Elizabeth Siddal è una immortale sconosciuta, o quasi. Il suo nome non dice nulla alla maggior parte delle persone, eppure chiunque abbia sfogliato per puro capriccio o per ingannare una giornata piovosa un libro d’arte la conosce. Probabilmente si sarà soffermato sulla indomabile riottosità dei suoi capelli rosso Tiziano o avrà, per un attimo soltanto, indugiato sulla scontrosa voluttà della sua bocca sensuale, forse avrà ammirato l’opalescente bianchezza del suo collo nudo o le lunghe dita affusolate intente ad intrecciare una ghirlanda di fiori sul grembo o a tenere in modo indolente uno specchio.
Elizabeth Siddal era la modella preferita di Dante Gabriele Rossetti, ma non era solo questo. Ne fu l’amante per anni, fu la sua ossessione, la sua Musa, la sua puttana e infine la sua sposa, forse troppo tardi, forse solo per senso del dovere. Un po’ come quando a certi impiegati che ci hanno servito bene, con discrezione e devozione totali, gli si regala una buonuscita che in qualche modo li ripaghi, come se l’amore fosse remunerabile e prevedesse un contratto sindacale, detrazioni, un’uscita decorosa e un orologio con le iniziali e la data del pensionamento.
Elizabeth Siddal era una Musa e come tale non poteva più appartenere solo a se stessa. Ogni musa è destinata allo stesso tempo all’immortalità e all’oblio. All’immortalità attraverso l’arte che ne celebra la bellezza fissandola nel tempo e che allo stesso tempo la condanna all’oblio. L’oblio della sua vera essenza, della sua natura più intima, della persona dietro i mille volti che aveva interpretato. Fu Ofelia, fu Venere, fu Beatrice e mille altre donne, ma mai una volta Rossetti la immortalò per quello che era. Mai una volta dipinse l’Elizabeth che si svegliava accanto a lui ogni mattina, nessun quadro porta il suo nome. Rossetti stesso forse non amava Elizabeth, amava molto di più ciò che ella rappresentava, la sua visione della donna che incarnava, la sua visione dell’arte. Elizabeth non poteva essere semplicemente Elizabeth: la rossa, la capricciosa, la permalosa, l’orgogliosa, la pittrice lei stessa, la scrittrice di poesie, la sarta, la terza di cinque figli, la bambina con le lentiggini che girava a piedi nudi per casa. Elizabeth non esisteva realmente se non sulle tele, se non per prestare il suo volto ad altre donne. Non aveva voce, non possedeva pensieri, ci sono sconosciuti i suoi sentimenti, il dolore per la perdita di un figlio partorito morto e tutti i passi bui che la portarono una sera come le altre a prendere una dose più consistente di laudano. Come tutte le muse essa venne trasfigurata, resa evanescente, assurta a simbolo, a idolo, a pura immagine.
Rossetti continuò a dipingerla per anni anche dopo la sua morte, era la sua febbrile ossessione. La dipingeva a memoria come può fare solo chi ci ha osservato in ogni piccolo particolare, con amore e ossessione allo stesso tempo. La dipingeva per riempire un vuoto, non per continuare a ricordarla, i suoi tratti si fecero allora ancora più evanescenti, luminosi, eterei. Elizabeth, nella mente di Rossetti, era davvero diventata la sua Beatrice, senza più consistenza reale di donna, di corpo. Ma evaporata in luminosa, indistinguibile creatura. Alla sua morte Rossetti fece seppellire con lei i suoi manoscritti di poesie, perché l’amore troppe volte è vicino di casa dell’egoismo e così per amore dovevano finire con lei anche i suoi pensieri, il suo dolore, le sue passioni. Solo anni dopo la sua morte, su insistenza di alcuni amici comuni quelle poesie furono dissotterrate e date alle stampe. Forse non era un’artista vera Lizzie, forse il suo unico talento fu quello di essere distruttivamente bella, eppure è in quelle poesie bisogna cercarla davvero e non in un libro d’arte, mentre si cerca di ingannare un giorno di pioggia.
Gone
To touch the glove upon her tender hand,
To watch the jewel sparkle in her ring,
Lifted my heart into a sudden song
As when the wild birds sing.
To touch her shadow on the sunny grass,
To break her pathway through the darkened wood,
Filled all my life with trembling and tears
And silence where I stood.
I watch the shadows gather round my heart,
I live to know that she is gone
Gone gone for ever, like the tender dove
That left the Ark alone.