Perchè nessuno odia gli eschimesi?

09 aprile 2008 ore 10:08 segnala
Ale è pronto allo scontro frontale. Quando le cose non vanno come dovrebbero non ascolta ragioni: abbassa il cimiero e parte lancia in resta per l’ennesima crociata a difesa delle sue ragioni. E’ l’oplita del diritto, il pistolero dell’onore, il kamikaze della virtù. Issa la Jolly Roger sull’albero maestro, cala la benda sull’occhio  e che parlino i cannoni.

La sua rabbia stride con la calma angelica di una giornata finalmente primaverile. Ci vorrebbe l’ispirazione di un visionario per chiamare onde le leggere increspature del lago. La sagoma scura del castello di Bracciano sorveglia l’orizzonte mentre i cigni, si sa, rendono l’atmosfera magica, quasi da leggenda romantica. Si dimentica sempre, però, che sono stronzi come tacchini e che si comportano conseguentemente. Il sole di mezzogiorno rimbalza sull’acqua per picchiare meglio contro le mie retine: urgono occhiali scuri.  Siamo sui lettini messi a disposizione dal ristorante. Nessuno intorno. L’impeccabile prato inglese termina a pochi centimetri dalla riva dove tre papere si stanno annusando le ascelle. Nell’aria i bruchi fanno piroette con le nuove ali colorate. Un udito super fino potrebbe sentirli ridere. Adoro la primavera: è una promessa d’estate. Leggera e capricciosa come le promesse, ti sfiora e si ritira, ti convince e ci ripensa. Poi un giorno di maggio si concede tra il verde del grano già alto e l’ombra  di foglie ancora tenere.  Il tempo di un sorriso e se ne va con un alito di vento e l’ennesima promessa lunga un anno. (bella, vero? L’ho comprata su e-bay)

Ale è arrabbiatissimo con la ex moglie.

-“La casa è mia, ci vive lei e le ristrutturazioni devo pagarle io. E intanto sto in affitto in quel cavolo di buco. E’ assurdo.” Continua a sdraiarsi per poi rimettersi seduto. Mi fa pensare alla biella di un locomotore.

-“Sai cosa c’è?” continua imbestialito “non le do più un centesimo. Mi facesse chiamare dall’avvocato”

Non lo farà. Lo conosco da trenta anni. Sono ancora legati da una solida amicizia. Si vogliono bene anche se hanno smesso da tempo di amarsi. Quando gli capita di venire a sapere che qualche androide le gira intorno, Ale per qualche giorno perde un po’ di brillantezza.

Sono di ottimo umore, così decido di farlo infuriare:

-“Bravo, bellissima idea” lo canzono “ sono proprio quelli sicuri di sé, quelli che passano col verde a tutto gas certi dei loro diritti le vittime preferite dei pirati che passano col rosso. Vai a spiegargli che avevano tutte le ragioni quando li raccatti”.

Resta per un attimo pensieroso poi mi chiede:

-“Che cazzo stai dicendo, cosa vuoi dire?”

-“Eeehh … lo sai bene. Tu mi hai capito”.

-“Ma che esempi fai?” improvvisamente si illumina, capisce e sbotta:

-“La colpa è mia che ancora ti do retta! Con te si deve parlare solo di culi e fesserie”

-“Culi e fesserie sono in antitesi. Andiamo a pranzare?”

-“Aspetta, finisco il prosecco”. Si accomoda su lettino tenendo con due dita il gambo del flute, lo sguardo apparentemente perso sulla superficie del lago.

“Pescatori” osserva, indicando una barchetta lontana “ma è vero che sono vietate le barche a motore?”

-“Si, solo motori elettrici e vela. Però non so se ai pescatori è concesso un piccolo motore  a scoppio”

-“E’ partito il languore. Andiamo” mi informa ingoiando l’ultimo sorso.  Si è calmato. La virtù principale del mio decennale amico è la capacità di recuperare rapidamente da un momento di contrarietà. Va a scompartimenti: ogni cosa ha il suo tempo. Una mente dinamica imprigionata in una fisicità da bradipo. Apparentemente pigro e indolente, spesso si  illumina con lampi di ironica genialità.

Ci dirigiamo verso la pergola che in realtà è una larga banchina in legno scuro, sospesa a pelo d’acqua. Un salice si fa aiutare dal gelsomino per farci ombra. Arriviamo al tavolo che avevamo prenotato decidendo per un bianco: la mia proposta per un profumato Terre Bianche viene bocciata da Alessandro. Lui propende per un Greco di Tufo. Accetto perché il sentore di zolfo del vino irpino si coniuga con le origini vulcaniche del lago. Sono i dettagli ad insaporire le giornate, di questo ne sono convinto.

Ci sediamo e veniamo subito accolti da una scarica di antipasti freschissimi. Idealmente calziamo l’elmo a punta e cominciamo a divorare come soldati prussiani in libera uscita dopo tre mesi di trincea. Terminati gli antipasti parliamo del più e del meno nella speranza dell’avvento di un cameriere. Finalmente arriva: è un cicciottello dall’età indefinibile che avanza inarcato all’indietro. Vorrebbe compensare la poca altezza assumendo un aspetto marziale, da conquistatore delle Gallie. Purtroppo esagera ed il risultato è quello di sembrare uno che si è svegliato con  un paio di vertebre in meno e una decina di costole in più. Impenna. Inoltre questo modello non prevedeva ginocchia: scivola sul pavimento di assi come un ectoplasma.  Il salvagente colorato che usa come gilet dovrebbe dargli un’aria elegantemente frivola mentre il papillon segna, sbagliando,  le 8 e 10.

-”Buongiorno signori, cosa ordinate?”

Lo guardiamo con un sorriso che da simpatico scade lentamente in ebete. Dopo qualche secondo passato con l’espressione del tizio che ha appena avuto la sfortuna di accendere la miccia ad un fuoco d’artificio pericolosamente difettoso, rompo gli indugi e gli domando:

-“Cosa c’è di buono?”

-“Abbiamo tante cose” generalizza  con un sorriso compiaciuto

-“Ci faccia un esempio” incalzo, mentre comincio ad irritarmi. Odio i camerieri riluttanti, gli omertosi del menù, i guardiani della dispensa.

-“Beh, abbiamo i primi …”

-“Poi i secondi …” fa Alessandro che probabilmente deve esserci già venuto

-“E’ un passo avanti apprezzabile. Adesso ci parli dei condimenti” Se ora scoprissi Kermit, la rana dei Muppet Show, seduto al tavolo accanto al nostro probabilmente mi limiterei a chiedergli l’autografo.

Lentamente e con enorme sforzo ci snocciola l’elenco delle specialità a disposizione. Ogni piatto enunciato  tra enormi pause fa il rumore di un sasso che cade in una scodella di metallo. Con le sopracciglia lo incoraggiamo: dai che ce la fai, dai che sei bravo quando ti applichi! Gli agiterei una carota davanti al muso a questo somaro della ristorazione. Il parto è di sette mesi: molto al di sopra delle sue possibilità, appena sufficiente per le nostre fantasie da predatori. Terminata l’operazione mi appoggio allo schienale della sedia come un’ostetrica esausta che soffre di vene varicose. Ordiniamo e lui appunta tutto a mente. Provo pena per quel povero neurone carico come uno sherpa. Chissà se riuscirà ad arrivare in cucina senza far crollare le pila di informazioni che lo sciagurato cameriere gli ha assegnato?

Più tardi torna per portarci il conto che avevamo chiesto. Sul tavolo lascia una serie di gadgets:

-“Un piccolo omaggio” sorride contento “Per farci conoscere. Sapete, abbiamo aperto da poco”

-“Ah, grazie” gli dico, mentre controllo la mercanzia per pura cortesia: due penne, un foglietto con la cartina della zona, un calendario tascabile, due biglietti da visita, un portachiavi in plastica, salviettine profumate al limone, una bustina sigillata contenente un preservativo ‘ritardante per lui-stimolante per lei’.

-“Eh, no! Questo è mio. Scusate.” esclama arpionando l’involucro del suo vettore.

-“Si vergogni!” protesta Alessandro con serietà esagerata “alla sua età fa ancora queste cose?” gli chiede fintamente indignato.

-“… mi dispiace … non so come sia potut… “ balbetta imbarazzato

“Perché non si sposa?” lo incalzo accigliato mentre si sta allontanando mortificato

-“Eeeh … lo so io perché”  mi fa Ale strofinando pollice ed indice, riferendosi di nuovo alla ex moglie. Ma questa volta ride.

-“Andiamo a prendere un po’ di sole?” propongo alzandomi

-“Ok”

Torniamo ai nostri lettini sul prato dopo aver chiesto un cestello con ghiaccio contenente un esemplare di Vedova Cliquot da consumare senza fretta. Nel tepore della primavera.

Notturno

02 aprile 2008 ore 02:16 segnala
Sono rientrato da poco. Ho trascorso una serata tranquilla a casa di Giovanni: due bottiglie di chianti nella luce tenue della lampada del salotto ed un film in tv snobbato per parlare del suo prossimo viaggio. Il tavolino davanti al divano era zeppo di libri e cartine. Partirà la prossima settimana per il Vietnam. Ho cercato fino allo stremo di tener duro ma alla fine ho capitolato: era impossibile resistere e non avvertirlo di non farsi mai e poi mai lucidare le scarpe da un “charlie”. Giovanni si è limitato a sorridere mentre  sghignazzavo soddisfatto della mia profonda arguzia.  Comunque, non mi ha cacciato.

Ora sono su questo letto sconfinato a scrutarmi le gambe come un orango durante la toilette quotidiana. Ho ancora l’accappatoio umido mentre Mtv sta trasmettendo uno speciale dal probabile titolo “Nenie e strazi con balletti sexy”.  Ho sempre qui con me un gesto volgare di insofferenza da dedicare alle interpreti cotonate che ballicchiano accompagnate da un manipolo di sciampiste agguerrite. Le mossette, gli ancheggiamenti, gli ammiccamenti, i “Guarda un po’ cosa ho qui?”, le “O” di Giotto disegnate sul pavimento con invisibili pennelli ficcati chissà dove, i gesti netti davanti ad occhi languidi, colonne vertebrali che disegnano un otto mostrando però sempre la base,abiti un milionesimo di millimetro troppo lunghi, la pelle laccata, i rossetti al neon e l’aria di una che, non credere: fa la peperina perché ti vuole forte. Ti conosce e  sa perfettamente quanto tu lo sia. O ritieni di esserlo, tanto è lo stesso.

Se le ascolti, non esitano a definirsi ‘artiste’ . Artiste? L’arte è novità ed interpretazione. Dov’è la novità in una gnocca che sculetta per soldi e fama? Forse quelle coreografie da“Giornata Nazionale della ginnastica” a Pechino sono classificabili come interpretazione?  Sono ‘cantanti’ e già questa definizione gli va larga come  il Teatro Tenda per un boy scout in missione solitaria.

Spengo la tv e raccolgo da terra il tomo di storia assira che sto cercando di finire: “Assurbanipal: l’importanza di non tirarsi i libri almeno fino a quando inventeranno la carta”. Lo poso vicino a me, non ho molta voglia di aprirlo come disse il giovane medico alla sua prima autopsia.

Sistemo il cuscino sullo schienale in ciliegio sintetico, mi tolgo finalmente l’accappatoio per dedicarmi all’imitazione del Cristo Morto . Ma, ovviamente, sono vivo. Come capita a tutti gli uomini vivi sdraiati su un letto, possessori di pollice opponibile, la mano scende a cercare vecchie conoscenze. Sono rari i fanti che resistono a questo richiamo innato. Tu dagli un solo minuto di noia solitaria ed eccoli là a maneggiare l’idrante spara-girini. Spesso non lo fanno con l’intento di prendere una scorciatoia per i Giardini dell’Eden mentre il loro cinema privato proietta “La moglie del mio amico”. Lo fanno solo come gesto automatico che aiuta le riflessioni. C’è chi si attorciglia i boccoli e chi si attorciglia altro. Naturalmente preferisco dare la mano o ricevere una carezza da chi gioca con i capelli, neanche a dirlo.

Do un’occhiata all’orologio: mezzanotte è passata da pochi minuti. Un’ora bislacca. Troppo tardi per uscire, troppo presto per dormire. Mi sfiora l’idea di fare qualcosa ma qualcuno deve aver  nascosto un vagone di kriptonite in questa stanza. Non muovo un muscolo. Beh, quasi.

Prendo atto di questo stato di pre-torpore vagando nei miei pensieri con la leggerezza di un cambio di stagione. La rotta è quella dei ricordi che, come tutti sanno, per percorrerla si procede in retromarcia. Mi fermo a Senigallia, dai nonni paterni. Loro passavano lì l’estate e quella volta mi portarono con loro. Dopo una settimana mi avrebbero raggiunto papà e mamma. Ero contento, mi piaceva quella situazione insolita. In più non avevo tanta confidenza con quei nonni e il clima di affettuosa cortesia lo trovavo armonioso. La mattina nonno mi portava al bar sul lungomare dove potevo divorare il mio bombolone quotidiano. Mi sembrava molto buffo chiamarlo ‘bombolone’. A Roma  si chiama solo ‘bomba’ , quell’accrescitivo mi suonava come un’esagerazione. Almeno fino al momento del primo morso: Senigallia disintegra Roma 10 a 0. Le partite a carte di pomeriggio, all’ombra della pergola. Nonno mi faceva vincere per ore. Solo ora ho l’occasione per ringraziarlo di aver avuto la pazienza che i nipoti non possono apprezzare.

(In ogni storia c’è il momento lento e palloso. Quindi inghiottite il pezzetto dei nonni senza fare tante lagne)

Smetto di trastullarmi il periscopio per spostare le mani sotto la testa. Lo so, mi addormenterò con la lampada accesa, la spegnerò tra un sogno e l’altro. Queste sono le  notti durante le quali mi accorgo del silenzio che ronza nella mia casa mentre questo letto diventa sempre più  grande.  Così penso seriamente che forse dovrei comprarmi un gatto. Proprio così. Ci sono molte persone che ospitano gatti. Li trattano con il rispetto più assoluto:  gli comprano le scatolette di Sheeba (che tra l’altro è il nome di un ottimo coffeeshop  di Amsterdam.) che costano l’equivalente di un pranzo  di nozze in qualche villaggio molto a sud; li rinchiudono in 70 metri quadri per tutta la vita; li costringono con perfida crudeltà alla castità più maligna.  Loro, i gatti, si sanno vendicare: se solo sfiorano una pietanza un pochino più proletaria, vomitano come alcolizzati. Non sia mai gli capiti di incrociare un topo. Urge visita dal veterinario nonché seduta dallo psicologo.  I gatti veri cacciano le lucertole, tampinano le serpi, terrorizzano i topi. Gli avanzi sono l’apprezzato ringraziamento. Quei piccoli zombie da salotto, invece, hanno perso ogni dignità felina. Se proprio non puoi fare a meno di accarezzare qualcosa che sia peloso mentre subisci la tv, non ti serve un prigioniero. E’ sufficiente allungare un po’ la tua mano e strofinarti lentamente. Se sei malauguratamente calvo, puoi sempre fare la prova con quello che stavi pensando una riga più su.

Dalla finestra aperta arriva il suono della sirena di un’ambulanza. La sento passare l’incrocio a mach 3. Se continua con queste andature non le servirà un ospedale ma un aeroporto. Li immagino con i caschi lì dentro. Quando scenderanno saranno tutti più giovani di qualche giorno. Il ferito non sarà più tale e tornerà a casa con l’autobus sorprendendo la moglie mentre sta spiegando che l’età non conta al figlio dei vicini.  

Devo far vedere la macchina. Quell’inquietante toc-toc è presagio di sinistre avventure. Domani pomeriggio la porto da Dracula. Ah, devo anche preparare la borsa per la piscina. Uhm … Claudia … mica male Claudia … domani … chissà se c’è? … boh …….

Shhhh!

A domani.

Mattina

19 marzo 2008 ore 00:06 segnala
Ogni tanto è piacevole fare la doccia gelata: sveglia, tonifica e rinvigorisce.  Passi rapidamente da ‘rosso’ a ‘blu’ e cominci a sbuffare come una megattera che si sta strozzando con una busta di plastica. Poi lentamente ti abitui, ti plachi e immagini limpidi laghetti circondati da conifere, farfalle, uccellini e profumo di resina.

Farla sempre gelata rompe un po’ le scatole .

La scorsa settimana ho chiamato un tecnico per cercare di dare finalmente un senso all’esistenza della mia caldaia riluttante. Ha tolto lo sportello di metallo, ha guardato e, oscillando con la testa, ha toccato con un cacciavite quello che a noi cialtroni non è dato sapere e poi ha richiuso. Mentre sorseggiava il caffè che gli avevo preparato non ho potuto fare a meno di scrutare l’enorme borsone degli attrezzi che aveva portato con sé: più di venti chili tra chiavi inglesi, martelli, pezzi di tubo, guarnizioni, dadi e viti. Tutto l’occorrente per costruire la copia fedele della ruota del Prater. Anche tra i professionisti c’è la mania del superfluo, l’ossessione del ”Se avviene l’impensabile?”. Come quei fissati che, partendo per Dublino o Alghero, non possono fare a meno di portarsi un beautycase ingolfato di tutte le medicine in commercio. Viaggiano a copertura totale, in perfetto assetto asettico, se è permesso il gioco. Armati e corazzati, pronti a tutto: dalla zigulì alla prugna,  al Kit per ferite d’arma da fuoco. Un peso enorme.  Spiegaglielo, se hai pazienza e coraggio che anche lì dove andranno esistono farmacie meravigliose stracolme di pillole di tutti i colori e di sciroppi all’ultimo grido. Non ti daranno retta e sosterranno avvicinandosi minacciosi e roteando gli occhi che “È il Demonio che parla per te! Se tu muori, Lui muore!”

E’ servito solo un piccolo, insignificante cacciavite a punta semplice. Un piccolo cacciavite che ha fatto un quarto di giro. Un quarto di giro che mi è costato 80 euro anziché 120 “solo perché ero io”. 320 euro per un giro completo se sei un simpaticone, 480 se gli stai sulle palle.

Dopodiché l’Artista ha arpionato i dobloni, ha raccattato il borsone e, prima di evaporare, si è fatto dire ‘Grazie’ un paio di volte. Invece di una ricevuta ha preferito lasciarmi una vigorosa stretta di mano ed una pessimistica considerazione:

-“E’ vecchia” indicando col mento la caldaia.

-“Ma l’ho cambiata quattro anni fa”

-“E’ vecchia”

Augh grande capo.

Ovviamente ho subito pensato di aver sbagliato lavoro. Avrei dovuto tentare con le riparazioni. Non serve molto: basta avere un piccolo ufficio, un telefono, un’agenda, un divano, una segretaria svampita in minigonna, un borsone con venti chili di ferraglia, un cacciavite a punta semplice e una federa da cuscino come portafogli.

Intanto ieri la caldaia ha di nuovo stentato, oggi vedremo.

 

Poco meno di due ore: è ancora presto per prepararsi. Giro per casa a piedi nudi tenendo in mano una tisana rilassante alla canna da zucchero mentre eseguo il nulla: tocco un cd, guardo la copertina di un libro, apro e richiudo il frigo tante volte da rischiare la pleurite, mi faccio vedere in mutande davanti alla finestra. Il sommo relax.

Il citofono.

-“Si?”

-“Ciao Max, sono Marco. Ti disturbo?”

-“Ohi, Marco! Per niente. Sali.”

-“Ok”

Marco è un caro amico, di quelli che se improvvisamente sparissero rapiti dagli alieni, te ne accorgeresti venti anni dopo, riguardando vecchie foto. E’ bravo, è buono, è bis ma è come l’arsenico per Rasputin: va preso a piccolissime dosi. Lui è il serafico, il calmo,  il Signore dei “Vabbeh”,  è il lago senza vento, è il Mare della Tranquillità in una notte di eclissi di luna, è il “folle” tra la seconda e la terza,  è la quiete tra lampo e tuono, è la tregua che irrita, è l’homo habilis che si accontenta mentre si percuote la testa con un femore. Lui è l’inconsapevole innesco della furia del genere umano.

Negli ultimi tempi lui e Silvia, sua moglie, non navigano più col Gran Pavese issato. Lei circa un anno fa ha finito la dose di pazienza e si è invaghita del ragazzo del bar sotto il suo ufficio: un esemplare terrificante che avrebbe potuto strangolare il Lombroso con il suo stesso centimetro da sarto. La storia durò quel tanto che servì al cupo cantautore a vantarsi dell’ impresa con la popolazione della locanda e così tutto il clamore rientrò tra le mura domestiche con la dovuta fatica. Non c’è stato uno solo tra i suoi amici, me compreso, che non abbia più o meno manifestamente applaudito a Silvia.

-“Ehi, come mai da queste parti?” lo accolgo.

-“Ma lo lasciano sempre aperto st’ascensore?” boccheggia.

-“E’ la vecchia di sopra.”

-“La gattara? … cci sua!”

-“Ultimamente ha allargato l’azienda: non solo gatti ma anche piccioni. I gatti li sopporto a stento, i sorci volanti no. Entra. Cosa prendi?”

-“Solo due minuti!” supplica, poi aggiunge.

-“ … un caffè. Tu cosa stai bevendo?”

-“Matusalem”

-“No. Ce l’hai il caffè?”

-“… è pronto dall’altro ieri! Prendi il Matusalem”

-“Non lo voglio, è da poco passato mezzogiorno . Una coca cola, una fanta, un succo di frutta …”

-“Niente: ho le macerie in frigo! “ Ormai si è impuntato e pur di non cedere, piuttosto che bere Rum, accetterebbe qualsiasi altra cosa purché allo stato liquido: dall’acqua al mercurio del termometro.

-“Ok, dammi il rum” mi spiazza. Lo dicevo io che é irritante.

-“Novità?” chiedo, perché so anche essere socievole, mentre ne verso un dito nel tumbler

-“Qualcuna” fa lui laconico, poi aggiunge tutto d’un fiato “Sono venuto da queste parti per comprare un telefono nuovo … Con Silvia è finita …”

-“Cosa?”

-“Si, abbiamo deciso di separarci”

Spegnete le luci in sala, occhio di bue sul sipario! Lei non ha più retto e lui ha subito scelto me per i suoi racconti Harmony. Ci sono due cose che ritengo irresistibilmente avvincenti: le pene d’amore dei miei contemporanei e una qualsiasi tappa del Giro D’Italia dopo un pranzo esagerato. Per strapparmi al torpore bisognerebbe picchiarmi con un remo da scialuppa. Con rapidità indosso una maschera inespressiva come la cella di una giovane suora di clausura (sempre che non si opti di rovistare con eccessiva curiosità sotto al materasso). Ci sediamo uno di fronte all’altro così  Marco può iniziare il suo racconto alternando brevi frasi con lunghe pause. Lentamente il suo monologo diventa agile, è più spedito, più sicuro. Non lesina particolari che ritiene fondamentali per far comprendere fino in fondo il suo dramma. Probabilmente adesso lo aiuterebbe molto avere a fianco un cartellone con la raffigurazione dei momenti topici della sua vita con Silvia. Io lo guardo intensamente ma non ascolto. Mi rifiuto di ascoltare incomprensioni da tubetto di dentifricio schiacciato a metà. Purtroppo per Marco non ho simpatia per  gli strazi d’amore. E’ un difetto, lo riconosco. Anche a me capita di  guardare la luna ma non le alito malinconicamente sul muso. Preferisco inspirare profondamente e ormai lei sa perfettamente che deve tenersi forte.

Improvvisamente percepisco il silenzio, il ronzio è  cessato. Sì, centralino?

Marco esamina nervosamente il polsino della camicia e approfittando della mia apparente partecipazione, prende bene la mira, poi mi spara a bruciapelo“Cosa ne pensi?”

Bella domanda. Cosa ne penso riguardo cosa? Non ero molto attento.

-Beh … sai … quello che ora sembra confuso potrebbe esserlo solo in apparenza. Magari facendo un passo indietro tutto diventa chiaro  e più decifrabile … cosa vuoi sentirti dire?”concludo arrendendomi con onta e disonore.

-“Hai ragione, credo che …” senza dar peso al mio sgomento da alunno impreparato, riparte al galoppo nei suoi labirinti privati urtando a destra e a manca. Bene, approfitto e mi riprendo ancora qualche istante di vacanza. Dovrei andare a comprare qualcosa che sia perlomeno presentabile da tenere nel frigo. Potrei fare un salto al supermercato non appena questo muezzin scenderà dal minareto.

-“… mi dispiace tormentarti ma volevo parlarne con te.” Conclude finalmente.

-“Figurati. Mi fa piacere”

-“Ti va di accompagnarmi a comprare il telefono?”

-“Volentieri ma stavo per prepararmi. Ho un appuntamento, tra poco esco.” non mento.

-“Ok. Ti chiamo domani, magari organizziamo una pizza … ” Proprio quello che più desidero: una pizza mentre assisto a tre ore di soliloquio.

-“Perfetto. Oh: su con la vita, vedrai che presto si sistemerà tutto, Ne sono certo” gli auguro poco convinto.

-“Speriamo. Ci credo poco” commenta sconsolato, mentre lo accompagno alla porta. Adesso mi fa un po’ tenerezza vederlo scendere le scale. Immagino il suo smarrimento. La giornata da riempire senza sapere dove andare o cosa fare.

-“Marco!”

-“Eh?” mi risponde dal piano di sotto

-“Se ti accompagno a comprare il telefono, tu mi dai una mano a fare la spesa?”

Si riaffaccia alla rampa di scale 

-“Certo! E il tuo appuntamento?”

-“Si rimanda. Sali, faccio la doccia e andiamo. Sei venuto in macchina?” gli chiedo avviandomi verso il bagno.

-“No, con lo scooter. Sbrigati che chiudono. Intanto preparo un aperitivo.”

-“Braavo. Faccio in un attimo.”

Entro in bagno pensando all’appuntamento saltato mentre tento di ignorare il mio lato ‘Harmony’ che in occasioni come questa si sbraccia. Difficile sapere se lo faccio perché lo sento o solo perché va fatto. La notizia che Marco e Silvia si separano mi fa un baffo; vedere il quieto Marco che brancola per la città, invece, mi fa tristezza. Inutile accalorarsi, spesso le nostre azioni non meritano elucubrazioni appassionate: siamo così e punto.

Intanto la doccia è di nuovo gelata ed io conosco parolacce articolate e bellissime da dedicare ad un tizio che si professa tecnico e gira per la città con un cacciavite a punta semplice.

E' sera

01 marzo 2008 ore 23:55 segnala
Alla fine di una giornata gelida e dura, finalmente entro nel letto cercando quel  piacevolissimo brivido delle lenzuola ancora fredde . Per qualche istante si improvvisa una festa per ogni singola cellula: tutte a tirar il cappello in aria. Percepisco le tenere  contrazioni dei  muscoli mentre provano  un girotondo. Mille impercettibili movimenti per scaldare e sistemare il nido.

Si sorride con serenità.  Si riposa finalmente. Ci si vuol bene.

Tutto scorre ... .. .

30 gennaio 2008 ore 22:26 segnala
Certe mattine provare ad uscire da Roma senza detestare l’intera cittadinanza è come mangiare fichi e tentare di sputare tutti i semini.  Esiste soltanto una cosa più agghiacciante: provare ad entrarci. Da più di 40 minuti stiamo cercando di arrivare allo svincolo che porta alla libertà. Abbiamo appuntamento con i nostri amici in un agriturismo vicino Todi per la consueta pappata mensile.

Siamo bloccati nel traffico. Visti dall’alto, noi umani, non ci facciamo una bella figura. Qualcuno molto Barbuto, scuotendo il testone, potrebbe convincersi che costruirci è stata un’inutile perdita di tempo. L’aria condizionata fatica a respingere il caldo mentre Alessandro smania. Già da qualche minuto ha cominciato a maledire i nostri compagni d’ingorgo, impartendo maledizioni urbi et orbi, seguendo una liturgia ortodossa ma, purtroppo  per i miei timpani, alquanto chiassosa.  Spengo la radio perché preferisco ascoltare una cosa per volta.

- “Dimmi qualcosa di più palloso del traffico!”  Mi urla, battendo la mano sul bracciolo.

- “Tu. Specialmente quando c’è traffico.” Rispondo  senza il minimo tentennamento.

- “Ma dove cavolo va tutta questa gente? Sono le nove passate; possibile che nessuno di questi cialtroni lavori?”

-“Qualcuno forse lo farebbe pure, se riuscisse almeno ad arrivare in ufficio.”

Avanziamo lentamente e riesco anche ad ingranare la seconda: è un avvenimento che in situazioni come questa ha una sua rilevanza.  Ale continua a scrutare il lontano orizzonte alla ricerca di un varco improbabile nel Mar Rosso di lamiere colorate.

-“Guarda là! C’è anche un carro funebre con il codazzo di parenti. Se questa situazione non si sblocca, gli converrà optare per una fossa comune, quando arriveranno al cimitero. Almeno risparmiano tempo e soldi.”

Raggiungiamo la mesta carovana e la affianchiamo guadagnando la testa  in poche decine di metri. Alla nostra destra, con un biglietto omaggio di sola andata, c’è il camper per l’aldilà dalle ampie vetrate semi-satinate. Subito dietro una citroen con i parenti più stretti. “Stretti” nel vero senso della parola, perché si tratta di un utilitaria e gli occupanti sembrerebbero piuttosto robusti. Con discrezione Ale ed io facciamo quello che un po’ fanno tutti: diamo un’occhiata furtiva per  misurare la qualità del loro dolore. E’ un gesto automatico che forse si dovrebbe evitare ma che immancabilmente si fa: la misurazione dell’angoscia in base ai carati delle lacrime. Anche da uno sguardo malinconico si può intuire il confine tra vita e morte.  Sporgersi nell’abisso e guardarci dentro è una bella tentazione. In questo caso  è il loro turno per avvicinarsi alla Grande Buca e, dalla loro espressione, proviamo a leggere o intuire ciò che hanno o non hanno percepito.

Ale si gira per osservarli, poi si volta di scatto verso di me e mi fissa incredulo. Si, ho visto anche io. Quelli nella citroen stanno ridacchiando e faticano a trattenersi! Macchine indietro tutta, mio capitano! Alla faccia della sofferenza e dello strazio!

-“Ma che fanno, ridono?” chiedo divertito

Ale non sa se sghignazzare o indignarsi. Evidentemente stava per sfornare qualche considerazione ispirata riguardo la vita e la morte. Ma per colpa di quei debosciati nella citroen, gli è rimasta inchiodata in gola. Così è l’indignazione a prendere il sopravvento. Decide di radere al suolo ogni cosa e parte a testa bassa travolgendo tutto: “Qui sono due le cose: o la carogna era tale anche da viva, oppure ha lottato gagliardamente rimandando troppo oltre il colpo da K.O. della Comare col Falcione, estenuando i consanguinei.”

-“E’ sorprendente la tua sensibilità nei confronti dell’uomo in scatola”

-“Chi, quello? Prova a fargli il solletico. Guarda là: anche il suo Caronte lo snobba. Armeggia con la radio alla ricerca di qualche canzoncina gaia.”

-“Quindi concludendo?” incalzo

-“Concludendo stiamo perdendo il senso di ogni cosa. La sacralità della vita e della morte non ci appartiene più. Siamo vuoti, in piena decadenza. E poi ‘sto cazzo di traffico …”

-“Perché quando ti ascolto, spesso mi viene in mente il deserto?”  

-“Forse perché è sterminato?”

-“No, non credo sia per quello”

Continuiamo ad avanzare affiancati al corteo ancora per qualche minuto. Nella citroen è tornata la calma: ora sembrano tutti assorti nei loro profondi pensieri. Anche nelle altre auto che seguono il feretro si stanno svolgendo corsi accelerati di meditazione, di fatalismo, di recitazione. Uno dei partecipanti approfittando delle mani libere, usa il dito indice per una battuta di pesca nelle cavità misteriose del proprio corpo. L’età media è molto alta: qualche ultravecchietta ha approfittato della tragedia per tirar fuori il vestito buono  e per farsi finalmente portare a spasso dai nipoti ingrati. Non fa niente se la destinazione è il rottamaio, dopo tanti mesi chiuse a casa per loro l’importante era uscire e vedere se il cielo era ancora così azzurro come se lo ricordavano.

-“Ti farai cremare?” mi chiede Alessandro che ormai è in piena trance funebre

-“Non mi riguarda, anche se si tratta della mia carcassa. Volendo potrebbero usare l’ impalcatura come appendiabiti per un arredamento esageratamente dark”

-”Niente ceneri nel mare, allora”

-“Macché …  quello è per i romantici in fotocopia. In ogni caso mi piacerebbe che  le mie ceneri fossero depositate a tua insaputa all’interno delle bocchette d’areazione della tua macchina.  Ma è una preoccupazione inutile dato che mi precederai.”

Ora che abbiamo lasciato alle spalle ingorgo e funerale,  avanzando spediti verso l’ Umbria, Ale ritrova calma e buonumore e chiede con tono di sufficienza:

-“Tra un Campari freddo e un manrovescio sulle labbra con l’anello pastorale, cosa sceglieresti?”

-“Il Campari, senza dubbio. Fa meno male.”

-“Allora regola il navigatore sulla prima bettola . Facciamo tappa.”

-“Sia fatta la tua volontà!”

Troviamo subito un piccolo bar al confine con la campagna. E’ poco più di un chiosco costruito ai bordi di un piazzale enorme adibito a parcheggio. Forse il costruttore/proprietario nonché unico barista, aveva letto il De Bello Gallico prima di presentare il progetto al comune. C’è abbastanza spazio per poter girare “Ben-Hur 2, l’Apoteosi”.  

Dentro si dimentica subito la grandeur dell’esterno: sembra di essere entrati nello spaccio di una bidonville vietnamita. Senza muovere un capello, il proprietario dietro al banco riesce ad essere più triste di una vecchia fotografia in bianco e nero finita in una pozzanghera. Chiediamo i Campari e lui li serve accompagnandoli con una manciata di noccioline. Ci guardiamo bene dall’assaggiare una simile prelibatezza: molti roditori notturni non ce lo perdonerebbero.

Ale alza il bicchiere nella penombra della bettola. I riflessi rubino sembrano essere l’unico colore presente.

-“A quel corpo.  Di chiunque sia stato. Al giorno che imparò a camminare, alle sue risate e a tutte le volte che è stato felice di esserci. ” declama e tracanna.

Immagino improvvisamente un oasi dietro le dune. Mi unisco al brindisi.

Detto questo, decidiamo di farla finita con questo genere di discorsi: non si addicono all’aria limpida e a questa luce estiva.

-“Dai, andiamo o faremo tardi.” suggerisco uscendo, mentre indosso gli occhiali da sole. 

Motown2

18 gennaio 2008 ore 10:57 segnala

 

 

Oggi basta chiacchiere.

Si scodinzola!!!

Vetri

14 gennaio 2008 ore 00:35 segnala
Mi hanno sbriciolato il vetro della macchina per fregarsi  la borsa con il portatile. C’erano anche i documenti della macchina e le chiavi di casa. Sono a San Donà di Piave per lavoro. Solo, come qualche volta mi capita. Circumnavigo il mio bolide esaminando la grandinata di frammenti di vetro.

Entro nella caserma dei carabinieri e mi riceve un ragazzo in divisa. Deve essere comunque fuori servizio perché non ha ancora montato i baffi. E’ gentile, mi chiede il motivo della visita poi mi fa accomodare su una poltroncina in autentica finta pelle in attesa di parlare con il Maresciallo. Intanto do un’occhiata intorno: alle pareti ci sono stampe che raccontano l’evolversi dell’abbigliamento  militare dalla fondazione del Corpo fino ad oggi e gli immancabili, onnipresenti calendari. Sul tavolino davanti a me la rivista “Il Carabiniere”. Come se dal dentista o in banca mettessero a disposizione dei clienti “Il Dentista” o “Il Bancario”. Quelle riviste le lanceresti subito nel cestino, qui non lo fai solo perché è certo che un gesto del genere sarebbe considerato come un gravissimo affronto e siccome dal momento in cui sei entrato in quel  territorio sai bene che sei fisicamente molto vicino alla galera, stai buono e ti muovi e parli il meno possibile. Al confronto la Basilica di San Pietro è un posto gaio e spensierato dove sui pavimenti lucidi si potrebbe gareggiare a chi fa la scivolata sulle ginocchia più lunga.

Mi sorprendo piacevolmente quando il ragazzo senza baffi torna per chiedere se, mentre aspetto, gradisco un caffè. Ringrazio e rispondo di si, alzandomi per cercare in tasca qualche monetina da ficcare nell’eventuale macchinetta.  Mi ferma dicendo con un sorriso vagamente imbarazzato che loro il caffè lo preparano e lo preferiscono con la vecchia moka. Lo osservo mentre nella stanza vicino armeggia con la caffettiera e un piccolissimo fornello elettrico. Meno male che non gli ho chiesto la polenta. Passa qualche minuto e torna con tazzina e piattino. Mi chiede: - “Quante zollette?”  Zollette? Ancora le fanno?  100 anni fa si usava scioglierle nell’assenzio. “Una, grazie.” Stavo per dirgli ‘mezza’ solo per vedere come e con cosa la tagliava. Io odio i piattini. Al bar mi stanno bene ma altrove mi fanno venire il magone. Sono un concentrato di tristezza: viene voglia di lanciarli come frisbee sulla cristalliera del servizio buono.  “Eh, ma poi dove lo metti il cucchiaino?” Girati, ti faccio vedere.

Il caffè fa schifo, è dolce smielato e, invece del piattino, sarebbe più opportuno servirlo su un rotolone Regina.

Finalmente arriva il vecchio Maresciallo, il quale saluta passando oltre la scarna platea (io) ma senza guardarla:

 -“ Puonciorno”

Ecco fatto, già rido. Lo sapevo, non sarei mai dovuto venire qui. Al diavolo i documenti della macchina. Oggi sarà una lunga giornata.

Prende posto sul suo scranno, nella stanza di fonte alle poltrone dove sono seduto. Quelli sì che sono baffi! Firma, apre qualche cartellina, legge e richiude senza accorgersi che un foglio è scivolato a terra, finendo sotto un pesantissimo armadio. Ascolto l’ex teppista che è un me e insieme decidiamo di non collaborare. Immagino le decine di fogli ormai ritenuti  inspiegabilmente e irrimediabilmente persi che giacciono sotto quell’armadio. Indagini bloccate da anni, assassini ancora liberi, rimborsi mai effettuati: tutto a causa delle mani di ricotta del Maresciallo.

-“Ciofanotto!”

-“Eccomi” mi alzo aitante e sto per entrare nel suo ufficio quando mi ferma sulla porta con un gesto della mano, come a dire ‘che caspita fai?’

-“E allora? Non ci ho mica detto di endrare”

Spesso pensano che l’intero universo sia una caserma e la che popolazione debba essere adeguatamente addestrata: “Stia dritto, non si appoggi, tolga le mani dalle tasche, spenga la sigaretta, sputi la gomma …”

Ooohhh! Per un controllo alla patente? Tiè, te la regalo!

Forse dovrebbero rivedere certi atteggiamenti, aggiornandoli almeno alla seconda metà del XX secolo. Per questo confido nelle donne: sono una speranza, come sempre.

-”Pecché sta qui? Checcosa gli è succiesso?”

-“Un furto in auto … mi hanno rubato il computer , i documenti della macchina e le chiavi di casa”

-“C’è qualcuno che sta a casa? Sa, affolte i delinguenti ne approfittano per antare e  rubbare e potrebbe essere pericoloso”

-“No, adesso non c’è nessuno. Comunque abito a Roma … non credo che gli eventuali delinquenti siano partiti per andare a casa mia. Penso piuttosto a qualche toss …, drogato.”

-“’Sta cosa lasciamola valutare a chi di competenza e cioè a ‘o sottoscritto. Io le conziglio di avvertire. Papale papale.” Mette il punto all’elucubrazione con un gesto orizzontale della mano che non conoscevo. Una gestualità nuova è sempre ben accetta se può servire, per esempio, a mandare definitivamente in pensione le insopportabili “virgolette” molto anglosassoni che si fanno con entrambe le mani all’altezza delle orecchie, piegando indici e medi. Di solito chi usa fare questo gesto si crede un intellettuale  pronto ad andare a vivere in un attico a Manhattan con vista su Central Park sorseggiando un Martini con oliva. Invece è un povero cretino che fa l'imitazione di un coniglio stupido.Molto più vero il gesto ‘faidatè’ del Maresciallo.

-“Vabbeh … ma sono 600 chilometri, a casa non c’è niente d’interess … ok, va bene. Avverto.”

Torno alla poltrona in vera plastica e faccio finta di chiamare qualcuno. Dopo un po’ mi convoca per la denuncia ufficiale.

-“Venca!”

Ha acceso il computer, ha allungato il collo ed ha spinto gli occhiali giù, sulla punta del naso: è aerodinamicissimo. Osserva lo schermo con la grinta di un centometrista che fissa lo starter nell’ultima olimpiade della sua carriera. Sarà la suggestione ma comincio a sentire un odore di silicio bruciato, mi auguro non sia il computer …

Sono passati quattro minuti e il Maresciallo è ancora lì: non ha mosso un muscolo. Qualche suo antenato deve aver avuto qualche relazione fugace ma determinante con un  pointer. Lo vedo che non sta leggendo, si capisce. Forse aspetta un cenno divino, un’ispirazione, un suggerimento. Forse pensa di prendere sulla stanchezza questa macchina infernale e sta aspettando che ceda. Ripensa ai bei tempi della carta carbone, alle virgole che bucavano i fogli, ai polpastrelli neri e si commuove. Poi, improvvisamente, decide. Il futuro è qui, prendilo di petto! Tocca timidamente un tasto: niente. Lo ritocca con più convinzione: ancora niente. Lo tocca a raffica con la grazia di un fabbro isterico che ha appena smesso di fumare: macché. Adesso tocca al mouse fare una serie infinita di cerchi  inutili. La timidezza diventa arroganza. Gioca il tutto per tutto come un pugile toccato duro che lascia da parte ogni tattica, avventandosi sconsideratamente contro l’avversario. Adesso tocca tutto e finalmente ma inspiegabilmente appare la schermata che stava cercando. E’ esausto ma soddisfatto e si vede. Mi guarda come se si aspettasse l’applauso. Lo accontento: “Bravo!” gli dico ammirato.

E’ talmente appagato che non fa caso alla presa per il culo, anzi : per la frazione di un millisecondo ritiene di essere indispensabile a questo mondo e ai relativi abitanti.

-“Con ‘ste cose ce vuo’ pasienza” osserva saggiamente con una vena di modestia ma facendosi ancora più appuntito per affrontare la sfida finale: nome, cognome, luogo e data di nascita, orario indicativo del furto, modello auto, targata …

-“Non mi  ricordo come è targata”

Mi guarda da sopra gli occhiali con il più profondo disprezzo: ha più stima dei ladri che di me. Ho interrotto la sua rincorsa verso la gloria. Resta lì, con i due indici a mezz’aria come un picador pronto a finire la tastiera.

-“Come sarebbe  a dire?”

-“Non mi ricordo la targa, devo andare a vedere”

-“Si sprichi”

Esco e torno. Lo ritrovo ancora a due centimetri dallo schermo: presto leggerò di un Maresciallo che ha svuotato l’intero caricatore su un monitor reticente.

Gli comunico il numero di targa e finalmente, da brave massaie, finiamo di ‘stendere la denunzia’. Mi fa firmare qualche decina di fogli e, indispettito forse dal fatto che prima di firmare do un’occhiata, consuma la sua fredda vendetta: “Veloce, ciofanotto! Sveglia! Non appiamo mica tutto il ciorno da dedicare a lei”

Lo guardo e lo istigo: “Mi dica, Maresciallo: troverete chi ha commesso questo delitto?”

-“E’ probbabbile”  risponde misterioso, confermando così che le indagini sono già terminate. Tra qualche giorno il mio foglio potrò cercarlo sotto l’armadio. Lo saluto con il calore che si dedica a chi ti ha fatto un immenso favore senza voler nulla in cambio e mi affido al giovane senza baffi che mi accompagna verso l’uscita. Ci salutiamo sulla porta e, dato che è un bravo cristo, mi dice “mi dispiace” facendosi carico dell’onore di tutta la cittadinanza di San Donà.

-“Capita, non è grave” gli dico, dandogli una pacca poco militaresca sulla spalla. Poi aggiungo: “Perché non si fa crescere i baffi?”

Mi guarda sorpreso. Si sente l’eco di un sinistro rumore di ingranaggi poco oliati.

-“Ci stavo pensando, infatti.”

-“Le starebbero bene. Arrivederci e grazie per l'ottimo caffè” gli dico, dimostrando che so vivere.

Adesso dedichiamoci a cose più pratiche: mi serve un concessionario per sostituire il vetro rotto.

Mare

08 gennaio 2008 ore 21:29 segnala
Sono fermamente deciso a trascorrere un pomeriggio in perfetta tranquillità. Dal mare soffia una piacevole brezza.  Ho spento il telefono subito dopo aver fornito informazioni sbagliate ai potenziali scocciatori: ho dichiarato Fregene mentre in realtà sono al Circeo.  Il ragazzo mi assegna un lettino in primissima fila. Con un solo euro di mancia in più, probabilmente lo avrebbe piantato  più vicino alla Corsica che al chiosco dello stabilimento. Inizio a sistemare le mie cose mentre eseguo un primo giro di cannocchiale tutto intorno. Alla mia destra c’è un enorme signore di mezza età che si è affidato al tenero abbraccio di Morfeo.  I baffoni bianchi vibrano nel respiro pesante del sonno. Il colore della sua pelle vira pericolosamente all’aragosta: questa notte si pentirà di non essere morto durante questa siesta pomeridiana.

A sinistra ci sono due lettini momentaneamente vuoti. Dalle cose che hanno lasciato in giro si tratta sicuramente di una coppia. Più in là, un gruppetto di tre ragazze un po’ troppo giovani per perderci tempo. Gli dedico un solo istante per un’occhiata radente su un culetto, la metà di un attimo per considerare la fragranza di quella pelle, un nanosecondo per dolersi di un piccolo ma precoce accenno di smagliatura, un battito di ciglia per decidere che è un difetto da poco, un singhiozzo di farfalla per ricordarmi che la vita è bella.

Metto il casco nello zaino,stendo sul lettino il mio telo verde brillante (quello verde pisello compralo tu, è in saldo giù all’angolo!), prendo l’abbronzante con protezione 3 ed inizio la solita cerimonia con gesti rapidi e decisi. Conosco 40enni in pieno sisma psicosomatico: pelle flaccida e grigia, capelli bianchi e radi, sguardo rassegnato e annacquato: non è il mio caso.

Tra la nostra fila di lettini in riva al mare e la prima di ombrelloni, ci sono 7 o 8 metri di spiaggia vuota. Una sorta di separazione tra ‘stanziali’ ed ‘occasionali’. Faccio parte del secondo team.

Continuo ad esaminare i paraggi cercando distrattamente qualcosa di interessante. Lo trovo poco dietro di me: tre bambini che giocano, avranno quattro o cinque anni. Mi piace guardare i bambini, così mi sdraio a pancia sotto per osservarli meglio da dietro i miei Ray-Ban verdi. E’ meravigliosa la serietà con la quale organizzano giochi e ruoli: ingegneri responsabili di una centrale nucleare osserverebbero con minore severità una densa nube bianca alzarsi improvvisamente dal loro sicurissimo impianto. Dopo un po’, come accade da tempo immemorabile in tutte le tribù umane, scoppia il parapiglia. I ruoli o il copione non sono stati rispettati: che il reietto sia punito! Si invoca a gran voce l’intervento di qualche entità disposta a fare giustizia. Infatti eccola che arriva in bikini rosso. E’ il genere di Divinità che preferisco. Si accovaccia proprio a quattro metri da me, intenta a risolvere salomonicamente la disputa. Non si accorge che la punta del mio naso è in perfetto asse con il pezzo del suo costume più a meridione.  Generalmente non mi piace giocare al lupo cattivo con una donna in compagnia dei pargoli, non mi sembra corretto nei confronti dei piccoletti, chissenefrega di lei. Però questa volta è lei a proporre, parla con le piccole pesti ma guarda qui, con un sorriso come volesse raccontare: ”sono qui a sistemare le liti tra bambini, ma potresti  mettermi alla prova: so fare moltissime altre cose”. Non ne dubito, si nota dallo stile. Le sue gambe, aprendosi e chiudendosi, continuano con l’imitazione della pianta carnivora. Non è il mio tipo. La osservo dall’alto come faceva Kronos valutando con sufficienza l’operato del figlio Zeus.

Mi giro di fianco verso il russatore ormai prossimo all’autocombustione e sorrido tra me:”Mah, le donne …” (Perché non dovrei pensarlo? Forse le donne non pensano “Mah, gli uomini …”?). Ormai sono abbastanza grandicello per dare conferma  a ciò che fino a qualche tempo fa erano solo sospetti e teorie, fregandomene se si tratta di ovvietà, e cioè che la donna generalmente si propone soltanto in due occasioni: attenta e circospetta se LEI è accompagnata; sfacciata e quasi arrogante se sei TU a non essere solo. L’incontro alla pari per lei non è stuzzicante, meglio passare oltre tenendo lo sguardo fisso nel vuoto. A te sembra che guardi  verso un’altra dimensione, in realtà ti sta solo dicendo: “Così non è sexy, son capaci tutti. Noi amiamo il brivido, l’imprevisto, l’emozione,  il sussulto.” Questo per loro vale prima, durante  e dopo. Per noi maschietti solo prima, meglio ancora se dura poco. Tempo fa Cristina mi stava raccontando del suo ragazzo americano, stereotipo del perfetto californiano (anche se è originario dell’east coast), con lui non c’è gara: bicipiti e mascella, capelli cortissimi biondi e occhiali da sole neri. “Beh, “ mi diceva la mia hostess Alitalia preferita “che palle! Ogni volta un paio d’ore di sesso senza fantasia. Mi sembra di andare in palestra!” Abbiamo riso forte e all’unisono il mio orgoglio ed io. Molte donne preferiscono gli artisti ai pistoni. Se poi hanno sembianze da tagliaboschi, tanto di guadagnato.

La voce nasale di un tizio che sembrerebbe avere una vera passione a parlare con la testa infilata in un secchio di metallo, mi distoglie dalle mie profondissime riflessioni. Sono i miei vicini di lettino che tornano dal bagnetto. Li sento parlare ma evito di degnarli di uno sguardo a causa di quella voce da schiaffi.

-“Lo sapevo … è arrivato un messaggio … che noia, adesso devo richiamare. Si, pronto? Eri tu? Ho ricevuto il messaggio mentre ero in acqua. Si … al Circeo. Fa caldo … Ma quando? Oggi? No, oggi no. Domani. Domani non puoi tu? E allora? Come si fa? Come possiamo fare? …”

Mi sta irritando questo groviglio di adenoidi. Con la mano tocco la sagoma del mio casco nello zaino. Lo giuro: darei mille euro per potergli stampare quel telefono sullo zigomo! Sacrificherei volentieri il mio Arai seminuovo. Fatti operare alle corde vocali, fai un corso di dizione, sturati il naso con un cavatappi a motore! Nel frattempo evita di parlare a meno di 100 metri da me!

Quando decido di aprire lentamente una veneziana per assegnare un volto a Topo Gigio, per poco non mi prende un colpo! In piedi vicino a lui, c’è la replica mora di Ursula Andress che sta cercando di legarsi i capelli! Le manca soltanto la cinta sul costume bianco  ed il pugnale al fianco. Mi viene automatico cercare con lo sguardo un’Aston Martin parcheggiata nei paraggi ma vedo solo un povero idiota con la voce di Gatto Silvestro che gesticola al telefono. E’ bellissima. Di solito riesco a dissimulare, non questa volta. Manca solo che mi metta la mano a visiera come i guerrieri Sioux per scrutarla meglio. Devo aver stampata in faccia una bella espressione da ebete, perché lei se ne accorge e mi  sorride tenendo tra i denti bianchissimi un fermaglio di legno e cuoio. Non credo di aver mai visto niente di più sexy dal vivo. Si potrebbe pensare di organizzare il lancio nello spazio di una nuova sonda, solo per poter stampare la sua foto ed una scritta sulla fiancata che comunichi ai marziani di ogni tempo: “Deficienti, noi abbiamo lei!”

“Ho sete, mi accompagni?” chiede madonna al suo ganzo che la zittisce con un gesto della mano. Il suo telefono ha priorità su tutto.

Anche il vecchio ciccione alla mia destra si è improvvisamente svegliato ed osserva compiaciuto. Evidentemente il profumo di ferormone scatenante gli è ancora familiare. Sorride contento fino a quando non si sfrega la mano sulla pancia. E’ allora che, accorgendosi del disastro cutaneo e delle tribolazioni notturne che l’aspettano, opta per un improvvisa e violenta bestemmia al femminile. Si sa, prendersela con le donne è meno pericoloso ed è più efficace per rendere l’idea della disperazione. Mi giro lentamente per guardarlo mentre penso: “Crepa ora, vecchio!” La presenza di questa Venere ha scatenato il Leonida che riposava in me. Tutti contro tutti e l’unica regola è: niente regole!

“La voglio, la voglio” faccio i capricci come un bambino che punta i piedi davanti ad un negozio di giocattoli. Non so ancora come andrà, l’unica cosa certa è che ci proverò in un modo o nell’altro. Alla faccia di questo ritardato con la voce da papero castrato. Calma però. La frenesia ama fare orge con le figuracce. Cominciamo ad evitare comportamenti ridicoli e banali tipo andare a nuoto a Ponza e tornare con uno squalo bianco tra i denti. Anche fare la ruota davanti al suo lettino è un’idea che scarterei. Strappare biglietti da 100 euro per farle credere che sono ricco sfondato è stupido. Potrei telefonare in banca e gridare: “Compra! Vendi! Rivendi! Ora compra!” ma purtroppo è sabato. Oppure potrei assumere la posa del pensatore e rimanere per un po’ turbato e alla fine chiedere a quel carciofo che si porta a spasso: “EmC … 2, vero? 2 o 3? Non ricordo … mi confondo sempre …” . C’è sempre il jolly patetico: “ciao, sai, sto per morire e vorrei esprimere il mio ultimo desiderio”. O magari tirar fuori “I sotterranei” di Kerouac  e leggerlo al contrario ad alta voce per scoprire la vera data di nascita di Sisto VI. Ridicolo? Ripensate ai vostri uomini e ora convincetemi che nessuno di loro vi ha mai fatto simili trappole. La cosa davvero ridicola è che qualche volta queste commedie sono riuscite realmente! Ora sediamoci in cerchio e decidiamo chi è più grottesco.

Calma, devo usare il cervello. Servirà a qualcosa l’esperienza o sono solo tutte chiacchiere? Osserva con discrezione e valuta dove e come agire. Intanto mi alzo, optando per un tuffo.  Da quaggiù è ancora più bella, vedessi i suoi gesti mentre stende l’abbronzante sulle gambe. Tutta la poesia del mondo non è che la malinconica imitazione di momenti come questo. Pascoli, deputato filastroccaro: guarda e impara (me la prendo sempre con lui quando mi girano). Lentamente si fa strada nella mia mente un accenno di strategia. Esco dall’acqua diretto verso il ragazzo dei lettini, sorrido e gli chiedo a bruciapelo: “Sai chi è quella ragazza laggiù, vicino al mio sarcofago da mare?” l’uomo-dromedario sorride “Ehhh … quella è difficile!” Guarda un po’ se devo ascoltare le considerazioni pessimistiche di uno che almeno venti volte al giorno s’incastra le dita nelle sdraio.

-“La conosci?”

-“Viene spesso, si. Lui è molto ricco”

“Il papero raffreddato? La sua dichiarazione dei redditi non ci interessa. Potresti farmi un piccolo favore?” gli chiedo allungandogli un cinquantino che ghermisce con rapidità da murena famelica. Adesso è davvero interessato, lo diverte l’idea di tirare qualche scherzetto a quel fortunello. Così piace agli uomini: se non possono conquistare, distruggono. Gli spiego cosa deve fare: non è difficile, basta rispettare i tempi. Gli mollo una pacca sulla spalla che per un attimo gli fa perdere l’equilibrio e torno al mio lettino incrociando le dita.

Passa qualche minuto e l’altoparlante comincia a gracchiare: “Il proprietario dell’auto targata … “. Il carciofo si alza e senza attaccare il telefono, comincia a cercare le chiavi del suo cocchio per poi sparire all’orizzonte. Perfetto, ora il beduino delle sabbie dovrebbe eseguire la fase 2. Eccolo che arriva con il vassoio e due bicchieri. Aveva detto di avere sete, no? Parlottano un po’, lei ride fino a quando lui le dà un bigliettino indicando verso di me con lo sguardo. Le sorrido solo un po’ ma è diventata molto seria ora. Mi sa che ho fatto fiasco. Intanto torna il papero il quale, pensando che sia stata lei a chiedere da bere, paga quello che io avevo già pagato. Il portatore di lettini si guarda dal dirglielo e fa benone. E’ il suo giorno fortunato: se fossero tutti così redditizi a fine settembre potrebbe trasferirsi a Dubai e chiedere la cittadinanza. Io intanto guardo l’orizzonte con la speranza che qualche piovra venga a prendermi per portarmi con sé negli abissi. Oh, poche lagne Odisseo: ci hai provato.

La strada del rientro è un po’ trafficata. Decido di mettere in ballo gli ultimi punti patente che mi sono rimasti. E’ piacevole sentire il vento estivo sulle gambe. Quando arrivo mi tolgo il casco e prima di scendere dalla moto controllo l’abbronzatura con lo specchietto retrovisore. Metto il cavalletto laterale e sistemo le solite cose: zainetto, bloccadisco,  chiavi, telefono … toh … un po’ di messaggi. Ce n’è uno che mi fa irrigidire: 3497964… “Ha dimenticato il telo verde sul lettino. L’ho dato al ragazzo dello stabilimento. Chieda a lui, tanto siete amici, penso.”

Mi da del “lei”, che insopportabile tristezza.

Ma allora perché sto ridendo?

Una serata semplice

23 dicembre 2007 ore 11:10 segnala
-“Mi dai solo un minuto? Sta squillando l’altro telefono.”

-“Dai, sbrigati”

Approfitto dell’attesa ritoccando il disegnino che immancabilmente scarabocchio mentre sono al telefono.  Ai rombi, alle scale, ai cerchietti preferisco le vignette. Capita ogni tanto che qualcuno  mi dica “Però … disegni bene”. Non è vero, so fare soltanto buffi personaggi in buffe situazioni.

Torna Ale: “Ti va di andare a Massenzio a vedere un film questa sera?”

-“Chi era al telefono?”

-“Silvia. La devo richiamare, cosa le dico?”

-“… per me va bene. Cosa danno?”

-“Lei voleva rivedere ‘Brazil’. Aspetta, ho qui il giornale.”

-“Che palle ‘Brazil’! L’ho visto una carriola di anni fa, proprio con te mi sembra. Anzi no, ero con Marcello.”

-“Si, mi sembra. Comunque sull’altro schermo danno ‘Il sorpasso’”

-“Nessun dubbio allora. Rivedremo per l’ennesima volta Gassman, non si discute!”

-“Si, lo preferisco anche io. Ora la chiamo e glielo dico. Tu passa qui tra un paio di ore.”

-Cià, cià cià!”

E’ ormai sera quando arriviamo sul lungotevere. L’appuntamento è davanti alla nostra vecchia scuola e Silvia, come tradizione, non c’è ancora. Scendiamo dalla moto e ci sediamo sui gradini del portone di ingresso del nostro Liceo. Da questa parte del Tevere il vecchio Virgilio, sull’altra sponda Regina Coeli, il carcere. Mi ricordo che questa vicinanza ci sembrava buffa. Come Pinocchio rischiavamo ‘la galera o l’ospedale’. Anche Silvia era in classe con noi e, se non altro, questo edificio annerito dal tempo e dallo smog  pur non consegnandoci all’élite dell’intellighenzia nazionale, ha fatto di molti di noi un gruppo serrato di amici. Potrebbe sembrar pochino ma forse in fondo non lo è. Sopra il largo portone spicca l’incisione “Anno XVI EF”, rimasta sorprendentemente intatta, scampando al ’68 prima e al Movimento del ’77 poi. Mi metto a cercare sul muro e sul portone qualche scritta, qualche segno che mi riporti indietro nel tempo. Anche Alessandro mi aiuta ma il risultato è molto scarso. Ne ricordo una efficacissima: sotto “Molti Nemici, Molto Onore” scritta da qualche provocatore, c’era “Pochi Nemici, Molto Meglio” che riconduceva ad uno stile sicuramente più accettabile. Ora noto che le scritte e i disegni che caratterizzano questo posto per il 90% riguardano dichiarazioni d’amore, riferimenti a gruppi musicali e le ormai insopportabili, petulanti tag.

Silvia è una ragazza davvero in gamba ma ha una serie di particolarità che la rendono unica:  i capelli per esempio sono quasi arancioni e completamente indisciplinati. Potrebbe spazzolarli per ore ma senza la soddisfazione di  un risultato almeno apprezzabile. Anche sulla sua altezza c’è da dire: la chiamavamo ‘la nana più alta del mondo ’.  Infine quel difetto di pronuncia che rende le “S” una tortura per chi l’ascolta. Una piccola catastrofe , un’accozzaglia di danni che metterebbero al tappeto chiunque ma che lei riesce a passeggiarci sopra con intelligenza,  simpatia e  vitalità.

Finalmente arriva con la sua nuova Panda gialla. ‘Nuova’ è una parola grossa: la fiancata destra sembra una rielaborazione artistica del massacro di Verdùn. Deve essere stata colpita dall’artiglieria pesante, la piccola Silvia. Scende sorridendo mentre noto perplesso che sul sedile del passeggero c’è un enorme sacco nero.

-“Ciaaaoo!” ci fa, allegra come al solito.

-“Bello! L’hai fatto tu?” le chiedo riferendomi al disastro

-“Colpa di un pazzo che usciva da un parcheggio”

Mi limito ad alzare le sopracciglia di appena un paio di metri.

-“E’ così!” protesta “questa volta mi pagano, ti giuro!”

-“E’ morto, vero? Dai, di’ la verità, con noi lo puoi fare!”  tranquillizza Alessandro.

-“Ma quanto siete stronzi …” ride

Ci scambiamo i bacetti quando improvvisamente il sacco nero si inclina pericolosamente verso il volante. Non solo, protesta pure!

-“Come si fa ad uscire da questa scatoletta?”

- “E’ Rita, una mia collega ma è soprattutto un’amica” ci avverte Silvia.

Quando Rita riesce finalmente ad uscire dalla portiera opposta, resto a bocca aperta. Tutte le mie convinzioni sui volumi si stanno sgretolando rapidamente. Fino ad un minuto fa non credevo che un oggetto piccolo potesse contenere un altro oggetto molto più grande. Rita è il trionfo della carne, è la teoria provata che l’uomo discende dall’incontro tra una mongolfiera ed un dirigibile, è la dimostrazione che viviamo in un paese ricco anche se (a causa sua) ancora per poco, è la dea di ogni ristoratore, è il terrore delle greggi e dei pollai, è l’inno all’abbondanza, è il troppo che non è mai tale, è l’artificio che aiuta il pianeta terra ad evitare che la luna schizzi via nell’infinito. In poche parole: Rita è in leggero sovrappeso, se è concesso l’ossimoro.

Avanza verso di noi sorridendo e questo non può che provocare qualche fondata preoccupazione per il mio esile amico. Ha paura di essere scambiato per qualcosa di commestibile. La guarda con gli occhi della preda colta di sorpresa dal suo predatore. Immagino che la sua vita conti più deglutizioni che respiri. Cerco di ridarmi un tono richiudendo la bocca per poi riaprirla subito: “Ciao, sono Massimiliano”. Vedessi che bel sorriso che le regalo! Quasi a raccomandarmi: “Siamo amici, vero?”. Lei risponde cordialmente, l’espressione è simpatica e forse, diecimila pasti fa, il suo aspetto era anche gradevole.  Procediamo con il rito dei salamelecchi ancora per qualche istante, poi:

-“Andiamo? Stiamo facendo tardi.” taglia corto Alessandro.

-“Si, andiamo, andiamo.”

Silvia va verso la sua macchina e poi torna veloce verso di noi e mentre mi sto infilando il casco mi chiede con un sorrisetto malvagio:

-“Vuoi portarla tu in moto ed Ale viene con me?”

-“Vai Silvia, vai. Non sono in grado di andare su una ruota per tutto quel tempo. Tu, piuttosto, pensa a continuare lo spot della Simmenthal. Ci vediamo all’ingresso, se nel frattempo non travolgi qualche stormo di pellegrini.”

Alessandro rincara: “Meglio morire qui, sfracellato all’aria aperta, piuttosto che sentirsi saltare le coronarie ad ogni incrocio.”

Mi dà un pizzico sul braccio e torna corricchiando ai comandi del suo mezzo di sterminio.

-“Hai visto Kate Moss dopo la cura …?” domando ad Ale

-“C’è una cosa strana che non mi quadra” fa lui pensieroso.

-“Cosa?”

-“Non ho visto il gommone di Greenpeace girarle intorno!”

Sbotto a ridere sputacchiando nel casco.

Arriviamo al piazzale della biglietteria ed aspettiamo con pazienza Silvia e la sua amica Rita.  Non è difficile vederle arrivare: sembrano David e Golia quando ancora andavano d’accordo.

Paghiamo, entriamo, guardiamo, usciamo.

-“Adesso andiamo a bere qualcosa” propongo al mio circo con il piglio e l’autorità di un parcheggiatore abusivo.

-“Che arsura!” esagera ridendo Alessandro e toccandosi la gola

Quando entriamo in un pub poco distante,  il proprietario ci scruta senza dire neanche ’ciao’. Gli sorrido e lo rassicuro: “Le tigri ed i cavalli col pennacchio li abbiamo lasciati nella roulotte. Siamo solo di passaggio”. Si scioglie e sorride anche lui.

-“Dove mi spaparanzo?” chiede con bella autoironia Rita ad Alessandro che si piega a ridere

Ci accomodiamo ad un tavolo vicino al banco perché secondo Ale “così le birre non arrivano calde”. Ordiniamo i beveraggi  all’oste della malora, per continuare questa strana, piacevole serata .

-“Beh, me lo ricordavo più noioso ‘Brazil’” dico .

-“Carino, ma avrei preferito ‘Il sorpasso’”

Grandissima Rita!

Proprio così!

15 dicembre 2007 ore 01:51 segnala
E’ quasi l’una di notte mentre percorro l’ Aurelia per la milionesima volta. Non c’è curva o buca che non conosca perfettamente e potrei guidare tranquillamente ad occhi chiusi.  So, per esempio, che quando piove si forma una pericolosa pozza vicino al jersey, sulla corsia di sorpasso in direzione di Roma, all’altezza del distributore dopo l’uscita di Castel di Guido. Io so come evitarla, molti altri ci si disintegrano incisivi e  ammiraglie di famiglia. 

Sto tornando da una divertentissima cena a casa di amici: lui e lei non hanno fatto altro che punzecchiarsi dall’inizio alla fine. Non c’era modo di diluirli, ogni argomento era un pretesto per  l’ennesima stoccatina.  Ha cominciato lui commentando il primo piatto “E’ sciapo! Strano, di solito lo fai salato” . All’inizio pensavo fosse solo una battuta ed ho riso ma subito dopo ho avuto modo di scoprire che dietro c’era molto, moltissimo altro. C’erano intere giornate fatte di ripicche e di dispetti, c’erano rancori da vendicare, c’erano colpe che cercavano padrone.  Mi ricordo bene il giorno del loro matrimonio: erano baci e sorrisi da slogarsi le mandibole. Frasi complici sussurrate ridendo e guardandosi negli occhi, mentre gli invitati si davano di gomito: “Ma che bella coppia!”

Ma che bello schifo! Intendiamoci, non ho nulla contro il matrimonio (anche se qualcosa si potrebbe dire). Ho molto contro chi cerca di puntellarlo ad ogni costo, mettendo in gioco la propria vita, quella dell’altro e la dignità di entrambi. Molto meglio un bel tradimento smascherato con fanfara e majorettes  che dà un doloroso taglio netto, piuttosto che una lunga agonia che si trascina nel grigiore dei “riproviamo, dai”.

Riproviamo ma a far cosa? La passione non è come il fornello di casa che accendi e spegni quando vuoi. La passione è un carburante che più o meno lentamente si estingue e una volta finito hai voglia a cercarlo negli anfratti dell’anima o nell’intimità della notte:  non c’è più e quello che ti rimane è solo una tragicomica espressione da fesso mentre osservi l’inevitabile bivio che ti appare davanti. “Ma io credevo … ero sicuro che …”. Ma smettila, per favore! Come la legge, il futuro non ammette ignoranza.

Come un toro Miura hai puntato con passione furiosa il drappo rosso del sogno di amore che il disonesto toreador ti sventolava davanti al grugno. Ci hai creduto, gli hai assegnato sostanza e ti sei lanciato con tutto il tuo vigore. Vedessi ora il tuo sguardo appena hai scoperto che era soltanto ‘aria’ coperta da un velo di sottile seta rossa.

Lascio definitivamente questi torvi pensieri sulle coppie perché mi accorgo che alla radio stanno commentando “Oblomov” , uno dei miei libri preferiti. “L’eroe immortale della pigrizia”, quello che mi ha fatto conoscere certa letteratura russa. Mi piacciono questi programmi notturni che passa  RadioRai, la televisione neanche ci prova. Ascolto con attenzione mentre continuo a guidare piano. Più o meno all’altezza dello svincolo per Fregene mi sorpassa lentamente una Golf bianca. Ci mette tanto a terminare il sorpasso lasciandomi  il tempo di guardare chi guida.  Le luci dei lampioni mi aiutano a riconoscere Roberta. Si, è lei. Accelero, la risorpasso  e la guardo sfoggiando il sorriso dei giorni di festa. Anche lei mi osserva. No, non è lei, sembrava però. Che bella figura! Dopo poche centinaia di metri mi sorpassa di nuovo e mi guarda. Forse anche lei ha creduto che fossi qualcuno di sua conoscenza. Adesso rallenta visibilmente, costringendomi all’ennesimo sorpasso. Questa situazione sta diventando ridicola, così accelero deciso. Lei però resta in scia. Alzo un po’ il piede dal gas e aspetto il suo sorpasso che avviene poco dopo l’ingresso della Roma-Civitavecchia . Non mi piace raccontarmi favole, però mi è sembrato vederla sorridere. Sai cosa faccio? Mi metto dietro e vediamo dove va. Si, la seguo, tanto non ho niente da fare oltre andare a dormire. Continuiamo ancora per qualche minuto sull’Aurelia, poi giriamo in direzione Ceri. Facciamo un paio di chilometri per poi entrare a …, un grazioso centro residenziale costruito per  professionisti che hanno le tasche piene di Roma e del suo traffico. Villette curate e marciapiedi in erba che fanno tanto Beverly Hills, centro commerciale e spazi verdi per i bambini. Ogni tanto ci passo per vedere se c’è qualche ‘occasione’ ma invano. Appena entrati si accoda una Porsche che continua a seguirci nelle stradine di questo comprensorio. Uhm … guarda stasera che fine fa l’avventuroso Achab ed la sua Volvo-Pequod. Catturato come il viceré dei tonti. Mi sta bene! Divorato senza difficoltà: l’aringa si è atteggiata a squalo fino a quando non si è accorta del barracuda lì dietro. Meglio valutare la possibilità di una ritirata. Va bene anche poco dignitosa, la dimenticheremo.

Invece gira e se ne va. E’ un bel peso che si toglie da torno, spingendomi a concludere con maggior convinzione quello che ho cominciato almeno quindici minuti fa. Torno ad essere squalo dopo una piccola, insignificante, banale, stupida  crisi da aringa. “Segua quell’auto” ordino di nuovo a me stesso. Arriviamo ad un piccolo piazzale dove c’è qualche auto parcheggiata. Lei trova subito posto e spegne il motore. Sono ancora dietro di lei illuminandola con i fari. Ora devo soltanto cercare di non spaventarla. Spengo anche io mentre lei apre lo sportello, sembra stia prendendo dei fascicoli.

“Non ho capito come ti chiami” è la prima cretinata che mi viene da dire mentre scendo dalla mia biga a turbogasolio.

Lei si gira e ride.

E’ mora, i capelli tagliati poco sopra le spalle. E’ piccolina, me la aspettavo più alta. Forse ha l’abitudine di guidare con gli elenchi del telefono sotto il sedere. Ha un bel sorriso bianco e contagioso che trasmette allegria. Ci presentiamo e restiamo un po’ a raccontarci l’origine di questo strano incontro. Anche lei mi aveva scambiato per un suo amico. Per qualche minuto ridiamo come ritardati ma poi, fortunatamente, la situazione si stabilizza.

-“Non c’è un posto dove poter parlare e intanto bere qualcosa?” le chiedo.

-“No, non qui. Non a quest’ora. A Cerveteri, forse.”

-“Se non hai fretta ci possiamo andare, che ne dici? …”

-“ … Ok! Prendiamo la mia macchina?”

-“Prendiamo la mia”.

Partiamo in direzione Cerveteri e parliamo fitto fino a quando parcheggio davanti ad un pub che sta per chiudere. Entriamo e ci fanno rimanere lì giusto il tempo di una birra. Dà sempre una sensazione particolare trovare una persona con la quale riesci a stabilire subito un contatto diverso dal solito, più profondo, più intenso. Tornerà utile per il ‘dopo’.  Si, il dopo, perché io continuo ad ascoltare ancora con sospetto gli uomini che raccontano alle ragazze la leggenda di quello che mai e poi mai avrebbe pensato al sesso ma, anzi, che era attratto soltanto da quello che lei pensava, dal suo modo di ragionare. Stronzate che è comodo dire, tanto quanto (a volte o spesso) è comodo credere.

Ritorniamo lentamente al piazzale sotto casa sua e restiamo lì ancora un po’a chiacchierare: cosa fai, con chi stai, ma davvero non hai nessuno, il lavoro (bello il suo), le vacanze, i libri ed i film, gli amici ed i posti che si frequentano. Sono quasi le tre quando ci scambiamo i numeri di telefono (con la prova dello squillo, perché fa molto sincero).

-“Adesso ho davvero sonno “ mi scappa di dire.

-“Non dire così! Mi fai preoccupare. Vai piano e chiamami quando arrivi”

Intravedo un varco. Ne approfitto immediatamente e mi insinuo come un mamba nero.

-“Eehhh … tempo fa ho rischiato di andare fuori strada per un colpo di sonno. Da allora quando mi sento troppo stanco mi fermo e dormo in macchina”  E’ vero, noi uomini siamo spesso patetici ma fino a quando funziona …

-“ Adesso mi fai preoccupare”

Vai a capire se è davvero preoccupata o se sta pensando anche lei a quello che penso io. Comunque insisto con la scena del  fante del ‘99 che avanza verso le linee austriache, incontro a morte certa. Per la Patria, per i Savoia! Questa pantomima dura quanto deve durare e cioè fino a che lei, l’infermierina del campo, mi offre riparo e ristoro. “A patto che …”  Si, vabbé!

La casa è esattamente quella che ti aspetti da una ragazza single: perfetta, ariosa, pulitissima e senza fronzoli se si è disposti a sorvolare su un terribile disegno con toni blu, incorniciato e appeso alla parete principale della sala. E’ uno di quei disegni che spesso si vedono da queste parti: una bellissima donna guerriera con i capelli lunghissimi e lo sguardo fiero di chi se ne frega delle bollette e del marito adiposo. Il suo tempo è il futuro improbabile o forse un medioevo inventato di sana pianta. Boh, preferisco quei manifesti di Bedard degli anni ’80, con il papero che osservava un foro di proiettile fumante poco sopra la sua testa, ma sono gusti.

Mi concede una doccia. Uso il suo bagnoschiuma profumato così quando esco dal bagno sembro una drag queen in borghese.  Il mio posto ufficiale sarebbe il divano di là ma non c’è la tv, così insisto per stare un po’ con lei. Fa un po’ di storie che vogliono significare “ok, cominciamo il rituale”  così entro nel letto con lei. Immediatamente spegne la tv dimenticando che almeno teoricamente io ero lì proprio per quello. Si gira di fianco dandomi le spalle mentre continua a ripetermi di ‘fare il bravo’. Sicuro, ci proverò. Parola di Giovane Marmotta. Ridacchio io e ridacchia anche lei.

 –“Posso giocare un po’ con i tuo capelli?”

La fretta è nemica acerrima dell’amore. Può piacere talvolta agli uomini insensibili ma raramente alle donne, così mi prendo tutto il tempo che serve per farla lentamente capitolare. Ora chiede, non ordina più. Sempre nella stessa posizione mi prende un braccio e se ne fa una cinta. Toh, non usa indossare il pigiama la Duchessa. Sento tutto il suo calore sulle mie gambe. Ho modo di constatare che è vero quello che mi ha detto poco fa in macchina: si massacra in palestra e si sente. Step e cyclette fino a svenire e i risultati eccoli qui, sotto … i miei occhi. Santifichiamo la notte almeno fino a quando la prima luce dell’alba filtra dalla finestra. Ci addormentiamo esausti ed abbracciati. Strano, di solito non sopporto dormire così.

Quando mi alzo lei non c’è, è andata al lavoro. Mi ha lasciato un biglietto carino, il caffè nella moka e le doppie chiavi di casa. Penserò a restituirgliele appena ci rivedremo. Mi fa effetto tutta questa fiducia. Ho il sospetto di aver incontrato una ragazza davvero affascinante, infatti non vedo l’ora di stare di nuovo con lei.

Penso a quello che ripetevo tra me e me in macchina, pochi istanti prima di conoscerla.

E’ proprio vero: la vita si diverte a sputtanare chi vive di certezze.