedeva l’idea.
Tirata su più dalla strada che dalla cugina a cui era stata abbandonata, Eleonor a sei anni già lavorava, pulendo i cortili e le scale delle case del suo quartiere.
C’erano solo due cose in mezzo a quella disperazione che riuscivano a restituirle brevemente un sorriso o che dessero una specie di senso al mondo, qualcosa per cui valesse la pena esserci.
Una era il cinema. Accucciata al buio, sulle assi di legno di una sala polverosa e troppo affollata in mezzo a bucce di noccioline e sputi degli spettatori, tra fumo di sigarette arrotolate a mano e colonia da pochi cents, Eleonor poteva fare quello che la vita le aveva insegnato a dimenticare: sognare. Con gli occhi sgranati vedeva scorrere sullo schermo le carezze che non aveva avuto, le parole d’amore che nessuno le aveva mai detto, le favole che nessuno le aveva mai raccontato. Anni dopo quando le chiesero che nome scrivere sulla locandina del suo primo spettacolo, probabilmente si ricordò di tutto il fascino di quei vecchi film e rispose Billie in omaggio alla sua attrice preferita Billie Dove.
Eleonor aveva un altro segreto che la teneva aggrappata alla vita: la musica.
Scoprì il jazz a 7 anni mentre puliva le scale di un bordello di Baltimora. All’improvviso il rumore della spazzola sul greto e il contestuale movimento delle sue treccine scure che lo accompagnavano si fermarono di colpo ed Eleonor non riuscì più a smettere di ascoltare quella musica che sembrava somigliarle tanto: malinconica e senza speranza.
La proprietaria del bordello le permetteva di entrare dentro dopo le pulizie ad ascoltare da vicino i dischi gracchianti di Louis Amstrong e Bessie Smith.
I sobborghi delle grandi città sono posti dove l’infanzia finisce in fretta e passa senza neanche averla vissuta. Quella di Eleonor se la prese un suo vicino di casa, la sera che la stuprò, forse dietro i bidoni della spazzatura di un vicolo sporco o nell’atrio senza luci delle scale. Eleonor aveva solo 10 anni. Ma il risvolto più amaro e ferocemente beffardo della storia è che la LEGGE stabilì, nella persona di un coscienzioso giudice, che a dieci anni sei abbastanza grande da essere sessualmente consapevole,forse addirittura provocante. Così Eleonor fu accusata di aver adescato il suo violentatore.
Era come dare ragione al lupo che sbranò l’agnello che intorbidiva la sua acqua.
Fu rinchiusa in una “Scuola di Correzione Cattolica”, nome pieno di Grazia dietro cui si nascondeva tutto l’inferno della fervente repressione di un certo tipo di chiesa che ha sempre brandito il crocefisso come un’arma.
Dalla biografia di Billie Holiday: “Quando facevi qualcosa di contrario alle regole ti mettevano addosso un vestitino rosso e nessuno poteva rivolgerti la parola. Ricordo che una ragazza era morta all’istituto e l’avevano sistemata momentaneamente in una stanza. Per punizione mi rinchiusero tutta la notte vestita di rosso insieme al suo cadavere.”
Dal pulire le scale di un bordello a sei anni ad attraversarne la soglia a dodici la strada è breve se sei nera, povera e disperata. A dodici anni Eleonor scappò ad Harem alla ricerca di una madre mai conosciuta veramente e di un po’ di fortuna sentendosi giustamente in debito. Qui cominciò a prostituirsi per non tornare a pulire cessi e pavimenti di locali, cosa che in seguito raccontò senza cercare di imbellettare troppo la verità di pietismo:
“Guadagnavo più lì in un giorno che in un mese facendo la cameriera.” Fu arrestata nello stesso anno, la prima di molte volte, e quando uscì cominciò a cercare un lavoro qualunque nei numerosi locali della 133 esima strada di new York, la via dello Swing, brulicante di piccoli club e nigths.
Era entrata per elemosinare un posto da ballerina di fila. Il proprietario del Pod’s & Jerry’s la squadrò da capo a piedi sorseggiando una birra chiara e calda e fumando un pessimo sigaro da poco. “Sai cantare bambina?” le chiese. Eleonor sorrise, ma era un riso amaro forse pensando fra sé a tutte le volte che aveva canticchiato per farsi coraggio o per assecondare un umore o soltanto per dimenticarsi per un momento di quello che stava facendo, dimenticare i pavimenti luridi, la schiena rotta, le pareti con la carta da parati mezza scrostata del bordello.
“Sì signore, rispose, certo che so cantare, ma a che mi serve?”
Invece le servì perché quando smise di cantare “Travellin’ all alone”, accompagnata solo dal piano, il proprietario del locale aveva annacquato la birra già calda con le sue lacrime e le offrì il suo primo vero contratto.
Billie non era un animale da palco, non era fatta per farsi scoprire come si fa con un canarino e ritornare nella gabbietta dopo aver raccattato applausi e spiccioli. Era timida ed orgogliosa il che veniva spesso scambiato per alterigia. A differenza delle altre ragazze dei club si rifiutava di andare a raccogliere le mance dai clienti infilandosi i biglietti nella giarrettiera. Aveva aperto troppe volte le cosce obbedendo a qualcuno ed aveva giurato a se stessa che non lo avrebbe più fatto. Le altre ragazze la schernivano per questo chiamandola the Lady. Quel soprannome le rimase addosso per sempre, completato qualche anno dopo dal suo unico vero amico Lester Young il sassofonista, che vi aggiunse Day, diminutivo del suo cognome.
Eleonor o Billie o Lady Day passarono attraverso luci ed ombre, contraddizioni, difficoltà e brevi momenti di felicità. Ci furono le tournè milionarie, incisioni importanti, e file del meglio del jazz alla sua porta, ma vi furono anche tre matrimoni sbagliati, l’alcol, la dipendenza dalle droghe.
Tutte quelle donne in realtà portavano dentro sempre la stessa bambina rimasta digiuna di quelle tre parole: casa, famiglia e amore. C’era sempre qualcosa di incompleto nella sua vita, una casellina che rimaneva bianca come quella che compariva alla voce padre quando doveva compilare qualche documento, un vuoto inutilmente riempito da altro, dall’uomo sbagliato, dai bicchieri che tutti ormai avevano smesso di contare.
Billie, Eleonor e Lady Day morirono il 17 luglio 1959 da sole, in un letto di ospedale per le conseguenze di una grave epatite. Il suo fegato devastato era lo specchio del poco amore che aveva avuto per sé, forse perché pochi gliene avevano voluto davvero.
Era una bambina sveglia Billie, con una voce come un chiodo sopra una lavagna, con un buco nel cuore grande come un banjo e con troppe scorciatoie e vie di fuga che le erano sembrate spesso la strada giusta.
8642013
Nel 1915 Baltimora doveva somigliare ad una specie di enorme cantiere navale a cielo aperto.
Gente, merci e disperazione di ogni tipo transitavano attraverso il suo porto.
La Grande guerra in America era solo un concetto astratto, un titolo sul giornale. Dall’altra parte dell’oceano il rombo dei...
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R.OMANTICO 11 gennaio 2008 ore 23:55
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Jean.mg 12 gennaio 2008 ore 06:53
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manueladi 14 gennaio 2008 ore 06:47
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Ack13 14 gennaio 2008 ore 17:34
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manueladi 22 gennaio 2008 ore 19:54
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