Musica Y verdad (pensieri senza guinzaglio)
18 luglio 2007 ore 10:27 segnala
Raccontano che nei campi di concentramento tedeschi si sentisse in sottofondo musica di Wagner mentre, con distaccata indolenza, il kapò guardava scorrere l’interminabile fiume d’innocenti verso le camere a gas. Non li spingevano neanche, non ce ne era bisogno. Quella massa muta e rassegnata ci andava da sola verso la propria fine, inconsapevole come gli agnelli al macello, o consapevole con lo stesso tragico senso del sacrificio che mostrano le vittime predestinate di cui sono piene le scritture dell’Antico Testamento.
E’ straordinariamente feroce e sorprendente pensare quanto sia facile abituarsi all’assassinio.
Far diventare la morte un lavoro, il male soltanto un progetto ben pianificato, l’uccisione sistematica di persone una routine ben oleata.
Penso all’Iraq per esempio. Penso che dopo tre anni di guerra combattuta tutti i giorni, abbiamo perso persino la percezione che si tratti di una guerra. La sentiamo nominare in una finestra del telegiornale e ormai sembra quasi una contabilità che si ha il dovere di aggiornare…“autobomba al mercato 45 morti…si fa esplodere kamikaze in un corteo nuziale 32 le vittime”…bilanci tragici, ma quotidiani. E il quotidiano stempra il senso di gravità del fatto, lo cristallizza in routine. La notizia, paradossalmente, non è più tale. Non ci colpisce veramente, se non per quel secondo in cui, brevemente dispiaciuti, passiamo il boccone che stavamo masticando da una parte all’altra della bocca indecisi sul suo destino.
Raccontano che si sentisse della musica anche nei corridoi stretti e umidi dei garages di Buenos Aires adibiti dalla dittatura militare a scannatoi di regime.
Rumbe sfrenate o popolari canzoni d’amore, erano probabilmente l’ultima cosa che passava per la testa a quegli uomini e quelle donne che già non esistevano più per il mondo esterno. L’ultima cosa prima della scarica elettrica che ne attraversava il corpo, attraverso i fili scoperti di una radio adibita ad improvvisato strumento di tortura. Ma i torturatori sono da secoli dei professionisti. E così questa procedura veniva eseguita alla presenza vigile e solerte di un medico, che visitava il torturato stabilendone la resistenza al dolore, lo stato di salute del momento e quanto ancora potesse andare avanti “l’interrogatorio”. Gli elettrodi venivano applicati con criterio ai genitali o alle ascelle, perché non compromettessero parti vitali, perché un infarto non togliesse loro il privilegio e il piacere di torturarli, di vederli morire a piccoli sorsi.
Desaparecidos li chiamavano. Un solo gesto: un auto verde scuro che si fermava accanto, una mano che ti spingeva dentro, l’auto che ripartiva a folle velocità… trenta secondi e tu smettevi di esistere. Improvvisamente invisibile…desaparecido…non gli mancava certo il senso dell’umorismo. Chi si metteva a cercarti rischiava di impazzire, perché per le Autorità: l’incarnazione del potere, la sua escrescenza malata, tu non eri mai esistito.
Un’intera generazione è sparita in questo modo, cancellata per il progetto omicida di un generale Erode. La forza del loro progetto, la loro speranza, risiedeva nella facilità con cui la gente dimentica.
Se non ti vedo oggi, domani, per un mese, dapprima penserò che stai male, penserò che devo ricordarmi di farti una telefonata, ma poi comincerò a non pensarti, sbiadirai lentamente. Oppure farò finta di non averti mai conosciuto o parlato, perché il prossimo a sparire potrei essere io. Perché la paura è un’infezione strisciante, un contagio che si diffonde attraverso il respiro, il pensiero.
Chi non ha mai saputo dimenticare sono le madri di quella generazione perduta.
Donne il cui ventre, come in una gravidanza isterica, è tornato dopo anni a gonfiarsi, ma di un dolore senza voce, senza più lacrime, senza consolazione.
Verdad- scandivano - in Plaza de Mayo davanti alla Casa Rosada, in una protesta silenziosa e composta come il loro dolore, come la loro forza.
Si coprivano il capo con foulard bianchi, forse per la vergogna di vivere in quel Paese che uccideva i propri figli nascondendo le mani sanguinanti dietro la schiena, dietro un mondiale di calcio organizzato e giocato negli stessi stadi dove pochi mesi prima avevano ammassato come bestie sotto il sole, centinaia di persone, in attesa di essere “interrogate”.
O forse si coprivano il capo di bianco perché non era loro concesso di potere indossare il nero, non avendo neanche un corpo da piangere, una tomba da tenere ordinata e linda. Verdad.
A volte sono i meccanismi più insignificanti e delicati a fare inceppare i grandi ingranaggi.
A volte basta il cattivo funzionamento di una rotella, l’atto di ribellione di una molla che smette all’improvviso di fare quello che ci si aspetta da lei, quello che fanno tutte le altre molle.
Queste donne senza più il sorriso, riuscirono a bloccare quel meccanismo di morte. Anche se questo non è servito a rendere loro la vita spezzata dei propri figli, la creatura strappata al loro grembo di eterne madri, a dare pace ai loro occhi asciutti. Però queste donne, coraggiose, come lo sono tutte le madri, hanno impedito che i propri figli, la propria stessa carne,venisse cancellata per ordine di regime. Oggi i desaparecidos hanno nomi e volti, e anche loro attraverso quelle fotografie sembrano continuare a chiedere Verdad.
Perché c’è una profonda differenza fra il morire e lo scomparire. Quest’ultimo presuppone che semplicemente si sparisca senza lasciare memoria di sé, come se non si fosse mai esistiti. Mentre la morte, per quanto dolorosa, presuppone un’esistenza, un percorso, ricordi, tracce del tuo passato,impronte della tua presenza. Attraverso la loro lotta quelle madri hanno dato ai propri figli la possibilità di morire, così come in precedenza gli avevano dato quella di venire al mondo.
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Raccontano che nei campi di concentramento tedeschi si sentisse in sottofondo musica di Wagner mentre, con distaccata indolenza, il kapò guardava scorrere l’interminabile fiume d’innocenti verso le camere a gas. Non li spingevano neanche, non ce ne era bisogno. Quella massa muta e...
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