Il cuore ritrovato
07 settembre 2007 ore 22:48 segnala
C’era una volta un mago, che abitava in una grande foresta.
Un tempo era stato un mago molto potente, che aveva innalzato principi e distrutto regni, ma ora tutti i suoi impegni si limitavano ad una partita a dama con l’amico gufo, qualche scambio di battute velenose con la strega dell’est e le quotidiane cavalcate sul suo destriero bianco dal mantello nero.
Un giorno alla grotta del mago giunse una bambina, che aveva i capelli biondi e le trecce nere, masticava cingum e odorava di melassa.
Il mago non amava i bambini e ancor meno le bambine bionde dalle trecce nere, che masticano cingum e odorano di melassa, ma quel giorno decise di ascoltare ciò che ella aveva da dire, poiché tra le braccia curiosamente teneva un burattino di latta senza vita.
“Che ci fai con il mio burattino di latta?”, chiese il mago “perché non si trova più al servizio della strega dell’ovest?”. “Da là io vengo, mi manda la strega, dice che il burattino non vuole più servirla”.
Il mago rimase perplesso a riflettere – com’era possibile che un burattino di latta trovasse la forza di prendere delle decisioni? – “La questione è seria” disse “dammi il burattino, indagherò”.
Il mago si rinchiuse nel suo studio per giorni e giorni, studiò libri, provò pozioni, interrogò specchi, eppure non sembrava ci fosse una risposta alla sua domanda. Il burattino era ostinatamente immobile e rifiutava di confidare al suo padrone le ragioni di un tale ammutinamento.
Un giorno insperato, il burattino si alzo dal tavolo di lavoro del mago e si diresse verso l’uscita della grotta. “Dove pensi di andare?” lo rimproverò il mago, “perché non vuoi più servire la strega dell’ovest? Come puoi tu, un burattino di latta da me creato, prendere delle decisioni autonomamente?”. “Mi chiedi troppe cose, mago, e come tu stesso hai affermato, io sono solamente un burattino di latta, come posso rispondere a tante domande?”. E mentre ancora era intento a queste parole, il burattino si bloccò, sorpreso, alla vista di una giovane fata che librava le sue piccole ali trasparenti nell’aria.
“Lo vedi mago, lo vedi? La primavera è arrivata, e presto arriverà l’estate. Un tempo, quando ancora abitavo nel villaggio di latta, con la mia mamma e il mio papà di latta, a primavera si festeggiava, i giovani si scambiavano fiori e promesse ed io, non so come dirlo, sentivo qualcosa qui – mise la mano tra il primo ed il secondo bullone – e sapevo che, come gli altri, un giorno avrei desiderato regalare dei fiori”. “Quante sciocchezze dici!” rispose brusco il mago, “di che padre e madre vai cianciando? Io sono tuo padre e tua madre, perché io ti ho costruito e non esiste alcun villaggio di latta”. “Tu dici il vero mago, ma io l’ho sognato e sentivo che qualcosa avrebbe dovuto batter proprio qui” – e mise nuovamente la mano tra il primo ed il secondo bullone.
E allora il mago capì. Svitò i due bulloni del burattino di latta, lo aprì come una scatola, e nel vuoto leggero del suo corpo inserì una minuscola chiave. “Bene” disse infine ad alta voce, “alla strega dell’ovest dovrò donare un altro servitore, ma questa volta niente spazi vuoti!”.
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Oggi ho visto l'amore
02 settembre 2007 ore 23:21 segnala
Trentatré anni appena
i capelli corti biondo cenere
trascinava la sua gamba destra
con fatica e dignità.
La sua antica bellezza
la rubò un giorno la neve.
Giovane e forte
le stava al fianco un uomo
negli occhi il riflesso
di un dolore maturo.
Nel sorriso di un neonato
oggi ho visto l’amore.
A L. e al suo meraviglioso marito.
PS. Questi versi sono terribili (non sono nemmeno versi), ma la commozione era grande e non ho potuto resistere.
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La menade danzante
31 agosto 2007 ore 15:41 segnala
A fine ottobre il vento rombava attorno alla prua dell’isola, facendo tremare le vetrate della grande cupola. La Spree era gonfia e torbida: i battelli non si sarebbero mossi per quel giorno.
I visitatori stavano dando l’assalto alle collezioni e c’era da stupirsi che le gradinate del Pergamon non si sciogliessero sotto le suole insistenti di chi ogni minuto, ogni secondo, saliva e scendeva.
I custodi all’entrata mostravano sintomi da assideramento, all’interno non sembrava più possibile controllare le folle.
“Buongiorno, può mostrarmi il biglietto, grazie e buona visita” e in tutto quel caos ci mancavano solo i volti sempre nuovi dei praticanti, che gironzolavano da una sala all’altra senza nemmeno presentare il cartellino di riconoscimento.
La caffetteria era stata presa d’assalto, fette di dolce, latte macchiati, “espressi” lunghi come la fame, e i muffin cioccolato e cannella che dovevano assolutamente giungere sulla scrivania del direttore, Herr Doktor E., e della sua segretaria personale.
I conservatori erano in fibrillazione: nuova apertura, nuovo allestimento, nuovo personale e il terrore per le ormai prossime inaugurazioni ufficiali, una delle quali riservata alla KFMV, ossia alle alte sfere di politica e finanza.
Herr Doktor K., occhiali dalla montatura sottile, labbra serrate in un sorriso di convenzione e mani femminili su cui risaltava splendente la fede nuziale, infilò per la centesima volta la scala di servizio e si precipitò nella grande e luminosa sala barocca. Doveva assolutamente appurare se davvero il satiro del Bernini e la Diana del Cametti fossero nella posizione ottimale. In quel momento desiderò avere accanto la sua bella ed elegantissima moglie, ma meditò sul fatto che, pur considerandoli più una scocciatura diplomatica che un vero aiuto, in questo caso avrebbe fatto meglio a rivolgersi ai praticanti.
Dei suoi colleghi aveva già abusato e non intendeva sentire su di sé nuovamente lo sguardo ironico e compassionevole del capo restauratore, Herr B., il quale lo avrebbe certamente consigliato volentieri, ma avrebbe anche dimostrato che lui, pur conservatore, non aveva la sicurezza di prendere in autonomia alcuna decisione. Ah l’ambizione…
Due ragazze, tra il sorpreso e l’incuriosito, entrarono nella sala su invito dello stesso Herr Doktor K.. Molto diverse tra loro - se non altro perché l’una, piccola e rossa di capelli, mostrava chiari tratti teutonici, l’altra, mora ed alta, era chiaramente straniera - C. ed E. aspettarono che il curatore svelasse loro la ragione di tanta premura.
Qualcosa non funzionava in quella sala – nella concitazione di spiegare tutto l’uomo stava utilizzando uno strano miscuglio di lingue – “per la luce, das Licht… deswegen…”, da un lato la ferrovia della S-Bahn dall’altra il cortile centrale di quella complessa architettura che è l’ex KFM. Il suo vero cruccio era la Tänzerin, che l’italiana fissò con ammirazione ma anche con un po’ di fastidio e - basta con questo Canova per Dio! – pensò, mentre il suo sguardo si rivolgeva finalmente con passione a Puget, francese di nascita ma genovese d’adozione, che ammiccava, in castigo dalla parete di fondo, con i suoi putti dalle carni morbide come il burro.
In realtà tutto si risolse in nulla: Herr Doktor K. si sentì rincuorato dal proprio personale sfogo sulle problematiche dell’illuminazione, decise da solo che era cosa cui non si poteva mettere rimedio, e congedò le due “assistenti” con un “Danke, e naturalmente siete invitate all’inaugurazione”. Ognuna tornò quindi ai propri compiti, che si svolgevano dietro le quinte del museo, tra gli uffici e la biblioteca.
La grande serata - in nome della quale si era deciso di rivestire il pavimento marmoreo della Basilika con un enorme tappeto rosso, da buttare nell’immondizia il giorno seguente – fu esattamente come tutte le grandi prime: una noia mortale. Tavolini rivestiti da tovaglie salmone, salatini e olive, calici colmi di “Secco” e l’orchestra.
E. si guardò allo specchio poco convinta e capì che la camicetta azzurra da scolara e i pantaloni gessati, non le avrebbero permesso di confondersi nella folla degli invitati. Pensò sorridendo che avrebbe potuto aiutare a servire ai tavoli, nulla di nuovo infondo.
Entrò dal retro, anche quella sera, felice di incrociare nuovamente lo sguardo generoso e comprensivo dell’uomo in guardiola: la sua aria familiare, il linguaggio semplice, l’attenzione che metteva come pochi altri nel farsi capire scandendo chiaramente le parole, avevano innescato una spontanea simpatia tra il berlinese e la straniera. La ragazza non avrebbe mai scordato quel volto pulito di padre orgoglioso, che talvolta si attardava a raccontarle della famiglia e dei figli, lamentando con ironia la fatica dei turni di notte.
Spalancata la pesante porta che divideva gli uffici dalle sale, scorse frettolosamente le severe copie da Van Eyck di Coxie, la scala rotonda della piccola cupola guardata a vista da Venere e Mercurio di Pigalle, la lunga navata della Basilika con le trascurate e indigeste robbiane e infine, la grande cupola e la sua gigantesca statua equestre.
Le scale apparivano animate, più e meglio che nel XIX secolo, da sciami di bellissime ed elegantissime signore, avvolte nei loro abiti firmati Valentino e affiancate da vetusti ed illustri signori, pubblicamente celebri per nomi e titoli.
“Che ci faccio qui!” fu un pensiero quasi automatico, la solitudine la prese alla gola, oppressiva, pesante; E. cercò con lo sguardo la testa mascolina dell’altissima archeologa, Frau Doktorin M., e comprese immediatamente che la simpatica e coltissima studiosa non si sarebbe presentata ad una serata che considerava barbosa, quanto e più di lei.
Smarrita si guardò intorno, pur sapendo che era solo all’inizio, e per un attimo desiderò non essere mai partita; incrociò lo sguardo duro e supponente di C., la Volontärin dalle labbra sottili, e prese la sua decisione: risalì le scale, salutato con un sorriso il putto in terracotta invetriata sempre intento a fare la pipì e si immerse con gratitudine nella profonda notte della città.
Hackescher Markt la accolse infine con le sue luci, i locali animati dalla gente comune, gli artisti da strada e i venditori di Bratwurst e tra la folla che applaudiva, una giovane ballerina dai piedi nudi e sporchi, che faceva ruotare le torce infuocate attorno ai fianchi, al ritmo di una musica ingenua quanto atavica. Pensai ad una menade danzante.
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IL BACIO A VENEZIA
26 agosto 2007 ore 10:20 segnala
Niente di essenziale.
In realtà quel che segue è frutto solamente di una catena di ricordi che si inseguono: ieri il post su Lotto, oggi una vecchia immagine quasi sepolta, che talvolta torna alla memoria.
Ogni anno, a Carnevale, medito sulla possibilità di salire sul trenino della Valsugana ed affrontare il viaggio di tre ore che ancor oggi ci vogliono, per giungere alla stazione di S. Lucia.
Qualche anno fa lo feci e rimasi perplessa ad osservare la calca dei turisti, che tutti in borghese come me, si ammucchiavano attorno alle poche ed elegantissime maschere, per strappare l’ennesimo scatto.
Un giorno buttato, in cui Venezia sembrava poco più che un gomitolo di tubi intasati, senza poter camminare, senza poter respirare, senza nemmeno poter alzare gli occhi sui palazzi, concentrata nel non farmi inghiottire!
Povera Venezia, malata certamente, malata come scrive Mann, e non per colpa del colera…la amo di un amore insensato, forse perché anch’io veneta, e la rimpiango, quando lasciandola tiro un sospiro di sollievo.
Eppure vi fu un giorno in cui la Serenissima mi si presentò così, come doveva essere apparsa ai viaggiatori del secolo dei lumi, quando - già in piena decadenza - essa emanava ancora lo splendore e l’opulenza di una vecchia, nobile signora imbellettata e ingioiellata, stretta a forza nel più feroce dei corsetti.
Era febbraio, era freddo, era notte ed io, appena dodicenne, tremavo nel mio vestito da damina (quanto avevo pestato i piedi per quel vestito!) proprio nel centro di piazza S. Marco. Lo ricordo ancora quell’abito: di raso viola, un nastro nero in vita, le scarpe da neve nascoste sotto le balze, l’ombrellino ed una piccola borsa a sacchetto che si chiudeva con le corde.
Le finestre dei palazzi erano tutte accese, sul lato opposto alla basilica un grande palco e pericolosamente appeso sopra di esso, quasi sospeso nel nulla, un enorme lampadario che a metà nottata sarebbe caduto. La folla era gigantesca e non era umana: da ogni pertugio, da ogni calle, da ogni gondola, maschere senza volto si riversavano nella piazza.
Spalancai la bocca, gli occhi brillanti: improvvisamente il palco si era animato! Un gruppo di circensi a piedi scalzi, avvolti in tute bianche e fasce multicolori, stavano volteggiando sospesi in aria, tra cavi d’acciaio e trapezi. E quasi non contenta dell’illuminazione elettrica - sparata in ogni dove a rendere ancora più oscuri gli angoli dei vicoli - la notte si accese del bianco della neve.
Ed in mezzo a tutto ciò – io non so se al destino si debba credere o piuttosto sia preferibile prendere con la debita ironia le proprie primitive suggestioni – vidi qualcosa che allora mi commosse profondamente: una gigantesca ed animata riproduzione del Bacio di Klimt.
Tutto qui…
un volto femminile abbandonato alla stretta di due mani esigenti, un’espressione di resa incondizionata e beata a tutto quanto è già stato e dovrà ancora accadere.
L’opera della mia anima.
PS. So che qualcuno, giunto al termine del post, sarà rimasto un po’ deluso, forse perché il titolo avrebbe fatto presagire altro… nel qual caso, mi scuso.:-)))
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Madonna con Bambino e Santi
24 agosto 2007 ore 23:33 segnala
“Sono Lotto, messer Vecellio, son veneto ma vivo a Bergamo. Io vi conosco sapete, voi siete astuto e scaltro, mai vi mancheranno nobili acquirenti, perché di pubblicità ve ne siete fatta molta.
Io guardo le vostre dame e la loro falsa ingenuità, i loro fluenti capelli, mossi da riccioli vogliosi. Non mi intendo io, di corti e servigi: sono libero, non cortegiano. Non so di moda messer Tiziano, e Venezia mi da noia, perché ingrassa i ricchi come voi e tartassa i poveri cristi come me. Son Lorenzo, come il santo, ed i santi stanno con la gente. La mia arte io l’ho fatta da me, son di natura e religion christiana, et chi si ingana suo dano.”
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Favola dedicata
19 agosto 2007 ore 15:43 segnala
“Ancora una volta guardò con lo sguardo spento verso il principe; poi si gettò in mare e sentì che il suo corpo si scioglieva in schiuma. Il sole sorse alto sul mare, i raggi battevano caldi sulla gelida schiuma e la sirenetta non sentì la morte, vedeva il bel sole e su di lei volavano centinaia di bellissime creature trasparenti; attraverso le loro immagini poteva vedere la bianca vela della nave e le rosse nuvole del cielo, la loro voce era una melodia così spirituale che nessun orecchio umano poteva sentirla; così come nessun occhio umano poteva vederle. Volavano nell'aria senza ali, grazie alla loro stessa leggerezza.” (La Sirenetta, H. C. Andersen)
Stanno su scogli voci d’amore
pesci morti sulla spiaggia
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SAGRA D’AGOSTO (OVVERO DEI TURISTI IN MONTAGNA)
17 agosto 2007 ore 01:05 segnala
Non c’è dubbio, Ferragosto è l’unico giorno dell’anno che mi fa capire che vivo in un paese unito!
Sia che tu stia al di qua sia che tu stia al di là, di quella sottile linea che divide chi in quel giorno è in ferie da chi in quel giorno in ferie non è, ma lavora per chi in ferie ci sta, comunque non puoi esonerarti dal festeggiare! Puoi festeggiare in viaggio sulle autostrade, stando seduto sotto l’ombrellone, bevendo l’aperitivo, dormendo sulla spiaggia, portando piatti, lavando bicchieri, vendendo i biglietti della lotteria, la scelta è ampia e varia.
E Ferragosto è anche la giornata in cui i piccoli villaggi sparsi e protetti dalle catene montuose, vengono scoperti o riscoperti annualmente da folle di possibili nuovi abitanti, notoriamente amanti della pace, del silenzio, della tranquillità… le tipiche domande che risuonano nelle osterie sono “Ma, mi scusi, come ha detto che si chiama la località, Valperepindoche? È vero che ci sono case in vendita? Ma poi se l’inverno uno vuole andare al centro commerciale, dove sta il più vicino?”.
Stupefacenti, gli estimatori del vivere in montagna un giorno all’anno, sono assolutamente adorabili! Quando poi fai loro notare che il paesello conta ottanta abitanti col sagrestano, la perpetua, e il cane antivalanga e che il supermercato più vicino - che tra parentesi vende anche i giornali e le sigarette, ma non i preservativi, ché per quelli devi proprio presentarti al farmacista - è a 15 km, restano per lo meno perplessi…
Ma ciò che più conta, è che in montagna a Ferragosto ci sono le sagre… tutti conoscono le sagre di paese, non tutti forse sanno che esse costituiscono una incredibile riserva di fonti per gli studiosi di antropologia culturale!
Per carità, non intendo dilungarmi in un trattato sulle origini pagane di queste feste campestri e sul tentativo della Chiesa di mutare dei riti orgiastici in ricorrenze di carattere religioso, e nemmeno voglio spendere troppo tempo per parlare del dentro la festa, anche perché è un momento noto ai più… preferirei fare qualche considerazione dal mio punto di vista, quello dietro le quinte, di chi sorride, “Mi dica, ma certamente, arrivederci e grazie!”.
C’è la possibilità di restare sbalorditi, tanto per iniziare, dalla quantità incredibile di attività che la gente in vacanza si aspetta di fare in un unico giorno: a partire da quelli che hanno deciso di svegliarsi alle sei e andare a Gardaland. Ovviamente sono famiglie composte da genitori e figli piccoli e generalmente il risultato, è che li vedi scendere alle otto e mezza, con gli occhi impastati dal sonno, perché i bambini hanno trascorso la nottata ad attendere lo squillo della sveglia!
Naturalmente al viaggio non si rinuncia e non puoi che guardare gli adulti con compassione quando, speranzosi, ti domandano: “Ma troviamo qualcosa per cena anche se facciamo tardi?”… la tua compassione è dovuta al fatto che già sai che non riusciranno mai a tornare in tempo per la cena, anche perché purtroppo il navigatore satellitare in montagna fa strani scherzi, e può decidere di farti attraversare un ghiacciaio, se scopre che quello è il percorso più breve!
Ma il meglio arriva dopo pranzo, quando dai tendoni della festa cominciano a risalire le folle festanti, in cerca di un posto adatto per digerire canederli, carne salada, fagioli e patatine fritte… quale posto migliore per scontare i peccati di gola (scartata per ovvie ragioni di pennichella la passeggiata nei boschi del circondario) del baretto del paese?
Se sono giovani e alla moda la prima cosa che faranno sarà chiederti lo spritz: tu li guardi, sorridi con l’aria di saperla lunga e poi con finta indifferenza chiedi: “Un bianco con…acqua…eeee….”; a quel punto il gioco è scoperto, perché tu sei rimasta ai tempi in cui lo spritz era una cosa da vecchietti, composta di un misto di vinaccio e acqua del rubinetto, e loro invece ci vogliono anche la fettina d’arancio dentro!
Tra questi potresti trovarne alcuni, che dopo aver sciorinato l’elenco di tutte le bibite che ovviamente non hai, si dimostrino interessati alla geografia del luogo e alle cartine topografiche che tieni esposte in bella vista: “Ma il monte più alto della zona qual è?… No, perché sa, noi non siamo di qui, si vede?”, domanda sempre meno complessa di quella che un giorno mi fece un tizio, che aveva appena visitato un castello nelle vicinanze: “Sa, un mio conoscente mi ha detto che la regione con il maggior numero di castelli in Italia è la Puglia… lei ne sa qualcosa? Non è che potrebbe informarsi?” (io ammetto di non conoscere ancora la risposta, si accettano suggerimenti!).
Ma il meglio sono i complimenti: quando la gente è in vacanza, si diverte e si rilassa, ama fare complimenti, penso per la semplice ragione che si sente generosa con il mondo; ovviamente, tra i principali destinatari dei complimenti dei turisti, ci sono coloro che lavorano, nel giorno in cui gli altri non lo fanno.
Naturalmente, i complimenti possono essere semplici segni di cortesia: “Bello il posto, qui si mangia davvero bene” oppure tentativi più consistenti di folgorarti, in modo da convincerti che sei fortunata ad avere l’onore di essere lì, quel giorno, in quell’ora, in quel minuto a servire proprio quelle persone: “Sa noi siamo artisti, un po’ originali, e ci piacciono da morire questi ambienti dall’aspetto un po’ retrò, come dire, un po’ decadente… ma di un decadente voluto naturalmente, come dire, antico…e poi il paese è stupendo, senza tempo! ma avete camere? E se fermassi la stanza per tutto l’anno?”.
E poi non mancano i complimenti a sfondo sessuale… “Signorina, ma lo sa che oggi ha dei bellissimi occhi chiari?” (oggi? In che senso? Ieri no, domani neanche?) - il personaggio è grosso, ha ordinato una bottiglia di vino da nove euro, con l’intenzione di far bella figura con gli amici – io sorrido, lo sguardo leggermente ironico, e il sagace puntualizza: “Dico oggi perché ieri non la conoscevo ancora!”… a ecco.
Il pomeriggio scorre lento e veloce allo stesso tempo, quando sono le otto, inizio a vedere con speranza la fine della giornata: il palio è finito, il vincitore della gara, con tutta la famiglia, gli amici e gli eventuali ammiratori, vengono a cenare… tutto in fretta, pizze, dolce, spumante, caffè perché alle dieci c’è la premiazione!
Ha vinto un cavallo, ed io gliene sono immensamente grata, perché stasera, alla luce di un lumino, ci troveremo io, e quelle due matte delle mie migliori amiche, a bere limoncello ed amaretto nella stalla della Wese…
e che buon pro vi faccia!
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Della verità e dell'urgenza.
12 agosto 2007 ore 09:40 segnala
Riflettevo su un mio commento ad alcuni versi scritti da altra persona. Sul perché avevo pensato: “Ecco, queste parole, queste frasi, ciò che esprimono mi sembrano così vere…”. Poi un altro commento è giunto, lucido, ineccepibile: ma cosa si può definire verità nelle parole scritte da uno sconosciuto? Sempre che si possa parlare di verità in assoluto, quando si parla d’arte.
Eppure io sentivo che quella valutazione, fatta con poca riflessione, aveva un significato per me: talvolta mi capita di restare delusa, dalla lettura di racconti o versi ispirati a fatti reali o persino a esperienze personali, non perché scritti male, ma perché mi appaiono come il pretesto per un esercizio di stile.
Non che vi sia nulla di sbagliato nel curare lo stile, lungi da me anche il solo pensarlo, anzi direi che“avere stile” sia una componente fondamentale per uno scrittore talentuoso, e tuttavia, metaforicamente parlando, non c’è nulla di più disturbante del bere una bibita dall’ottimo sapore, che non riesce a toglierti la sete!
Così sono giunta alla conclusione che in realtà avevo sbagliato termine, non era la verità del testo o meno ancora del suo contenuto ad avermi colpito (del resto cosa potevo mai saperne io, ignara lettrice dietro ad uno schermo così come dietro alla pagina di un libro?) ma la sua urgenza!
Che mai c’è di vero, per assurdo, nella “Metamorfosi”, nel “Castello”, in “America” o ancor meno nel “Processo”? Pagine spettacolari ed oniriche, che deformano la realtà come la camera degli specchi, come il caleidoscopio, eppure come negare l’urgenza di quelle pagine? Come negare la scossa che le attraversa, oltre i limiti temporali, e ti colpisce nel punto più fragile dell’anima, lasciandoti sconvolto?
L’urgenza, credo, o almeno così a me piace chiamarla (ma se qualcuno trova un termine migliore, esteticamente più piacevole, ben venga!) è quella misteriosa spinta che può costringere chiunque a lanciare il suo “messaggio nella bottiglia”, non importa da dove, non importa perché e forse importa ancor meno il fatto che sia scritto bene, benino o addirittura in modo pessimo.
Questa sera, mentre una madre distratta terminava di bere il suo caffè chiacchierando con un’amica, un bimbo di sei o sette anni si è avvicinato al banco, ed a preso di nascosto una bustina di zucchero… quando si è accorto che lo stavo osservando, vistosi scoperto e alla mercé, se vi piace pensarla così, della mia omertà, senza esprimere verbo, mi ha guardato con uno sguardo che non ammetteva fraintendimenti né repliche, uno sguardo che esprimeva fino in fondo l’urgenza di un messaggio senza parole!
Ecco, questa è per me l’urgenza ed è ciò che credo di ritrovare nelle pagine dei libri che amo, un bisogno irrefrenabile di comunicare, tanto elementare da potersi scoprire anche tra le pagine di un diario scolastico, talmente forte da farti sentire che la vita pulsa ancora sotto i segni neri dell’inchiostro…
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Un'immagine
09 agosto 2007 ore 00:42 segnala
Ora voglio un'immagine, un'immagine che mi appartenga però.
Non il mio viso, quello no, lo conosco bene, né i miei occhi che vedo ogni giorno nello specchio.
Il mio viso e i miei occhi li vedo e non sono miei.
Voglio un'immagine che venga da me, da dentro.
Non il mio viso, quello no, lo conosco bene, né i miei occhi che vedo ogni giorno nello specchio.
Il mio viso e i miei occhi li vedo e non sono miei.
Voglio un'immagine che venga da me, da dentro.
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La favola della torre
08 agosto 2007 ore 19:03 segnala
La favola della torre.
Ci fu un tempo in cui le nuvole si ingrossavano all’orizzonte e le cime degli abeti bianchi sfioravano le modanature delle finestre.
Ci fu un tempo in cui i signori viaggiavano a cavallo e la plebe calcava la strada bagnata con gli zoccoli coperti di fango.
In quel tempo visse un vescovo, che era anche un principe, in quel tempo visse un principe, che talvolta sapeva di dover celebrare una messa.
E c’era una corte, attorno a quel principe, e c’erano un capitolo, un imperatore e un capitano, a reggere le sorti di un impero, vasto come è vasto il mondo.
Un giorno dei villani, che morivano di noia nei loro cenci sdruciti ed unti, nei loro zoccoli polverosi, nelle loro brache lente, decisero di ammazzare il tempo e per riuscirvi meglio, poiché il tempo fugge, rubarono del pane dalle scorte vescovili.
Gente ingrata, senza arte né parte, gente inutile ed ignorante, osava profittare del cibo che iddio aveva riservato al Loro Signore, quasi che il bene compiuto per le loro anime dal vescovo principe, dal principe vescovo, non contasse.
Poiché in quel tempo vigeva la Giustizia e la Giustizia, come ben si sa, giudica e punisce, essa ricadde, con tutto il peso della sua bilancia e della sua spada, sulla testa dei due malfattori.
Le catene ai polsi e alle caviglie stridevano sul pavimento lastricato, mentre la luce, che notoriamente illumina il Giusto, penetrava appena dalle feritoie e si soffermava sul volto del vescovo.
“Perché avete rubato? Perché proprio a me, che sono per voi come un Padre? Non vi bastavano i giochi, non vi bastavano le fiere, non vi bastavano le impiccagioni, alle quali sempre vi concedo di partecipare? Che ne fate mai di ciò che coltivate nei miei campi, non ci sfamate forse i vostri figli, le vostre mogli e voi stessi? Che ne sapete voi del mio pane? Che ne sapete voi di come è fatto, di quali farine contiene, di quanto tempo ci vuole a macinarle? Pensate forse che si diano le perle ai porci? Credete forse che non vi veda, che non veda con quale bramosia voi villani fissate l’eleganza delle vesti mie e della mia corte? Pensate forse di averne il diritto?!”
“Mio Signore” rispose allora uno dei due malcapitati, quello a cui non era ancora stata strappata la lingua “Noi rubammo il Vostro pane perché non potemmo farne a meno. Era così bianco e soffice, profumava di forno e di campi. No, noi non sappiamo leggere libri e non sappiamo scrivere, perciò se anche solo provassimo ad immaginare la morbidezza delle Vostre sete, faremmo peccato. Ed è tuttavia altrettanto vero che talvolta Voi ci venite a trovare. Che passeggiate tra le nostre case e scrutate dalle nostre finestre. Che carezzate la testa ai nostri bambini e guardate con cupidigia le nostre figlie. E la notte, venite spesso a spiarci dalle finestre, mentre amoreggiamo con le nostre donne. Perché tutto questo interessi ad un vescovo, io non lo capisco, ma il pane bianco, quello sì è una ragione per cui sarei disposto a morire”.
“Tu lo hai detto”, rispose il vescovo e finito che fu il processo li fece rinchiudere nella torre.
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