Nella vita ho preso a calci palloni fin da quando mi ricordo di avere i piedi, e non mi stupirebbe sapere che mia madre da questo punto di vista ha avuto una gravidanza travagliata. Sui campi di calcio e nei relativi spogliatoi ne ho viste e sentite di tutti i colori. Dalle giovanili fino al girone infernale del calcio amatoriale, che è una specie di discarica dove finiscono quelli che dopo le giovanili non proseguono una "carriera" ma vogliono comunque continuare a dare calci al pallone, quelli che una specie di carriera in categoria l'hanno fatta ma per motivi anagrafici non possono più restarci, quelli drammaticamente, decisamente, incontestabilmente troppo brocchi. In quale delle categorie io mi collochi non ve lo dirò mai. Come dicevo, sui campi amatoriali ho visto scene deliranti, sentito bestemmie epiche, vissuto momenti impagabili. Si giocava su terreni dove il manto erboso era un miraggio, li definirei risaie o campi di patate se non fosse offensivo per riso e patate. Il giorno deputato a questa perversione era la Domenica mattina, e sullo stesso campo a volte si giocavano tre partite consecutive nell'arco di una mattinata. Il che costringeva a orari barbari e improponibili, tipo il temutissimo 8.30. E se non avete mai provato a scendere su un campo ghiacciato di brina a quell'orario in piena pianura padana, non sapete cosa vi siete persi. Un giorno forse ci farò un post apposito, se non addirittura un ciclo. Oggi, per motivi che non sto a spiegarvi, mi è tornato in mente un episodio.
Partita di alta classifica, naturalmente si fa per dire con le dovute proporzioni. Una cosa tipo scontro al vertice, loro primi e noi secondi. Giochiamo contro una squadra forte, che ha un attaccante bravo, grande e grosso. Da noi soprannominato per la stazza dopo la partita di andata "Caribù", non dico altro (un giorno, scriverò un post anche sui soprannomi nelle squadre di calcio).
Bisogna bloccarlo. Negli spogliatoi ci guardiamo in faccia e individuiamo il difensore che se ne dovrà prendere cura. "Dai, Caribù lo marchi tu, mi raccomando, se lo fermi vinciamo, è l'unico pericoloso, stagli addosso come un mastino, non devi fargli toccare palla". Andiamo in campo, primo tempo non male, riusciamo a segnare un gol. Nel secondo tempo ci mettiamo in trincea a difendere il vantaggio, schiacciati in difesa, una resistenza eroica fino agli ultimi cinque minuti. Quando si scatena Caribù, che fino a quel momento era stato annullato dal suo marcatore. Riesce a prendere una palla, slalom in mezzo alla nostra difesa, gol. Pochi minuti dopo, partita quasi finita, punizione dal limite per loro. Caribù fulmina i compagni con lo sguardo e dice gelido "Questa la tiro io". Agguanta il pallone, lo appoggia per terra facendo tremare il campo, prende la rincorsa e spara una mina sotto la traversa su cui il nostro portiere si guarda bene dal mettere le mani. Gol, fischio finale, perdiamo 2-1.
Mesto rientro negli spogliatoi, un po' di incazzatura, ma tutti sappiamo che la robusta reidratazione alcolica che seguirà ci risolleverà il morale. Vedo il nostro terzino sinistro, il marcatore di Caribù, accasciato sulla panca con lo sguardo perso. Cerco di consolarlo, in fondo hai fatto tutto il possibile, per quasi tutta la partita non era stato pericoloso, lo sapevamo che era forte, dai non prendertela. E lui mi guarda tristemente e mentre si infila le scarpe rilascia una sentita, vera, affranta dichiarazione, come se avesse avuto una illuminazione.
"Ma chi cazzo se ne frega di Caribù e della partita. Ma ti rendi conto che io mi sono svegliato alle sette di una domenica mattina per venire qui con un freddo della Madonna, mettermi in mutande e passare un'ora a cercare di impedire di toccare il pallone a un altro tizio in mutande che si era svegliato alla stessa ora?".
Prende il borsone, non fa la doccia, infila la porta scuotendo la testa e scompare senza dire una parola. Non è mai più venuto a giocare a calcio.
Partita di alta classifica, naturalmente si fa per dire con le dovute proporzioni. Una cosa tipo scontro al vertice, loro primi e noi secondi. Giochiamo contro una squadra forte, che ha un attaccante bravo, grande e grosso. Da noi soprannominato per la stazza dopo la partita di andata "Caribù", non dico altro (un giorno, scriverò un post anche sui soprannomi nelle squadre di calcio).
Bisogna bloccarlo. Negli spogliatoi ci guardiamo in faccia e individuiamo il difensore che se ne dovrà prendere cura. "Dai, Caribù lo marchi tu, mi raccomando, se lo fermi vinciamo, è l'unico pericoloso, stagli addosso come un mastino, non devi fargli toccare palla". Andiamo in campo, primo tempo non male, riusciamo a segnare un gol. Nel secondo tempo ci mettiamo in trincea a difendere il vantaggio, schiacciati in difesa, una resistenza eroica fino agli ultimi cinque minuti. Quando si scatena Caribù, che fino a quel momento era stato annullato dal suo marcatore. Riesce a prendere una palla, slalom in mezzo alla nostra difesa, gol. Pochi minuti dopo, partita quasi finita, punizione dal limite per loro. Caribù fulmina i compagni con lo sguardo e dice gelido "Questa la tiro io". Agguanta il pallone, lo appoggia per terra facendo tremare il campo, prende la rincorsa e spara una mina sotto la traversa su cui il nostro portiere si guarda bene dal mettere le mani. Gol, fischio finale, perdiamo 2-1.
Mesto rientro negli spogliatoi, un po' di incazzatura, ma tutti sappiamo che la robusta reidratazione alcolica che seguirà ci risolleverà il morale. Vedo il nostro terzino sinistro, il marcatore di Caribù, accasciato sulla panca con lo sguardo perso. Cerco di consolarlo, in fondo hai fatto tutto il possibile, per quasi tutta la partita non era stato pericoloso, lo sapevamo che era forte, dai non prendertela. E lui mi guarda tristemente e mentre si infila le scarpe rilascia una sentita, vera, affranta dichiarazione, come se avesse avuto una illuminazione.
"Ma chi cazzo se ne frega di Caribù e della partita. Ma ti rendi conto che io mi sono svegliato alle sette di una domenica mattina per venire qui con un freddo della Madonna, mettermi in mutande e passare un'ora a cercare di impedire di toccare il pallone a un altro tizio in mutande che si era svegliato alla stessa ora?".
Prende il borsone, non fa la doccia, infila la porta scuotendo la testa e scompare senza dire una parola. Non è mai più venuto a giocare a calcio.
Scrivi commento
Fai la login per commentare
Accedi al sito per lasciare un commento a questo post.