Regina (Racconto)

09 settembre 2007 ore 22:52 segnala

Come promesso...ecco il frutto dei miei sforzi letterali

 

Regina

 

 

Si chiamava Regina. Con quella crudeltà naturale che solo il Caso a volte sa avere, si ritrovava un nome davvero ingombrante per una barbona.

Era ancora lì dove l’avevo lasciata l’ultima volta,  nel suo angolo alla fine del binario tre, piazzale ovest, stazione di Bologna.

Galleggiava impalpabile tra sacchi di plastica che rigurgitavano cenci luridi, giornali ingialliti e scatole take away del Mc Donald che servivano da banchetto ormai solo alle mosche.

E poi centinaia di cianfrusaglie, ninnoli, reliquie inutili raccattate ovunque negli anni frugando pazientemente fra le immondizie degli altri.

Il tesoro di Regina era costituito da tutte quelle cose a cui la gente non dà più valore.

Cose dimenticate, perdute o abbandonate nella fretta di rincorrere un treno.

Cose vecchie,guaste,inservibili che tuttavia ritrovavano nuova vita nelle mani di Regina, fantasiosi utilizzi. O rimanevano ugualmente inutili, ma tuttavia gelosamente difese. Improvvisamente preziose.

Tra i clochard vige una regola non scritta: la roba è tutto.

Ciò che si riesce a trovare, a fare proprio, rappresenta la casa, la sopravvivenza, il capitale.

E il capitale di Regina trovava tutto comodamente posto in un vecchio carrello della spesa a cui lei si accompagnava sempre, inseparabile e gelosa, come fosse il suo bastone.

Quando vedevo Regina comparire da lontano, strascicando il passo, preannunciata a metri di distanza da un pungente odore di piscio, non provavo tristezza né pena.

Dietro quella coltre di sporcizia resisteva, tenace,una sorta di splendore opaco.

Regina possedeva il dono raro di conservare sempre una grande dignità,un’umanità intensa. Vera. Lo si capiva dagli occhi. Se per puro caso ti capitava di intercettare un suo sguardo era come rimanere trafitti da una luce improvvisa.

Due fuochi azzurri che balenavano nella penombra fresca della stazione e venivano a stanarti dovunque potesse nasconderti la tua falsa coscienza di persona perbene. Da quel momento lei esisteva. Persino per chi affrettava il passo quando c’era da passarle accanto. O per chi le lanciava un’occhiata obliqua che sapeva più di disprezzo che di compassione. Esisteva anche per chi fingeva di cercare una monetina in tasca da lanciarle, per poi tirare dritto con la coscienza più leggera.

Ma Regina era lì. Giorno dopo giorno. Immobile e certa come una divinità pagana. A ricordare a tutti che, come diceva sempre lei, “La vita è una puttana. La più cara, ma la più brava di tutte”.

Come tutte le divinità, Regina non possedeva un’età precisa. Certo il tempo ogni anno le aggiungeva nuove rughe intorno agli occhi, le affaticava il passo, la incurvava un po’di più sul suo carrello. Ma nessuno avrebbe potuto indovinarne l’età.

Con un vezzo che concedeva ancora qualcosa ad un’antica vanità femminile, Regina amava coprirsi con foulard colorati e vistosi, fuori moda come il suo nome, che sceglieva affidandosi infallibilmente all’umore della giornata.

La prima volta che la vidi ero solo un bambino. Trotterellavo accanto a mia madre che mi tirava per la mano, cercando di far conciliare il suo passo deciso da soldato con il mio da bimbetto in gita, pronto ad indugiare su ogni cosa mi circondasse.

Era la prima volta che vedevo una stazione. Allora abitavamo fuori Bologna in un casolare della bassa lungo la ferrarese. Un paradiso di assoluta libertà per un ragazzino di otto anni.

Venire in città costituiva sempre un piccolo evento. Nel freddo della mattina presto aspettavamo in silenzio la corriera. Io giocavo a fare nuvole col mio fiato caldo e di tanto in tanto scalciavo svogliatamente qualche sasso, cercando di centrare le pozzanghere ai lati della strada.

Ma quando alzavo lo sguardo su mia madre aspettandone il puntuale rimprovero, lei era altrove. Il suo sguardo era perso verso l’orizzonte lattiginoso da cui doveva comparire come dal nulla la corriera, ma io sapevo che non era quello che aspettava.

Mia madre possedeva un sorriso dolce e triste che le accentuava le due piccole rughe che cominciavano a formarsi intorno alle labbra, ma erano mesi che non glielo vedevo fare, neanche una volta.

Mio padre si era portato via anche quello il giorno che se ne era andato.

Ci aveva lasciato un po’ di soldi e un biglietto scarabocchiato in fretta, in quella sua calligrafia minuta e fitta dove le parole sembravano rincorrersi, accalcate e costrette.

Ogni sera, quando era da sola, mia madre se lo rileggeva e poi finiva col nascondersi il viso nel grembiule per soffocare i singhiozzi. 

Io ero lì, in pigiama, a piedi nudi, a sbirciarla dietro la porta della cucina. Ricordo soltanto quella sensazione di freddo ai piedi, passavo il peso da una gamba all’altra per stemprarlo. Credo di aver avuto quella sensazione di freddo per anni anche dopo.

Lei nascondeva le lacrime davanti a me, ma non ce ne era alcun bisogno, anche steso nel mio lettino avrei potuto sentirle. Le sentivo anche quando non c’erano.

Avrei voluto farle un sacco di domande allora, come solo i bambini sanno fare, ma avevo paura che mi potesse crollare davanti da un momento all’altro come se fosse fatta di sabbia.

Così finivo solo col guardarla in silenzio, pieno di tenerezza e di ossequioso imbarazzo. Attento ad ogni suo gesto, cercando di interpretarne i lineamenti. Improvvisamente induriti, più vecchi: le mascelle serrate, gli occhi umidi. Solo ogni tanto rompevo quella tacita tregua abbracciandola. Senza dire una parola, solo abbracciandola.

Mentre aspettavamo la corriera, in una mattina già fredda di ottobre, io vidi mia madre guardare altrove. Lontano. Oltre me, attraverso me, come se fossi all’improvviso trasparente.

Quando finalmente guardò nella mia direzione i suoi occhi si fermarono su di me gravi, pensosi. Le feci un sorrisino timido a cui lei rispose con una mano tra i capelli, fu la tenerezza breve di un momento. Poi abbassò la testa e la scosse, di nuovo rapita dai suoi pensieri.

Quella mattina eravamo diretti alla stazione perché mia madre aveva deciso di mettermi su un treno e spedirmi dai nonni paterni a Brescia. Si erano telefonati molte volte da quando papà era “sparito”. C’erano state litigate furiose, poi scuse, offerte di aiuto e nuovi strappi.

Alla fine di quel logorante negoziato si era deciso che io vivessi per qualche tempo da loro. Mi avrebbero mantenuto agli studi,vestito e nutrito. “ E’ il minimo che possiamo fare” e “ quel disgraziato di vostro figlio” erano le sole frasi che fossi riuscito a strappare, ma più che sufficienti per farmi un quadro di quel che mi aspettava.

Per molto tempo, nella mia immaginazione di bambino, si era cristallizzata l’idea che io fossi all’improvviso un peso per tutti. Mio padre se ne era andato per colpa mia. Forse lo avevo fatto arrabbiare troppo. E mia madre adesso mi metteva su un treno lasciandomi solo un panino al prosciutto e un bacio sulla fronte.

Mentre mia madre era in fila alla biglietteria io mi misi a giocare poco distante da lei, in un punto dove potesse vedermi.

Tra noi esisteva un patto tacito in base al quale io potevo allontanarmi da lei purché rimanessi nel suo campo visivo o al massimo a portata di voce.

E’così che facevamo la sera, quando era ora di cena ed io ero ancora a vagabondare per i campi o giocavo a calcio con gli amici, o ero arrampicato su un albero; dovunque mi fossi cacciato sentivo in lontananza la voce di mia madre, come un richiamo.

L’avevo vista talmente tante volte che non faticavo più ad immaginarmela: usciva sulla porta di casa,dava due rapide occhiate intorno e se per caso non c’ero, metteva le mani sui fianchi e cominciava a chiamarmi.

Tutto sembrava paralizzarsi a quel suono, modulato come un ordine. Le rane smettevano per un momento di gracidare come intimidite, le cicale si zittivano, il cane drizzava le orecchie attento, i miei amici fermavano il gioco come se un arbitro avesse fischiato la fine della partita.

Quella mattina però ruppi il patto. Forse fu per colpa di tutte quelle novità: il viaggio in corriera, la città,la stazione. Oppure era colpa di quel caos ordinato di persone dentro la cui pancia era così facile essere inghiottiti, perdersi, diventare invisibili. Tutti si spintonavano, sudati, sfilando via veloci, trascinando valigie. Forse lo feci solo per vendicarmi, perché mi sentivo tradito.

Fatto sta che quella mattina ero troppo lontano sia dallo sguardo che dalla voce di mia madre.

Fu allora che la vidi. Di fronte a me, dall’altra parte del binario, Regina era immobile e sembrava guardare proprio me. Fra tutta quella gente lei fissava soltanto me.

La mia curiosità di bambino fu attratta irresistibilmente da quel personaggio.

Guardarla da lontano come un miraggio e poi trovarmi rispettoso e muto davanti a lei fu un attimo. E’ così che ci conoscemmo.

Sollevò il suo sguardo su di me. Quel Blu di Prussia  scintillante in mezzo al viso sporco le dava un che di fieramente gitano. Ci guardammo in silenzio per lunghi secondi, ci studiavamo incerti. Bestie caute che si annusano.

Rompere per primo il silenzio sarebbe stato fatale. In quel momento mi aggrappai alle sole conoscenze storiche che possedevo: mi vennero in mente Tex, quando doveva negoziare col capo degli Apaches o Colombo quando si trovò di fronte ai primi indios.

Occorreva un’offerta, un dono di pace, di sottomissione. Altrimenti quella dea pagana dagli occhi vitrei, avrebbe potuto anche sfamarsi di me, lì sotto gli occhi di tutti.

Senza mai distogliere lo sguardo da lei, mi frugai in tasca. Tastai sotto la mano la scatola di latta delle caramelle candite e il soldatino di ferro da cui ero inseparabile.

Ecco un dono veramente prezioso, pensai. Lei lo capirà.

Tirai fuori entrambi e glieli allungai sul palmo aperto e incerto della mia mano.

Lei mi guardò seria, silenziosa. Un oracolo imperscrutabile. Senza alcun motivo il cuore cominciò a battermi in gola, non sbattevo più neanche le ciglia. Avevo paura potesse dubitare della mia sincerità, che si sarebbe messa ad urlare o a rincorrermi arrabbiata.

E invece, inspiegabilmente, mi sorrise, mi regalò il suo sorriso malandato e sdentato. Mi regalò tutto quello che possedeva.

Mi sentì stupidamente grato e felice senza alcun motivo al mondo se non quello di poter essere lì, con il privilegio di essere trafitto da quello sguardo straordinario e di venire dimenticato dal resto del mondo. Anch’io inghiottito dal tesoro di Regina, perché anch’io, come le sue cose, stavo per essere buttato via, dimenticato, lasciato su un treno.

Regina non avrebbe mai accettato un dono senza ricambiare in qualche modo. Comprendendo il valore simbolico dello scambio, voleva dimostrarmi che avevamo stretto un’alleanza a tutti gli effetti. Così cacciò la testa in uno dei suoi sacchetti di plastica, sollevandomi per un momento dal peso insostenibile dei suoi occhi.

Quando ricomparve, teneva tra le dita una fotografia in bianco e nero che sembrava venire da un altro secolo, da un tempo fantastico, immaginario. Le sue dita ossute mi offrivano la chiave per entrarvi.

 Nel prendere la foto, le mie mani sfiorarono le sue. Deve essere così, pensai, che si fanno gli incantesimi. Dal momento in cui toccherò questa foto sarò trasformato, o resterò intrappolato per sempre in quell’immagine.

La fotografia aveva margini dentellati, come si usava una volta, appena sbiadita nei contorni. Stropicciata dall’usura, dalle mani che l’avevano toccata, dagli occhi che l’avevano guardata prima dei miei. Raffigurava una donna dalle mani bianche e curate oziosamente appoggiate sul grembo. Indossava una stola di finta volpe, ad ostentare un’opulenza soltanto immaginaria, pretenziosa. Aveva capelli corvini e impetuosi, imbrigliati a fatica in un’acconciatura alta.

Lo sguardo era innocuo, perché il bianco e nero mitigava il fuoco di quella potente Medusa, tuttavia non faticai a riconoscervi Regina. I suoi occhi erano rivolti al vuoto, al futuro, devoti all’incerto, ma la sua aria era più sognante di quella di mia madre, così ardente di disperazione.

Avevo dimenticato l’esistenza del tempo e del resto del mondo, catturato da Regina. Fu una mano sulla mia spalla a ridestarmi, a farmi uscire da quella foto, dalla malia di quello sguardo. La mano mi strattonò con forza e quando mi voltai, ancora intontito, fui soffocato da un abbraccio muto, tremante. Prima di ogni altro indizio, riconobbi il profumo di quell’abbraccio, la sua familiarità. Era mia madre che, disperata, era venuta a cercarmi.

Aspettavo da mesi quell’abbraccio, il suo calore negato così a lungo. Era così felice di avermi ritrovato che non ebbe neanche la forza di rimproverarmi. Mi strinse a lungo, dondolandomi, come quando da piccolo mi cullava per farmi addormentare. Continuava solo a ripetere come una nenia: “non farlo mai più”. “Non farlo mai più”.

Forse fu per lo spavento di potermi aver perso, forse fu perché realizzò come sarebbe stato non avermi più a portata della sua voce, del suo abbraccio. Forse fu per merito dell’incantesimo di Regina, tuttavia mia madre decise di non mettermi più su quel treno. “Adesso torniamo a casa” mi disse debolmente offrendomi la sua mano gelata. Ed io la seguii, senza una parola, grato a quella mano venuta a ritrovarmi.

Mentre me ne andavo mi voltai ancora una volta verso Regina. Mi sorrise in un modo misterioso e magnetico, mostrandomi tra le dita il mio soldatino di ferro.L’ultima conquista del suo prezioso tesoro.

 

 

 

 

 

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Come promesso...ecco il frutto dei miei sforzi letterali   Regina     Si chiamava Regina. Con quella crudeltà naturale che solo il Caso a volte sa avere, si ritrovava un nome davvero ingombrante per una barbona. Era ancora lì dove l’avevo lasciata l’ultima volta,  nel suo angolo...
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09/09/2007 22:52:59
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Commenti

  1. chiaraoscura 10 settembre 2007 ore 23:29
    ... lineare e poetico.
  2. Mau.P 10 settembre 2007 ore 23:49
    sono contento che sia terminato il digiuno di parole. "Regina" è bellissimo. Ma non è una novità, che ciò che tu scrivi sia emozionante. ;-)
  3. OdioLeIpocrisie 11 settembre 2007 ore 12:40
    L'ho già letto da qualche parte, mi sembra. :-)) Era ora.
  4. Ack13 12 settembre 2007 ore 15:20
    brava. Ci sarebbero anche i presupposti per farlo continuare :-))
  5. ILREGOLATORE 12 settembre 2007 ore 19:08
    cercando un blog d'autore. Mi sono fermato volentieri

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