
Ci sono dispiaceri che si sono talmente estesi da trasformarsi in identità, e perennemente esposti sembrano guarire. Ma poi, quando il tempo cambia, la cicatrice ricomincia a dolere.
Di quei dolori accumulati nel corso di una vita e che quando non riescono a dirsi, o si dicono male, si trasformano in vergogna corrosiva, in un lutto che non ha mai fine perché mai viene riconosciuto e perché mai, in alcuni casi, potrà concludersi per sempre, giacché sempre verrà riattivato da qualcosa che lo ricorda: una parola, un timbro di voce, una giornata uggiosa.
Ed ogni volta si accompagnerà all’incapacità di dirsi, al timore di nominarlo ed essere respinti per la propria ferita purulenta.
Tristezze di cui non parliamo più per non saturarle, per non svenderle, forse addirittura perché ne abbiamo in qualche modo bisogno, ma che cambiano le fisionomie e curvano un po' le spalle.
Le portiamo dentro come certi silenzi pieni, che non si dicono per paura di spegnerli. Tristezze diventate struttura, necessarie forse, ma mai del tutto innocue: cambiano le nostre linee e il nostro modo di restare.
E non smette mai davvero. Ti si accuccia dentro, ti cammina accanto, e a volte basta un odore o una frase per farla risorgere intera, feroce, come se non fosse mai passata.
E quanto coraggio serve, per arrendersi.
https://youtu.be/fafsQekGRm0?si=tQoWBtIBPYYLpYQO
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