Maktub

29 marzo 2015 ore 12:56 segnala


Maktub di Paulo Coelho

“Maktub” significa “Così è scritto.” Gli Arabi pensano che “Così è scritto” non sia una buona traduzione, perché, sebbene ogni cosa sia già scritta, Dio ha compassione, e ha scritto tutto solo per aiutarci.
L’errante è a New York. E’ in ritardo ad un appuntamento, e quando lascia il suo hotel, trova che la sua macchina è stata rimossa dalla polizia.
Arriva tardi al suo appuntamento, il pranzo dura più del necessario, ed egli sta pensando alla multa che dovrà pagare. Sarà una fortuna. Improvvisamente, ricorda la banconota che trovò per strada il giorno prima, e vede una qualche strana relazione tra la banconota e quello che gli è accaduto la mattina. “Chissà, forse ho trovato quei soldi prima che la persona che avrebbe dovuto trovarli ne avesse avuta la possibilità.
Forse ho rimosso la banconota dal cammino di qualcuno che ne aveva realmente bisogno.
"Chissà chi ho allontanato da ciò che era scritto !?”
Egli sente il bisogno di liberarsi della banconota, e in quel momento vede un mendicante seduto sul marciapiede.
Gli porge velocemente la banconota, e sente di aver riportato un certo equilibrio alle cose.
“Aspetta un attimo,” dice il mendicante. “Non sto cercando aiuto. Io sono un poeta, e voglio leggerti una poesia in cambio.”
“Beh, scegline una breve, perché vado di fretta,” dice l’errante.
Il mendicante risponde: “Se sei ancora vivo, è perché non sei ancora arrivato al punto in cui dovresti essere.”
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« immagine » Maktub di Paulo Coelho “Maktub” significa “Così è scritto.” Gli Arabi pensano che “Così è scritto” non sia una buona traduzione, perché, sebbene ogni cosa sia già scritta, Dio ha compassione, e ha scritto tutto solo per aiutarci. L’errante è a New York. E’ in ritardo ad un appunta...
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La principessa sul pisello

29 marzo 2014 ore 15:21 segnala




C'era una volta un principe che voleva avere per sé una principessa, ma doveva essere una vera principessa.

Perciò viaggiò per tutto il mondo per trovarne una, ma ogni volta c'era qualcosa di strano: di principesse ce n'erano molte, ma non poteva mai essere certo che fossero vere principesse; infatti sempre qualcosa andava storto. Così se ne tornò a casa e era veramente molto triste, perché desiderava di cuore trovare una vera principessa.

Una sera c'era un tempo pessimo, lampeggiava e tuonava, la pioggia scrosciava, che cosa terribile! Bussarono alla porta della città e il vecchio re andò a aprire.

C'era una principessa lì fuori. Ma come era conciata con quella pioggia e quel brutto tempo! L'acqua le scorreva lungo i capelli e gli abiti e le entrava nelle scarpe dalla punta e le usciva dai tacchi; eppure sosteneva di essere una vera principessa.

“Adesso lo scopriremo!” pensò la vecchia regina, ma non disse nulla, andò nella camera da letto, tolse tutte le coperte e mise sul fondo del letto un pisello, su cui mise venti materassi e poi venti piumini.

Lì doveva passare la notte la principessa.

Il mattino successivo le chiesero come avesse dormito.

«Oh, terribilmente male» disse la principessa «non ho quasi chiuso occhio tutta la notte. Dio solo sa, che cosa c'era nel letto! Ero sdraiata su qualcosa di duro, e ora sono tutta un livido. È terribile!»

Così poterono constatare che era una vera principessa, perché attraverso i venti materassi e i venti piumini aveva sentito il pisello. Nessuno poteva essere così sensibile se non una vera principessa.

Il principe la prese in sposa, perché ora sapeva di aver trovato una vera principessa, e il pisello fu messo nella galleria d'arte, dove ancor oggi si può ammirare, se nessuno l'ha preso.

Bada bene, questa è una storia vera
!


Hans Christian Andersen - Fiabe
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« immagine » C'era una volta un principe che voleva avere per sé una principessa, ma doveva essere una vera principessa. Perciò viaggiò per tutto il mondo per trovarne una, ma ogni volta c'era qualcosa di strano: di principesse ce n'erano molte, ma non poteva mai essere certo che fossero vere ...
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Storia del vecchio e della Principessa

05 dicembre 2013 ore 23:58 segnala


STORIA DEL TERZO VECCHIO
E DELLA PRINCIPESSA SCIRINA



Io sono figliuolo unico d’un ricco mercante di Surate. Poco tempo dopo la sua morte, dissipai la miglior parte dei molti beni ch’egli mi aveva lasciati, e terminava di consumarne il resto cogli amici, allorché trovossi per caso alla mia mensa un forastiero che passava per Surate, per andare all’isola di Serendib. La conversazione cadde sui viaggi. Se si potesse — soggiunsi sorridendo — andare da un capo all’altro della terra senza fare cattivi incontri per istrada, domani ancora io uscirei di Surate.
A queste parole lo straniero mi disse:
— Malek, se avete voglia di viaggiare, v’insegnerò, quando vogliate, un modo di andare impunemente di regno in regno.
Dopo il pranzo, mi prese in disparte per dirmi che l’indomani mattina si recherebbe da me.

Venuto infatti a ritrovarmi, mi disse:
— Voglio mantenervi la parola: mandate da un vostro schiavo a chiamare un falegname, e fate sì che tornino ambedue carichi di tavole.
Giunti che furono il falegname e lo schiavo, lo straniero disse al primo di fare una cassa lunga sei piedi e larga quattro. Il forestiere, dal canto suo non stette in ozio, fece parecchi pezzi della macchina, come viti e molle, lavorando ambedue tutto il giorno; dopo di che il falegname fu licenziato, e lo straniero passò il giorno seguente a distribuire le molle ed a perfezionare il lavoro.
Finalmente il terzo giorno trovandosi terminata la cassa, fu coperta con un tappeto di Persia, e portata in campagna, dove recatomi col forestiero questi mi disse:
— Rimandate i vostri schiavi e restiamo qui soli.
Ordinai a’ miei schiavi di tornare a casa, e solo restai con quello straniero. Mi affannava per sapere cosa farebbe di quella macchina, allorché vi entrò dentro, e in pari tempo la cassa si alzò da terra volando per l’aria con incredibile celerità; e sicché in un momento fu lungi da me, per poi un istante dopo tornare a discendere a’ miei piedi.
— Voi vedete, — mi disse il forastiero uscendo dalla macchina — una vettura assai comoda; vi faccio dono di questa cassa; ve ne servirete se vi pigli la voglia, quando che sia, di percorrere i paesi stranieri.

Ringraziai lo straniero e gli diedi una borsa di zecchini.
— Insegnatemi — gli domandai poi — come si fa a mettere in moto la cassa?
— È cosa che imparerete presto, — mi rispose.
Così detto mi fece entrare nella macchina con lui, poi toccata una vite fummo tosto sollevati in aria: allora mostrandomi in che modo si avesse a condursi per dirigersi sicuramente:
— Girando questa vite — mi diceva — andrete a destra, e girando quest’altra, andrete a sinistra: torcendo questa molla, salirete; toccando quella là, discenderete.
Volli farne il saggio io medesimo. Girai le viti, e toccai le molle; ed infatti la cassa, obbediente alla mia mano, andava secondo che mi piaceva e mi precitava a mio piacere o rallentava il movimento. Fatte alquante giravolte per l’aria, spiccammo il volo verso casa, e andammo a scendere nel mio giardino. Fummo a casa prima de’ miei schiavi; feci chiuder la cassa nel mio appartamento, ed il forestiere se ne andò. Continuai a divertirmi co’ miei amici sino a tanto che ebbi terminato di mangiare il mio patrimonio; incominciai anche a prendere in prestito, sì che insensibilmente mi trovai carico di debiti. Vedendomi vicino a soffrire dispiaceri ed affronti, ricorsi alla mia cassa; la trascinai di notte tempo dal mio appartamento in una corte, mi vi chiusi dentro con dei viveri ed il poco denaro che mi rimaneva. Toccai la molla che faceva ascendere la macchina: poi girando una vite, mi allontanai da Surate e da’ miei creditori. Feci, durante la notte, andare la cassa più velocemente possibile. Allo spuntar del giorno, guardai per un buco, ma non vidi che montagne, che precipizi, e una campagna arida.
Continuai a percorrere l’aria tutto il giorno e l’indomani mi trovai sopra un bosco foltissimo, presso al quale era un’assai bella città. Mi fermai per considerare la città, non meno che un palazzo magnifico che presentavasi a’ miei occhi, quando vidi un contadino nella campagna che lavorava la terra. Discesi nel bosco, e lasciatavi la cassa, mi avanzai verso l’agricoltore, al quale domandai come si chiamasse quella città.
— Giovane — quegli mi rispose — si vede bene che siete forestiero poiché non sapete che questa città si chiama Gazna. Quivi fa il suo soggiorno il buono e valoroso re Bahaman.
— E chi alberga — gli chiesi — in quel palazzo?
— Il re di Gazna — rispose l’ha fatto fabbricar per tenervi rinchiusa la principessa Scirina sua figliuola, dal suo oroscopo minacciata d’esser ingannata da un uomo.
Ringraziai il contadino di avermi istruito di tutte queste cose, e volsi i passi verso la città. Com’era presso ad entrarvi, udii un gran rumore, e presto io vidi comparire parecchi cavalieri magnificamente vestiti, tutti montati sopra bellissimi cavalli, riccamente bardati. In mezzo a quella superba cavalcata eravi un uomo grande che teneva in testa una corona d’oro, i cui abiti erano sparsi di diamanti; giudicai che fosse il re di Gazna e seppi infatti nella città che non mi ero ingannato.



Fatto il giro della città, mi risovvenni della mia cassa; uscito da Gazna, non acquietai l’animo sin che non fui giunto dove si trovava.
Allora ripigliai la mia tranquillità; mangiai con molto appetito quel che mi restava di provvigioni e siccome capitò presto a notte, determinai di passarla in quel bosco. Non mi riuscì di addormentarmi: ciò che il contadino mi aveva narrato della principessa Scirina mi stava senza posa fitto nel pensiero.
A forza di pensare a Scirina, che io mi dipingeva più bella di quante mai donne avessi vedute, mi venne voglia di tentare la fortuna.
— Bisogna — dissi tra me — che mi trasporti sul tetto del palazzo della Principessa, e procuri d’introdurmi nel suo appartamento; chi sa che non abbia la ventura di piacerle?
Formai dunque la temeraria risoluzione e la posi sul momento ad effetto. Sollevatomi in aria, condussi la mia cassa verso il palazzo. Passai senza essere scorto sopra la testa dei soldati, e discesi sul tetto. Uscito dalla cassa, sdrucciolai dentro per una finestra, entrando in appartamento adorno di ricche suppellettili, dove sopra un sofà di broccato riposava la principessa Scirina, che mi parve di abbagliante bellezza.



Me le accostai per contemplarla: mi posi poi ginocchioni a lei dinanzi, baciandole una di quelle bellissime mani.
Destossi sul momento, e scorgendo un uomo in atteggiamento d’intimorirla, diè un grido che presto attrasse presso di lei l’aia, la quale dormiva in una stanza vicina.
— Mahpeiker — le disse la Principessa — accorrete in mio aiuto; ecco un uomo; come poté egli introdursi nel mio appartamento? O piuttosto, non siete voi complice del suo misfatto?
— Chi, io? — ripigliò la governante — Ah! questo sospetto mi oltraggia: non istupisco meno di voi di vedere qui questo giovane temerario; d’altra parte, quando pure avessi voluto favorire la sua audacia, come avrei potuto ingannare la Guardia vigilante che sta intorno al castello? Sapete che vi sono venti porte di acciaio da aprire prima di giunger qui; che sopra ogni serratura sta impresso il regio sigillo, e che il re vostro padre ne tiene le chiavi: non comprendo in qual maniera questo giovane abbia superate tante difficoltà.
Intanto che l’aia parlava in tal guisa, io pensava a quello che avessi a dire. Mi venne in mente di persuaderla d’essere il profeta Maometto.
— Bella Principessa — dissi dunque a Scirina — non istupite, e neppure voi, Mahpeiker, se mi vedete comparire qui. Io sono il profeta Maometto, e non ho potuto, senza pietà vedervi condannata a passare i bei giorni vostri in un carcere, e vengo a darvi la mia fede per mettervi al sicuro della predizione di cui si spaventa Bahaman vostro padre. Mettete ormai, come lui, lo spirito in calma sul vostro destino ch’essere non saprebbe se non pieno di gloria e di felicità, poiché sarete sposa a Maometto. Tosto che sia sparsa nel mondo la nuova del vostro maritaggio, tutti i Re temeranno il suocero del gran Profeta, e tutte le principesse v’invidieranno sì gran sorte.
Mahpeiker e la principessa prestarono fede alla mia favola.
Passata la miglior parte della notte colla principessa di Gazna, uscii prima di giorno dal suo appartamento, non senza prometterle di tornare l’indomani. Corsi al più presto alla macchina, e postomici dentro, mi sollevai altissimo per non esser veduto dai soldati.
Andato a discendere nel bosco, vi lasciai la cassa e presi la via della città, ove comprai delle vettovaglie per otto giorni, degli abiti magnifici, un bel turbante di tela delle Indie a righe d’oro, con una ricca cintura; né dimenticai le essenze ed i profumi migliori, impiegando in queste spese tutto il mio denaro.
Rimasi tutto il giorno nel bosco ad abbigliarmi e profumarmi. Appena giunta la notte, entrai nella cassa e volai sul tetto del palazzo di Scirina, introducendomi nel suo appartamento come la notte precedente. La Principessa dimostrò come mi attendesse con molta impazienza.

— O gran Profeta! — mi disse — incominciava ad inquietarmi, e temeva che aveste già dimenticata la vostra sposa. Ma ditemi, perché avete l’aspetto così giovanile? Io m’immaginava che il profeta Maometto fosse un vegliardo venerabile.
— Né v’ingannate — le dissi — ed è l’idea che aver si deve di me; e se vi comparissi dinanzi qual apparisco talvolta ai fedeli a’ quali mi compiaccio di fare un simile onore, mi vedreste una lunga barba bianca: ma mi è parso che voi amereste una figura meno antica, e per questo presi la forma d’un giovane.
Uscii nuovamente dal Castello sulla fine della notte, e vi tornai l’indomani sempre conducendomi così destramente, che Scirina e Mahpeiker non sospettarono nemmeno che vi potesse essere nel fatto nessun inganno.
Al termine di alcuni giorni, il re di Gazna recossi, seguito da’ suoi ufficiali, al Palazzo della Principessa sua figliuola, e trovandone le porte ben chiuse, ed il suo sigillo sulle serrature, disse a’ suoi Visir che lo accompagnavano:
— Tutto cammina per il meglio. Sinché le porte del palazzo rimarranno in questa condizione, poco temo la disgrazia ond’è minacciata mia figlia.
Salì solo all’appartamento di Scirina, che, al vederlo, non poté non turbarsi, ed egli avvistosene, volle saperne la cagione; curiosità che accrebbe il turbamento della principessa, la quale vedendosi finalmente obbligata, ad
appagarlo, gli narrò tutto quanto era corso. Si può immaginarsi qual fu lo stupore del re Bahaman, allorché seppe di essere, all’insaputa sua, suocero di Maometto.
— Ah! quale assurdità — esclamò egli — ah figlia, quanto siete credula! O cielo! ben veggo presentemente come sia inutile voler evitare le disgrazie che tu ci riservi; l’oroscopo di Scirina è compiuto, un traditore l’ha sedotta!
Così dicendo, uscì agitatissimo dall’appartamento della Principessa, e visitò da cima a fondo tutto il palazzo. Ma ebbe un bel cercare per ogni dove; che non iscoprì traccia veruna del seduttore.
Per dove — chiedeva egli — può essere entrato l’audace in questo castello? Davvero ch’io nol so comprendere.
Bahaman, attendendo la notte, si diede nel frattempo a fare nuove interrogazioni alla Principessa, domandandole prima di tutto se avesse mangiato con lei.
— No, o signore — gli disse la figliuola — indarno gli ho offerto vivande e liquori; non ne ha voluto, e dacché viene qui, non l’ho veduto mai prender cibo di sorta.
Frattanto capitò la notte. Sedutosi Bahaman sur un sofà, fece accendere i lumi che furongli posti davanti sopra una tavola di marmo, mentre egli sguainò la spada, per servirsene al caso, lavando nel sangue l’affronto fatto all’onor suo. Un lampo che ferì gli occhi del Re lo fece rimbalzare, onde si avvicinò alla finestra per la quale gli raccontò Scirina ch’io doveva entrare e vedendo il cielo tutto di fuoco, gli si turbò l’immaginazione. Nella disposizione in cui trovavasi l’animo del Re, io poteva presentarmi impunemente dinanzi a quel principe, ed anzi, lungi dal dimostrarsi furibondo allorché io apparvi alla finestra, si trovò tutto compreso da rispetto e timore; per modo che, lasciatasi cader di mano la sciabola e, cadendomi a’ piedi, me li baciò, e mi disse:
— O gran Profeta! Chi sono e che ho io meritato per meritar l’onore d’esservi suocero?
— O gran re — gli dissi rialzandolo — voi tra tutti i principi musulmani siete il più attaccato alla mia religione: per conseguenza chi più dev’essermi gradito! Era scritto sulla tavola fatale che vostra figlia sarebbe sedotta da un uomo, il che i vostri indovini hanno benissimo scoperto mediante i lumi dell’astrologia: ma io pregai l’altissimo Allah di risparmiarvene il dispiacere mortale, e togliere simile disgrazia alla predestinazione degli uomini; il che egli si compiacque di fare per amor mio, a condizione che Scirina diventasse una delle mie mogli.
Credette il debole Principe tutto ciò che gli dissi, e beato d’imparentarsi col gran Profeta mi si gettò una seconda volta ai piedi, per attestarmi il sentimento che aveva della mia bontà. Lo rialzai di nuovo, lo abbracciai, e lo assicurai della mia protezione, intanto ch’egli non sapeva trovar termini a suo grado abbastanza forti per ringraziarmene. Dopo di che, credendo che fosse creanza il lasciarmi solo con sua figlia, si ritirò in altra stanza.
Rimasi con Scirina alquante ore: ma al finir della notte, me ne tornai al bosco.
Nel medesimo giorno avvenne un incidente che terminò di raffermare il Re nell’opinione sua. Mentre egli tornava col suo seguito alla città li sorprese nella pianura un temporale, durante il quale mille lampi gli coprirono gli occhi.
Accadde per caso che il cavallo di un cortigiano, incredulo a ciò che riguardava il preteso Profeta, adombrasse; s’impennò e gettò per terra il padrone che si ruppe una gamba.
— O miserabile! — esclamò il Re, vedendo cadere il cortigiano — ecco il frutto della ostinazione nel non volermi credere che il Profeta ti punisce.
Portarono il ferito a casa sua, e non fu Bahaman sì tosto nel suo palazzo che fece pubblicare un bando per Gazna, col quale diceva esser suo volere che tutti gli abitanti celebrassero con grandi feste il matrimonio di Scirina, con Maometto.
Si fecero pubbliche allegrezze, ed udivasi da per tutto gridare:
— Viva Bahaman suocero del Profeta!
Tosto capitata la notte, volai al bosco, e presto fui dalla Principessa.

— Bella Scirina — le dissi entrando nel suo appartamento — voi non sapete ciò che oggi è accaduto nella spianata. Un cortigiano il quale dubitava che voi aveste sposato Maometto, espiò il suo dubbio; suscitai una tempesta della quale il suo cavallo si spaventò; ed il cortigiano caduto, si spezzò una gamba.
Passato quindi alcune ore colla Principessa, me ne partii.
Il giorno dopo il Re riunì i suoi Visir e i suoi cortigiani:
— Andiamo tutti insieme — disse loro — a chieder perdono a Maometto pel disgraziato che negò di credermi, ed ebbe il gastigo della sua incredulità.
In pari tempo, montati a cavallo, recaronsi al Palazzo della Principessa, ed egli, seguito da’ suoi, salì all’appartamento di sua figlia, a cui disse:
— Scirina, veniamo a pregarvi d’intercedere presso il Profeta per un uomo che si è attirato il suo sdegno.
— So cosa è, o signore, — gli rispose la Principessa — Maometto me ne ha parlato.
Tutti i ministri e gli altri rimasero convinti che quella era moglie del Profeta, e prosternandosi a lei dinanzi, umilmente la supplicarono a pregarmi in favore del cortigiano ferito: il che essa loro promise.
Nel frattempo mangiai tutto ciò che aveva di vettovaglie, e siccome non mi restava più denaro, così il Pro62
feta Maometto incominciava a non saper più dove batter la testa. Immaginai allora un espediente: — Principessa — dissi una notte a Scirina — abbiamo dimenticato di osservare nel nostro matrimonio una formalità: Voi non mi deste dote, e questa ommissione mi fa pena. Basterà che mi diate alcuno dei vostri gioielli, sola dote ch’io vi domandi.
Scirina voleva caricarmi di tutte le sue gemme, ma io mi contentai di prendere due grossi diamanti, che il giorno appresso vendetti a un gioielliere.
Era già quasi un mese che passando pel Profeta menava una vita piacevolissima, allorché capitò nella città di Gazna un Ambasciatore che veniva da parte di un Re vicino a chiedere Scirina in matrimonio.
— Mi duole — rispose Bahaman — di non poter accordare al re vostro signore mia figlia, avendola data in isposa al Profeta Maometto!
L’Ambasciatore, da tale risposta del Re, argomentò che fosse divenuto pazzo.
Prese congedo, e ritornò al suo Signore, che alla prima credette che quello avesse perduto il senno; poi imputando il rifiuto a disprezzo, fu punto, e chiamate alquante truppe, formò un grosso esercito, col quale entrò nel regno di Gazna.
Questo Re chiamavasi Cacem, ed era più forte di Bahaman; il quale dall’altra parte si preparò così lenta63
mente a ricevere il nemico, che non gli poté impedire di fare grandi progressi.
Intanto il Re di Gazna, informato del numero e del valore dei soldati di Cacem, incominciò a tremare, e radunato il suo consiglio, il cortigiano fattosi male cadendo da cavallo, parlò in questi termini:
— Io stupisco che il Re dimostri in questa occasione tanta inquietudine. Qual danno, tutti i Principi del mondo insieme uniti, possono mai cagionare al suocero di Maometto?
— Avete ragione; al gran Profeta appunto io devo rivolgermi. Ciò detto andò a trovare Scirina, a cui disse:
— Figlia, appena domani spunterà la luce del giorno, Cacem ci deve assalire, e temo non isforzi i nostri trinceramenti; vengo dunque a pregar Maometto di volerci aiutare.
— Signore — rispose la principessa — non sarà troppo difficile interessare alle nostre parti il Profeta: egli disperderà ben presto le truppe nemiche, ed a spese di Cacem impareranno a rispettarvi tutti i Re del mondo!
— Intanto — riprese il Re — la notte si avanza, ed il Profeta non comparisce: ci avrebbe egli abbandonati?
— No, padre mio — ripigliò Scirina — non crediate che egli ci possa mancare nel bisogno. Ei vede dal cielo, dov’è l’esercito che ci assedia, e forse sta già mettendovi il disordine ed il terrore.

Era infatti ciò che Maometto aveva voglia di fare.
Osservate, nel corso del giorno, di lontano, le schiere di Cacem, ne avevo notata la disposizione, e preso sopratutto di mira il quartiere del Re. Raccolti quindi molti ciottoli grandi e piccoli, ne riempii la cassa, e sollevandomi verso mezzanotte nell’aria, m’inoltrai verso le tende di Cacem, tra le quali distinsi quella in cui il Re riposava.
Tutti i soldati che trovavansi attorno alla tenda dormivano il che mi concesse di scendere, senza che alcuno mi scorgesse, sino ad una finestra, d’onde vidi il Re coricato sur un sofà.
Uscii mezzo dalla mia cassa, e scagliando a Cacem un gran sasso, lo colpii in fronte ferendolo gravemente.
Egli sentendosi colpire mandò un alto strido, che subito destò le guardie e gli ufficiali, i quali accorsi dal Principe, lo trovarono coperto di sangue e quasi senza sentimenti.
Intanto io mi sollevai sino alle nubi, lasciando cadere una grandine di pietre sulla tenda reale e nelle vicinanze.
Allora il terrore s’impadronì dell’esercito; i nemici di Bahaman, colti da terrore, si diedero alla fuga con tal furia, che abbandonarono equipaggi, tende, e ogni cosa gridando:
— Siam perduti! Maometto ci stermina tutti quanti.
Il Re di Gazna restò assai sorpreso allo spuntar del giorno, quando si avvide che il nemico si ritirava. Si diede dunque a perseguitarlo co’ suoi migliori soldati, e fatta strage dei fuggitivi, raggiunse Cacem, la cui ferita gl’impediva di correre prestissimo.
— Perché — si fece a dirgli — sei venuto contro ogni ragione e diritto ne’ miei stati? Quale motivo ti ho dato di farmi guerra?
— Bahaman — gli rispose il Re vinto — io mi immaginava che tu mi avessi negata la figlia per dispetto, e io ho voluto vendicarmi! Non potevo credere che il Profeta ti fosse genero: ma ora però non ne dubito, perché egli solo fu quello che mi ferì.
Bahaman cessò di perseguitare i nemici, e tornò a Gazna, con Cacem, il quale morì della sua ferita.
In tutte le moschee si fecero preghiere per ringraziare il cielo di aver confusi i nemici dello Stato, e quando fu notte, il Re si recò al palazzo della Principessa.
— Figlia — le disse — vengo a render grazie al Profeta di quanto gli debbo.
Presto ebbe il contento che bramava, ché subito entrai per la solita finestra nell’appartamento di Scirina.
Gettandosi subitamente a’ miei piedi, il Re baciò la terra dicendo:
— O gran profeta! non vi sono termini, per esprimervi tutto ciò che provo.

Sollevai Bahaman e lo baciai in fronte dicendogli:
— Principe, voi poteste pensare che io vi negassi l’aiuto mio nell’impaccio nel quale per mio amore voi vi trovate: ho punito l’orgoglioso Cacem, che voleva rendersi padrone de’ vostri Stati, e rapire Scirina, per metterla tra le schiave del suo Serraglio.
Nuovamente assicurato il Re di Gazna che io prendeva sotto la mia protezione il suo regno se n’andò per lasciarmi Scirina in libertà.


La qual Principessa non meno sensibile del Re suo padre all’importante servigio da me reso allo Stato, me ne dimostrò non minore riconoscenza, facendomi mille carezze. Poco mancò che quella volta non dimenticassi le mie parti: già stava per apparire il giorno allorché tornai alla mia cassa.
Due giorni dopo, sepolto Cacem, il Re di Gazna, ordinò che si facessero per la città grandi allegrezze, tanto per la disfatta delle truppe nemiche quanto per celebrare solennemente il matrimonio della principessa Scirina con Maometto.
M’immaginai di dover segnare con qualche prodigio la festa che si facea in onor mio, e a tale effetto, comprata della pece, con dei semi di cotone ed un piccolo acciarino, passai la giornata nel bosco a preparare un fuoco d’artificio, bagnando il seme di cotone nella pece, e la notte, mentre il popolo divertivasi nelle strade, mi trasferii sopra la città, inalzatomi più alto che mi fosse possibile, accesi la pece, che colla grana fece un bellissimo effetto: poi ritornai nel mio bosco.
Fatto dopo poco giorno, andai alla città per avere il piacere di udir cosa si direbbe di me. Mille discorsi stravaganti si facevano dal popolo sul tratto ch’io gli aveva giuocato. Tutti quei discorsi mi divertirono infinitamente: ma ohimè! mentre mi prendeva quel piacere la mia cassa, la mia cara cassa, l’istrumento de’ miei prodigii, vidi che ardeva nel bosco!
Probabilmente durante la mia assenza s’appiccò alla macchina una scintilla, della quale non mi era avveduto, la consumò, sì che al ritorno la trovai tutta in cenere. Eccheggiò il bosco delle mie grida e de’ miei lamenti e invano mi strappava i capelli e mi lacerava le vesti....
Intanto il male era senza rimedio; bisognava prendere una risoluzione, né me ne restava che una sola: quella cioè di andare a cercar fortuna altrove. Così il Profeta Maometto, si allontanò dalla città di Gazna.
Incontrai tre giorni dopo una grossa carovana di mercanti del Cairo che tornavano in patria; mi mischiai con essi, e recatomi al gran Cairo, mi posi a esercitare la mercatura. Girai molti paesi e visitai non poche città, sempre ricordandomi del mio felice passato. Finalmente invecchiato, capitai fin qua, imbattendomi nell’infelice a cui tu, o gran principe de’ Genii, volevi toglier la vita.
Il Genio, non appena n’ebbe udito la fine, accordò l’ultimo terzo della grazia del mercante, e poscia disparve.

Il mercante non mancò di rendere a’ suoi tre liberatori le grazie che loro doveva, e se ne tornò presso la sua sposa e i suoi figli, e passò tranquillamente con loro il resto de’ suoi giorni.
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« immagine » STORIA DEL TERZO VECCHIO E DELLA PRINCIPESSA SCIRINA Io sono figliuolo unico d’un ricco mercante di Surate. Poco tempo dopo la sua morte, dissipai la miglior parte dei molti beni ch’egli mi aveva lasciati, e terminava di consumarne il resto cogli amici, allorché trovossi per caso ...
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...così continua la narrazione...

09 novembre 2013 ore 21:00 segnala


Il secondo vecchio, che conduceva i due cani neri, si diresse al genio e
gli disse:
«Io vi racconterò ciò che avvenne a me e a questi due cani, sicuro che
voi troverete la mia storia ancor più sorprendente di quella or ora intesa.
Ma quando ve l'avrò raccontata, mi promettete voi il secondo terzo della
grazia di questo mercante?»
«Sì» rispose il genio «purché la tua storia sorpassi in novità quella
della cerva.»
Dopo questo consenso il secondo vecchio incominciò.


STORIA DEL SECONDO VECCHIO
E DEI DUE CANI NERI



Gran principe dei geni, noi siamo tre fratelli, questi due cani e io.
Nostro padre lasciò morendo a ciascuno di noi mille dinàr. Con
questa somma abbracciammo tutti e tre la stessa professione e ci
facemmo mercanti.




Poco tempo dopo aver aperto bottega, mio fratello maggiore, uno di
questi due cani, risolvette di viaggiare e di andar negoziando in paese
straniero. Con questo disegno barattò il suo capitale in tanta mercanzia
atta al negozio che voleva fare. Partì e rimase assente un anno intero.
Al termine di questo tempo un povero, che mi parve cercar
l'elemosina si presentò alla mia bottega, io gli dissi:
«Dio vi assista!»
«E Dio assista anche voi» egli mi rispose «è dunque possibile che non
mi riconosciate più?»
Allora fissandolo con attenzione lo riconobbi.
«Oh! fratello» esclamai abbracciandolo «come avrei potuto
riconoscervi in questo stato?»
Lo feci entrare in casa mia, gli domandai ragguagli sulla sua salute e
sulle sue avventure nel viaggio.
«Non mi fate questa domanda» mi disse «sarebbe lo stesso che
rinnovare il mio dolore, se vi facessi la narrazione di tutte le sventure che
mi assalirono riducendomi nello stato in cui sono.»
Io feci chiudere subito la mia bottega e, abbandonando ogni altra
cura, lo accompagnai al bagno e gli diedi i più begli abiti del mio
guardaroba. Esaminai i miei registri di compra e vendita e, trovando che
avevo raddoppiato il mio capitale, cioè che io ero ricco di duemila dinàr,
gliene donai la metà. «Con questo, fratello mio» gli dissi «potrete
dimenticare la perdita fatta.» Egli accettò i mille dinàr con gioia, ristabilì
i suoi affari e vivemmo insieme come eravamo vissuti prima.
Qualche tempo dopo, il mio secondo fratello, che è l'altro di questi due
cani, partì egli pure ritornando dopo aver sciupato quanto possedeva. Lo
feci rivestire e siccome avevo accresciuto il mio capitale di mille altri dinàr,
glieli donai. Rimise bottega e continuò a esercitare la sua professione.

Un giorno i miei due fratelli vennero a propormi di fare un viaggio e
di andare a trafficare con essi. Rigettai da principio il loro progetto.
«Voi avete viaggiato» dissi loro «che avete guadagnato?»
Invano mi rappresentarono in varii modi ciò che a loro sembrava
dovermi abbagliare, per incoraggiarmi a tentar la fortuna, io rifiutai di
entrare nel loro disegno.
Ma essi ritornarono tante volte a importunarmi che, dopo avere per
cinque anni resistito costantemente alle loro sollecitazioni, alfine mi vi
arresi.
Quando bisognò fare i preparativi del viaggio e comperare le
mercanzie di cui avevamo bisogno, si trovò che essi avevano speso tutto.
Io non mossi loro il minimo rimprovero, e poiché il mio capitale era di
seimila dinàr, ne divisi con essi la metà, dicendo loro:
«Fratelli, bisogna rischiare questi tremila dinàr, nasconder gli altri in
qualche luogo sicuro affinché, se il nostro viaggio non sarà più felice di
quello che avete fatto voi, abbiamo almeno di che riprendere la nostra
antica professione al ritorno.»
Io diedi nuovamente mille dinàr a ciascuno di loro, ne tenni per me
altrettanti e nascosi le tre altre migliaia in un angolo della mia casa.
Comprammo delle mercanzie e, dopo averle imbarcate sopra un
bastimento che noleggiammo, con un vento favorevole facemmo sciogliere
le vele.
Infine, dopo due mesi di navigazione, arrivammo felicemente a un
porto ove, appena sbarcati, facemmo un grande spaccio delle nostre
mercanzie. Io soprattutto vendetti così bene le mie che guadagnai dieci
sopra uno.
Comprammo delle mercanzie del paese per trasportarle e negoziarle
nel nostro.



Mentre eravamo pronti a imbarcarci per il ritorno, incontrai sul lido
del mare una donna molto bella, ma miseramente vestita. Essa mi si
avvicinò, mi baciò la mano mi pregò di prenderla in moglie e di
imbarcarla con me.
Io feci delle difficoltà per accordarle ciò che chiedeva, ma mi disse
tante cose per persuadermi di non badare alla sua povertà, che io ebbi
motivo di essere contento della sua condotta e mi lasciai convincere. Le
feci fare degli abiti adatti e, dopo averla sposata in buona forma,
l'imbarcai con me e sciogliemmo le vele.
Durante la nostra navigazione, trovai tante belle qualità nella donna
che avevo preso, che io l'amavo ogni giorno di più.
Intanto i miei fratelli, che non avevano fatti i loro affari così bene
come me, ed erano gelosi della mia prosperità, mi portavano invidia.
Il loro furore giunse fino a farli cospirare contro la mia vita.

Una notte, mentre la mia sposa e io dormivamo, ci gettarono nel
mare.
Mia moglie era fata, e per conseguenza genio, dunque ella non
annegò. Per me è certo che senza il suo soccorso sarei morto, non appena
caddi nell'acqua, essa mi rilevò e mi trasportò in un'isola.
Quando fu giorno, la fata mi disse:
«Vedete, marito mio, che salvandovi la vita, non vi ho mal
compensato del bene che mi avete fatto. Sappiate che io sono fata, e che
trovandomi sul lido del mare quando voi andavate a imbarcarvi, io provai
una forte inclinazione per voi. Volli provare la bontà del vostro cuore e mi
presentai a voi travestita nel modo che mi avete vista. Voi mi avete
trattato generosamente e io sono lieta di aver trovato l'occasione di
mostrarvi la mia riconoscenza. Ma sono tanto irritata contro i vostri fratelli,
che non sarò mai soddisfatta se non avrò tolto loro la vita.»
Io ascoltai con ammirazione il discorso della fata e la ringraziai il
meglio che mi fu possibile della grande generosità che mi aveva usato.
«Signora» le dissi «per ciò che riguarda i miei fratelli vi prego di
perdonarli. Quantunque abbia motivo di lagnarmi di loro, non sono così
crudele da volerne la perdita.»
Le narrai ciò che avevo fatto per l'uno e per l'altro e il mio racconto
aumentò la sua indignazione contro essi:
«Bisogna» esclamò «che io corra subito dietro questi ingrati e traditori
e ne prenda forte vendetta, io vado a sommergere il loro vascello e a
precipitarlo nel fondo del mare.»
«No, mia bella signora» risposi «in nome di Dio, non ne fate nulla,
moderate la vostra collera, pensate che sono miei fratelli e che bisogna
render bene per male.»
Con queste parole acquietai la fata, e quando le ebbi pronunziate,
essa mi trasportò in un istante dall'isola dove eravamo, sul tetto della mia
casa, che era a terrazzo, e un momento dopo disparve.
Io scesi, aprii le porte, e dissotterrai i tremila dinàr che avevo
nascosto. Quindi andato alla piazza dov'era la mia bottega, l'aprii, e
ricevetti dai mercanti miei vicini molti complimenti sul mio ritorno.
Quando vi entrai, vidi questi due cani neri che vennero a incontrarmi
con aria sommessa. Io non sapevo che significasse tutto ciò, e ne restai
fortemente sorpreso.
Ma la fata, che subito mi apparve, me lo spiegò.
«Sposo» mi disse «non siate sorpreso di veder questi due cani presso
di voi, essi sono i vostri due fratelli.»
Io fremetti a queste parole e le domandai per qual potenza si
trovavano in quello stato.

«Sono io che li ho trasformati, o per dir meglio fu una delle mie
sorelle, alla quale ne diedi la commissione, e che nello stesso tempo ha
calato a fondo il loro vascello. Voi perdeste le mercanzie che vi avevate,
ma io vi compenserò in altro modo. Riguardo ai vostri fratelli, io li ho
condannati a star dieci anni sotto questa forma.»
Finalmente, dopo avermi insegnato ove potrei aver sue notizie,
disparve.
«Adesso che i dieci anni sono compiuti, io sono in cammino per
andarla a cercare, e come passando di qui ho incontrato il mercante e il
buon vecchio che conduceva la cerva, mi sono arrestato con essi.»
«Ecco la mia storia, o principe dei geni, non vi sembra delle più
straordinarie?»
«Ne convengo» rispose il genio «e rimetto perciò al mercante il
secondo terzo del delitto al cui si è reso colpevole verso di me.»
Tosto che il secondo vecchio ebbe terminata la sua storia, il terzo
prese la parola, e fece al genio la stessa domanda dei due primi, cioè a
dire di rimettere al mercante l'altro terzo del suo delitto, se la storia che
aveva da raccontargli sorpassasse in avvenimenti singolari, le due che
aveva ascoltato.
Il genio glielo promise e così il terzo vecchio raccontò la sua storia nel
seguente modo.


continua -
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« immagine » Il secondo vecchio, che conduceva i due cani neri, si diresse al genio e gli disse: «Io vi racconterò ciò che avvenne a me e a questi due cani, sicuro che voi troverete la mia storia ancor più sorprendente di quella or ora intesa. Ma quando ve l'avrò raccontata, mi promettete voi il ...
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09/11/2013 21:00:45
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La quarta notte e le seguenti

31 ottobre 2013 ore 19:30 segnala




La quarta notte e le seguenti


Sherazad continuò la quarta notte l'avventura del Genio
e del mercante, ma da quel punto le novelle iniziarono a vivere
di vita propria, poiché ogni protagonista delle vicende raccontò
a sua volta un accadimento via via che il filo si dipanava.
Fu così che di notte in notte Sherazad continuò i suoi racconti
per mille notti ancora.

Iniziò dunque quella notte a dire:
"Quando il vecchio che conduceva la cerva vide il Genio afferrare il mercante, si gettò ai piedi di quel mostro, e baciandoglieli:
— Principe de’ Genii — gli disse — io vi supplico umilmente di sospendere la vostra collera, e di farmi la grazia di ascoltarmi. Io vi racconterò la mia storia, nonché quella di questa cerva, a condizione che se la trovate meravigliosa e sorprendente, vogliate rimettere a questo sventurato mercante il terzo della sua pena.
Il Genio stette qualche tempo a riflettere, ma infine rispose:
— Ebbene, consento; vediamo.
— Io comincio il mio racconto — riprese il vecchio — Vi parlerò di come avvenne che questa che ho con me divenne la mia cerva —




STORIA DEL PRIMO VECCHIO E DELLA CERVA

Questa cerva che voi vedete, è mia cugina, ed anche moglie. Essa non aveva che dodici anni quando la sposai.
Siamo vissuti insieme trent’anni, senza che abbia avuti figli. Il solo desiderio d’aver figli mi fece sposare una schiava, di cui ne ebbi uno che prometteva molto. Mia moglie n’ebbe gelosia; prese in avversione la madre e il figlio, e nascose sì bene i suoi sentimenti, che io me ne accorsi troppo tardi.
Intanto mio figlio cresceva, ed aveva dieci anni, quand’io fui obbligato di fare un viaggio. Prima di partire raccomandai a mia moglie, la schiava ed il figlio, e la pregai di averne cura, durante la mia assenza, che fu d’un anno intero. Essa profittò di quel tempo per isfogare l’odio suo. Si applicò alla magìa, e quando seppe abbastanza di quest’arte diabolica, la scellerata menò mio figlio in un luogo appartato; ivi co’ suoi incanti lo cangiò in vitello e lo diede al mio affittaiuolo. Né limitò il suo furore a questa abbominevole azione: cangiò anche la schiava in vacca, e del pari la diede al mio affittavolo.
Al ritorno io le domandai notizie della madre e del figlio.
— La vostra schiava è morta — mi disse — e vostro figlio son due mesi che non lo veggo, né so che ne sia divenuto.
Fui dolentissimo per la morte della schiava: ma per il figlio, che era solamente disparso, mi lusingai di poterlo ritrovare.
Otto mesi passarono senza ch’ei ritornasse, ed io non ne aveva alcuna nuova, quando giunse la festa del gran Bairam.
Per celebrarla, ordinai al mio fittaiuolo di condurmi una vacca delle più grasse per farne un sagrificio. Egli obbedì.

La vacca, da lui scelta era appunto la schiava. Io la legai, ma nel momento che mi apparecchiava a sacrificarla, essa cominciò a mandare pietosi muggiti: ed io mi avvidi che dagli occhi gli scorrevano rivi di lagrime.
Ciò mi parve straordinario e non potei risolvermi a ferirla, ed ordinai al mio fittaiuolo di andare a prenderne un’altra.
Mia moglie, che era presente, fremette della mia compassione.
— Sposo, che fate? — gridò — immolatela!
Per compiacerla mi appressai alla vacca, e combattendo con la pietà che me ne faceva sospendere il sacrifizio, mi feci a darle il colpo mortale: ma la vittima raddoppiando le lagrime ed i muggiti, mi disarmò la seconda volta.
Allora io posi la scure nelle mani del fittaiuolo, dicendogli:
— Prendetela, sacrificatela voi; i suoi muggiti e le sue lagrime mi spezzano il cuore!
Il fittaiuolo, meno pietoso di me, la sacrificò: ma scorticandola si trovò aver essa solo le ossa.
Io n’ebbi gran dispiacere, e dissi al fittaiuolo:
— Prendetela per voi, ve la regalo, e se avete un vitello ben grasso, recatelo a me in sua vece.
Poco tempo dopo vidi arrivare un vitello grassissimo. Appena mi vide fece uno sforzo sì grande per venire a me, che ruppe la sua corda. Si gittò a’ miei piedi con la testa a terra, come se avesse voluto eccitare la mia compassione.
Io fui ancor più sorpreso che non lo era stato da’ gemiti della vacca.
— Andate — diss’io al fittaiolo — riconducetevi il vitello. Abbiatene gran cura, ed in suo luogo recatene tosto un altro.
Quando mia moglie m’intese parlare così, non si tenne dal gridare:
— Sposo, che fate voi? Credetemi, non sacrificate altro vitello che questo.
— Sposa — esclamai — non l’immolerò, voglio fargli grazia.
La cattiva donna sdegnò di arrendersi alle mie preghiere. Essa non risparmiò nulla per farmi cangiar risoluzione: ma per quante me ne dicesse, io stetti fermo, e le promisi per acquietarla che l’avrei sacrificato l’anno vegnente.
Nel mattino del giorno seguente il mio fittaiuolo chiese di parlarmi in particolare.
— Io vengo — mi disse — a darvi una novella. Io ho una figlia che sa qualche cosa di magìa. Ieri quand’io ricondussi all’ovile il vitello, di cui voi non voleste fare il sacrificio, osservai che essa rise vedendolo e che un momento dopo si pose a piangere. Le domandai perché facesse nel medesimo tempo due cose contrarie.
— Padre mio — ella rispose — questo vitello è il figlio del nostro padrone.
Io risi di gioia vedendolo ancora vivente, e piansi ricordandomi del sacrificio che ieri si fece di sua madre cangiata in vacca. Queste metamorfosi sono state fatte per gl’incantesimi della moglie del nostro padrone, la quale odiava la madre ed il figlio. Ecco ciò che mi ha detto mia figlia.
— A queste parole o Genio, — continuò il vecchio lascio a voi il pensare quale fu la mia sorpresa.
Immantinente partii col fittaiuolo per parlare io stesso a sua figlia. Arrivando andai subito alla stalla ov’era mio figlio.
Giunse la figlia del fittaiuolo a cui dissi:
— Figlia mia potete rendere mio figlio alla prima sua forma?
— Sì che lo posso — mi rispose — ma vi avverto che io non posso ritornar vostro figlio nel suo stato primiero che a due condizioni: la prima, che me lo diate in isposo: e la seconda che mi sia permesso di punire la persona che lo ha cangiato in vitello.
— Vi acconsento — le risposi — ma prima rendetemi il figlio.
Allora questa giovane prese un vaso pieno di acqua, vi pronunziò sopra delle parole ch’io non intesi, e volgendosi al vitello:
— O vitello, — disse — se tu sei stato creato dall’Onnipotente e sovrano padrone del mondo nella forma di cui sei, resta nel tuo stato: ma se sei un uomo, e fosti cangiato in vitello in forza d’incantesimo riprendi la tua naturale figura colla permissione del sovrano creatore.
Terminando queste parole gittò l’acqua su di lui, ed all’istante egli riprese la sua forma primiera.
— Figlio mio! caro figlio! — io esclamai allora, abbracciandolo con un trasporto di gioia. — È Dio che ci ha inviato questa giovinetta per distruggere l’orribile incanto di cui eravate circondato e vendicarvi del male che fu fatto a voi ed a vostra madre. Sono sicuro che per riconoscenza vorrete prenderla per vostra sposa, come io mi sono impegnato.
Egli acconsentì con gioia, ma prima di sposarsi la giovane cangiò mia moglie in cerva, quale la vedete qui.
Dopo qualche tempo mio figlio divenne vedovo e andò a viaggiare. Siccome sono più anni che non ho sue nuove, mi sono posto in cammino per cercare di averne, e non volendo affidare ad alcuno la cura di mia moglie, ho giudicato a proposito di menarla meco dappertutto.
Ecco adunque la mia istoria e quella della mia cerva. Non è dessa delle più sorprendenti e delle più meravigliose?
— Ne son d’accordo — disse il Genio — ed in suo riguardo ti accordo il terzo della grazia di questo mercante

- continua -
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« immagine » La quarta notte e le seguenti Sherazad continuò la quarta notte l'avventura del Genio e del mercante, ma da quel punto le novelle iniziarono a vivere di vita propria, poiché ogni protagonista delle vicende raccontò a sua volta un accadimento via via che il filo si dipanava. Fu ...
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La terza notte...

17 ottobre 2013 ore 17:29 segnala


TERZA NOTTE.

La notte seguente, Dinarzad rivolse alla sorella la stessa preghiera
delle due precedenti.
- Cara sorella, - le disse, - se non dormite, vi supplico di
raccontarmi uno di quei bei racconti che voi conoscete.
Ma il sultano disse che voleva ascoltare il seguito di quello del
mercante e del genio.




Perciò Sherazad riprese così:
Sire, mentre il mercante e il vecchio con la cerva chiacchieravano
arrivò un altro vecchio, seguito da due cani neri. Avanzò fino a loro
e li salutò chiedendo che cosa facessero in quel posto. Il vecchio
della cerva lo informò dell'avventura del mercante e del genio, di
quanto era successo fra i due e del giuramento del mercante. Aggiunse
che quello era il giorno stabilito dalla promessa, e che egli era
deciso a rimanere in quel posto per vedere che cosa sarebbe successo.
Il secondo vecchio, trovando anche lui la cosa degna della sua
curiosità prese la stessa decisione. Si sedette vicino agli altri e
aveva appena cominciato a prender parte alla loro conversazione,
quando arrivò un terzo vecchio che, rivolgendosi ai primi due, chiese
loro per quale motivo il mercante che era in loro compagnia sembrasse
tanto triste. Gliene dissero il motivo, e gli sembrò cosi
straordinario che anche lui volle assistere a quello sarebbe successo
fra il genio e il mercante. Perciò si sedette insieme agli altri.
Dopo un po' videro nella campagna una fitta nube, come un turbine di
polvere sollevato dal vento. Questa nube avanzò fino a loro e,
dissipandosi di colpo, mostrò loro il genio che, senza salutarli, si
avvinò al mercante con la spada in pugno e, afferrandolo per il
braccio, gli disse:
- Alzati affinché io ti uccida come tu hai ucciso mio figlio.
Il mercante e i tre vecchi, spaventati, si misero a piangere e a far
risuonare l'aria delle loro grida...
A questo punto Sherazad, scorgendo l'alba, interruppe il suo racconto,
che aveva così tanto acceso la curiosità del sultano da indurre il
principe, che voleva assolutamente conoscerne la fine, a rinviare
ancora una volta al giorno dopo la morte della sultana.
Non si può esprimere la gioia del gran visir, quando vide che il
sultano non gli ordinava di far morire Sherazad. La sua famiglia, la
corte, tutti ne furono grandemente stupefatti.

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« immagine » TERZA NOTTE. La notte seguente, Dinarzad rivolse alla sorella la stessa preghiera delle due precedenti. - Cara sorella, - le disse, - se non dormite, vi supplico di raccontarmi uno di quei bei racconti che voi conoscete. Ma il sultano disse che voleva ascoltare il seguito di qu...
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La seconda notte

15 ottobre 2013 ore 21:26 segnala


SECONDA NOTTE.

Quando il mercante vide che il genio stava per tagliargli la testa
lanciò un alto grido e gli disse:
- Fermatevi, ancora una parola, di grazia; abbiate la bontà di
concedermi una dilazione, datemi il tempo di andare a dire addio a mia
moglie e ai miei figli e di dividere fra loro i miei beni con un
testamento che non ho ancora fatto, affinché non debbano ricorrere a
qualche processo dopo la mia morte. Appena fatto questo, tornerò
subito in questo stesso luogo per sottomettermi a tutto ciò che
vorrete ordinarmi.
- Ma, - disse il genio, - se ti concedo la dilazione che mi chiedi ho
paura che tu non ritorni più.
- Se volete credere al mio giuramento, - rispose il mercante, giuro
sul gran Dio del cielo e della terra che non mancherò di venire a
cercarvi qui.
- Quanto la vuoi lunga questa dilazione? - chiese il genio.
- Vi chiedo un anno di tempo, - rispose il mercante, - non me ne
occorre meno per mettere in ordine i miei affari e per dispormi a
rinunciare senza rimpianti al piacere di vivere. Perciò vi prometto
che a un anno da domani verrò senza fallo sotto quest'albero per
rimettermi nelle vostre mani.
- Prendi Dio a testimone della promessa che mi fai? - riprese il
genio.
- Sì, - rispose il mercante, - lo prendo ancora una volta a testimone,
e potete fidarvi del mio giuramento.
A queste parole, il genio lo lasciò vicino alla fontana e scomparve.
Il mercante, rimessosi dallo spavento, risalì a cavallo e riprese il
cammino. Ma, se da un lato era contento per essersi sottratto a un
così grave pericolo, dall'altro era in preda a una mortale tristezza,
quando pensava al fatale giuramento che aveva fatto. Quando arrivò a
casa, la moglie e i figli lo accolsero con tutte le dimostrazioni di
una gioia perfetta; ma il mercante, invece di abbracciarli nello
stesso modo, si mise a piangere così amaramente, da lasciar loro
capire che gli era successo qualcosa di straordinario. La moglie gli
chiese il motivo delle sue lacrime e del vivo dolore che egli
manifestava.
- Ci rallegriamo, - diceva, - del vostro ritorno e, però, ci
preoccupate per lo stato in cui vi vediamo. Spiegateci, vi prego, la
ragione della vostra tristezza.
- Ahimè! - rispose il marito, - perché mi trovo in condizione diversa
dalla vostra? Ho solo un anno di vita.
Allora raccontò loro quello che era successo fra lui e il genio, e li
informò che aveva dato la parola di ritornare allo scadere di un anno
per ricevere la morte dalla sua mano.
Quando sentirono questa triste notizia, cominciarono tutti a
disperarsi. La moglie lanciava grida pietose, battendosi il viso e
strappandosi i capelli; i figli, sciogliendosi in lacrime. facevano
risuonare la casa dei loro gemiti; e il padre, cedendo alla forza del
sangue, mescolava le sue lacrime ai loro pianti. In poche parole, era
lo spettacolo più commovente del mondo.
Fin dal giorno dopo, il mercante pensò a mettere in ordine i suoi
affari e, prima di ogni cosa, si diede da fare per pagare i suoi
debiti. Fece regali agli amici e grandi elemosine ai poveri; liberò i
suoi schiavi di tutti e due i sessi; divise i suoi beni tra i figli,
nominò dei tutori per quelli non ancora maggiorenni e, restituendo
alla moglie tutto ciò che le apparteneva, secondo il contratto di
matrimonio, la favorì con tutto quello che poteva donarle secondo le
leggi.
Infine, l'anno passò ed egli dovette partire. Fece i bagagli,
mettendovi dentro il lenzuolo nel quale doveva essere sepolto, ma non
si è mai visto dolore più vivo del suo quando volle dire addio alla
moglie e ai figli. Essi non potevano risolversi a perderlo, volevano
accompagnarlo tutti e andare a morire con lui. Tuttavia, poiché
bisognava farsi forza e lasciare persone così care, disse:
- Figli miei, separandomi da voi ubbidisco all'ordine di Dio:
sottomettetevi con coraggio a questa necessità, e pensate che il
destino dell'uomo è di morire.
Dette queste parole, si strappò alle grida e ai rimpianti della
famiglia, partì e arrivò, nello stesso posto dove aveva visto il
genio, esattamente nel giorno in cui aveva promesso di esserci. Mise
subito piede a terra e si sedette sull'orlo della vasca, aspettando il
genio con tutta la tristezza che si può immaginare.
Mentre languiva in una attesa tanto crudele, apparve un buon vecchio
che trascinava una cerva con una corda. Questi gli si avvicinò, si
salutarono e il vecchio gli disse:
- Fratello mio, si può sapere per quale motivo siete venuto in questo
posto deserto, dove si trovano solo spiriti maligni e dove non si è
mai sicuri? Vedendo questi begli alberi, lo si crederebbe abitato;
invece è una solitudine totale e è pericoloso fermarcisi a lungo.
Il mercante soddisfece la curiosità del vecchio e gli raccontò
l'avventura che lo costringeva a trovarsi in quel posto. Il vecchio lo
ascoltò con stupore e, prendendo la parola, esclamò:
- E' la cosa più straordinaria del mondo, e voi siete legato dal
giuramento più inviolabile! Voglio essere testimone del vostro
incontro col genio - aggiunse.
Detto ciò si sedette vicino al mercante e, mentre conversavano fra di
loro...
- Ma vedo che l'alba è spuntata, - disse Sherazad riprendendosi.-
Quella che rimane è la parte più bella del racconto.
Il sultano, deciso ad ascoltarne la fine, lasciò Sherazad ancora in
vita per quel giorno.



continua -
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« immagine » SECONDA NOTTE. Quando il mercante vide che il genio stava per tagliargli la testa lanciò un alto grido e gli disse: - Fermatevi, ancora una parola, di grazia; abbiate la bontà di concedermi una dilazione, datemi il tempo di andare a dire addio a mia moglie e ai miei figli e di...
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La prima notte

10 ottobre 2013 ore 00:58 segnala


PRIMA NOTTE.
IL MERCANTE E IL GENIO.

Sire, c'era una volta un mercante che possedeva molti beni, sia in
poderi, sia in mercanzie e denaro contante. Egli aveva molti commessi,
fattori e schiavi; ogni tanto, era costretto a compiere viaggi per
incontrarsi con i suoi corrispondenti. Un giorno che un affare
importante lo chiamava in una località alquanto lontana da quella in
cui abitava, salì a cavallo e partì portando con sé una valigia nella
quale aveva messo una piccola provvista di biscotti e di datteri,
dovendo attraversare un paese deserto, dove non avrebbe trovato di che
vivere. Arrivò senza incidenti dove doveva sbrigare i suoi affari e,
compiuta la cosa che lo aveva richiamato in quel posto, risalì a
cavallo per fare ritorno a casa.
Il quarto giorno di viaggio, si sentì così tanto oppresso dall'ardore
del sole che deviò dalla sua strada per andare a rinfrescarsi sotto
degli alberi che aveva visto nella campagna. Ai piedi di una grande
albero di noce, trovò una fontana dalla quale sgorgava un'acqua
chiarissima e corrente. Scese a terra, legò il cavallo a un ramo
dell'albero e si sedette vicino alla fontana, dopo aver tirato fuori
dalla valigia qualche dattero e qualche biscotto. Mangiando i datteri
ne gettava i noccioli a destra e a sinistra. Finito il frugale pasto,
da buon musulmano quale era, si lavò mani, viso e piedi e recitò la
preghiera.
Non l'aveva ancora terminata ed era ancora in ginocchio, quando vide
apparire un genio tutto canuto per la vecchiaia e di enorme grandezza,
che, avanzando verso di lui con la spada in pugno, gli disse con un
terribile tono di voce:
- Alzati affinché io ti uccida come tu hai ucciso mio figlio.
Accompagnò queste parole con un grido spaventoso. Il mercante,
atterrito dall'orribile aspetto del mostro e dalle parole che gli
aveva rivolte, gli rispose tremando:
- Ahimè! mio buon signore, di quale delitto posso essere colpevole
verso di voi, per meritare che voi mi togliate la vita?
- Io voglio, - riprese il genio, - ucciderti come tu hai ucciso mio
figlio.
- Oh! buon Dio! - replicò il mercante, - come avrei potuto uccidere
vostro figlio? Non lo conosco neppure e non l'ho mai visto.
- Arrivando qui, - replicò il genio, - non ti sei forse seduto? Non
hai tirato dei datteri fuori dalla tua valigia e, mangiandoli non hai
gettato i noccioli a destra e a sinistra?
- Ho fatto quanto voi dite, - rispose il mercante, - non posso
negarlo.
- Stando così le cose, - riprese il genio, - ti dico che hai ucciso
mio figlio, ed ecco in che modo: mentre tu gettavi i noccioli passava
mio figlio, ne ha ricevuto uno nell'occhio ed è morto. Perciò debbo
ucciderti.
- Ah! monsignore, perdono! - esclamò il mercante.
- Nessun perdono, - rispose il genio, - nessuna misericordia. Non è
giusto uccidere colui che ha ucciso?
- Sono d'accordo con voi, - disse il mercante, - ma certamente non ho
ucciso vostro figlio e, anche se così fosse, l'avrei fatto solo molto
innocentemente. Perciò vi supplico di perdonarmi e di risparmiare la
mia vita.
- No, no! - disse il genio insistendo nella sua decisione, devo
ucciderti, poiché tu hai ucciso mio figlio.
A queste parole, afferrò il mercante per il braccio, lo gettò con la
faccia terra e alzò la spada per tagliargli la testa.
Intanto il mercante, tutto in lacrime e protestando la sua innocenza,
rimpiangeva la moglie e i figli, e diceva le cose più commoventi del
mondo. Il genio, sempre con la spada sollevata, ebbe la pazienza di
aspettare che il disgraziato avesse finito di lamentarsi, ma non ne fu
per nulla impietosito.
- Tutti questi rimpianti sono superflui, - esclamò, - Anche se le tue
lacrime fossero di sangue, questo non mi impedirebbe di ucciderti come
tu hai ucciso mio figlio.
- Come! - replicò il mercante, - niente riesce a commuovervi? Volete
assolutamente togliere la vita a un povero innocente?
- Sì, - replicò il genio, - lo voglio.
Così dicendo...
A questo punto, Sherazad, accorgendosi che era giorno e sapendo che il
sultano si alzava di buon mattino per recitare le sue preghiere e
tenere consiglio, smise di parlare.
- Buon Dio! sorella mia, - disse allora Dinarzad, - che racconto
meraviglioso!
- Il seguito è ancora più stupefacente, - rispose Sherazad, - e
sareste d'accordo con me, se il sultano volesse lasciarmi vivere
ancora per oggi e darmi il permesso di raccontarvelo la prossima
notte.
Shahriar, che aveva ascoltato con piacere Sherazad, disse tra sé:
"Aspetterò fino a domani; la farò pur sempre morire, ma dopo aver
ascoltato la fine del suo racconto". Avendo dunque stabilito di non
far morire Sherazad per quel giorno, si alzò per recitare le sue
preghiere e andare al consiglio.
Intanto il gran visir viveva una crudele inquietudine. Invece di
gustare la dolcezza del sonno, aveva passato la notte a sospirare e a
compiangere la sorte della figlia della quale egli doveva essere il
carnefice. Ma se in questa triste attesa temeva la vista del sultano,
fu piacevolmente stupito quando vide il principe entrare in consiglio
senza dargli il funesto ordine che aspettava.
Il sultano, com'era sua abitudine, passò la giornata a regolare gli
affari del suo impero e, quando scese la notte, si coricò di nuovo con
Sherazad. Il giorno dopo, prima del sorgere del sole, Dinarzad non
dimenticò di rivolgersi alla sorella e dirle:
- Cara sorella, se non dormite, vi supplico, mentre aspettiamo l'alba
che spunterà tra poco, di continuare il racconto di ieri.- ll sultano
non aspettò che Sherazad gli chiedesse il permesso.
- Finite il racconto del genio e del mercante, - le disse, sono
curioso di sentirne la fine.
Sherazad prese allora la parola, e continuò il suo racconto così.

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« immagine » PRIMA NOTTE. IL MERCANTE E IL GENIO. Sire, c'era una volta un mercante che possedeva molti beni, sia in poderi, sia in mercanzie e denaro contante. Egli aveva molti commessi, fattori e schiavi; ogni tanto, era costretto a compiere viaggi per incontrarsi con i suoi corrisponden...
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10/10/2013 00:58:31
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Mille e una notte

07 ottobre 2013 ore 22:52 segnala


MILLE E UNA NOTTE.

Le cronache dei Sassanidi, antichi re di Persia, che avevano esteso il
loro impero nelle Indie, nelle grandi e piccole isole che dipendono da
esse, e molto più oltre, al di là del Gange fino alla Cina, dicono che
c'era una volta un re di quella potente dinastia che era il miglior
principe del suo tempo. Tanto egli si faceva amare dai suoi sudditi,
per la sua saggezza e la sua prudenza, quanto era temuto dai popoli
vicini, per la fama del suo valore e la reputazione delle sue truppe
combattive e ben disciplinate. Aveva due figli: il maggiore, di nome
Shahriar, degno erede di suo padre, ne aveva tutte le virtù: il più
giovane, di nome Shahzenan, non valeva meno del fratello.

Dopo un regno tanto lungo quanto glorioso, questo re morì e Shahriar
salì al trono. Shahzenan, escluso da ogni eredità per le leggi
dell'impero, e costretto a vivere come un privato, invece di essere
insofferente verso la fortuna del fratello, mise tutta la sua buona
volontà per piacergli. Non faticò molto a riuscirvi. Shahriar, che
aveva una simpatia naturale per quel principe, fu incantato dalla sua
docilità e, in un impeto di amicizia, volendo dividere con lui i suoi
Stati, gli regalò il regno della Grande Tartaria. Shahzenan ne prese
ben presto possesso e stabilì la sua residenza a Samarcanda, che ne
era la capitale.

Erano già passati dieci anni da quando i due re si erano separati,
quando Shahriar, volendo ardentemente rivedere il fratello, decise di
mandargli un ambasciatore che lo invitasse a fargli visita. Per questa
ambasciata scelse il suo primo visir che partì con un seguito degno
del suo grado e agì con la massima diligenza possibile. Quando fu
nelle vicinanze di Samarcanda, Shahzenan, avvertito del suo arrivo,
gli andò incontro con i più alti dignitari della sua corte che, per
rendere più onore al ministro del sultano, si erano tutti vestiti
sfarzosamente. Il re di Tartaria lo ricevette con grandi dimostrazioni
di gioia e, prima di tutto, gli chiese notizie del fratello. Il visir
accontentò la sua curiosità ed narrò il motivo della sua ambasciata.
Shahzenan ne fu commosso.
- Saggio visir, - disse, - mio fratello il sultano mi fa troppo onore
e non poteva propormi niente che mi fosse più gradito. Se egli vuole
vedermi, io sono animato dallo stesso desiderio. Il tempo, che non ha
affatto indebolito la sua amicizia, non ha ugualmente raffreddata la
mia. Il mio regno è tranquillo, e vi chiedo solo dieci giorni per
mettermi in condizione di partire con voi. Perciò, non è necessario
che entriate in città per così breve tempo. Vi prego di fermarvi qui e
di farvi alzare le vostre tende. Vado a dar ordine di portare
rinfreschi in abbondanza per voi e per tutte le persone del vostro
seguito.
Questo venne eseguito immediatamente: il re era appena rientrato a
Samarcanda, quando il visir vide arrivare una prodigiosa quantità di
ogni specie di provviste, accompagnate da squisitezze e da doni di
grandissimo pregio.

Frattanto Shahzenan, preparandosi a partire, regolò gli affari più
urgenti, istituì un consiglio che governasse il regno durante la sua
assenza e nominò capo di questo consiglio un ministro del quale
conosceva la saggezza e nel quale aveva piena fiducia. Dopo dieci
giorni, essendo pronti i suoi equipaggi, disse addio alla regina sua
moglie, uscì sul far della notte da Samarcanda e, seguito dagli
ufficiali che dovevano partecipare al viaggio, andò al padiglione
reale che aveva fatto innalzare vicino alle tende del visir. Si
intrattenne con lui fino a mezzanotte. Poi, volendo abbracciare ancora
una volta la regina che amava molto, ritornò solo al suo palazzo. Andò
dritto all'appartamento di quella principessa che, non aspettandosi di
rivederlo, aveva ricevuto nel suo letto uno degli ultimi ufficiali
della corte. Erano coricati già da molto tempo e dormivano tutti e due
di un sonno profondo.
Il re entrò senza far rumore, pregustando il piacere di sorprendere
col suo ritorno una sposa dalla quale si credeva teneramente amato. Ma
quale fu il suo stupore quando, alla luce delle fiaccole che durante
la notte non si spegnevano mai negli appartamenti dei principi e delle
principesse, vide un uomo nello sue braccia! Restò paralizzato per
qualche istante, non sapendo se doveva credere a ciò che vedeva. Ma,
non potendo dubitarne, si disse: "Come! sono appena fuori del mio
palazzo, sono ancora sotto le mura di Samarcanda e si osa
oltraggiarmi! Ah! perfida! il vostro crimine non resterà impunito.
Come re devo punire i misfatti commessi nei miei Stati; come sposo
offeso devo immolarvi al mio giusto risentimento". Infine, quel
disgraziato principe, cedendo al suo primo impulso, sguainò la spada,
si avvicinò al letto e con un sol colpo fece passare i colpevoli dal
sonno alla morte. Poi, prendendoli l'uno dopo l'altra, li gettò da una
finestra in un fossato che circondava il palazzo.

Dopo essersi così vendicato, uscì dalla città come vi era entrato e si
ritirò nel suo padiglione. Appena arrivato, senza dire a nessuno ciò
che aveva fatto, ordinò di levare le tende e di partire. In poco tempo
tutto fu pronto, e non era ancora giorno quando si misero in cammino
al suono dei timpani e di molti altri strumenti che suscitarono la
gioia di tutti tranne che del re. Quel principe, sempre pensando
all'infedeltà della regina, era in preda a una terribile malinconia
che non lo lasciò per tutto il viaggio.

Quando arrivò nelle vicinanze della capitale delle Indie, vide
venirgli incontro il sultano (1) Shahriar con tutta la sua corte. Che
gioia provarono quei principi rivedendosi! Misero entrambi il piede a
terra per abbracciarsi, e dopo essersi scambiati mille testimonianze
di tenerezza, risalirono a cavallo ed entrarono in città fra le
acclamazioni di una sterminata folla di popolo. Il sultano guidò il re
suo fratello fino al palazzo che aveva fatto preparare per lui. Questo
palazzo comunicava con il suo attraverso un giardino comune. Era un
edificio magnifico, tanto più che era destinato alle feste e ai
divertimenti della corte, e ne avevano ancora aumentato la bellezza
con nuovi arredamenti.

Shahriar lasciò il re di Tartaria per dargli il tempo di andare al
bagno e di cambiarsi d'abito. Ma, appena seppe che ne era uscito, andò
di nuovo da lui. Si sedettero su un divano e, poiché i cortigiani si
tenevano rispettosamente a distanza, i due principi cominciarono a
parlare di tutto quello che due fratelli, uniti ancora più
dall'amicizia che dal sangue, hanno da dirsi dopo una lunga
separazione. Arrivata l'ora di cena, mangiarono insieme; e dopo il
pasto ripresero la chiacchierata che durò finché Shahriar,
accorgendosi che la notte era molto inoltrata, si ritirò per lasciar
riposare il fratello.

Lo sfortunato Shahzenan si coricò: ma, se la presenza del sultano suo
fratello era stata capace di allontanare per un po' le sue pene,
queste si risvegliarono allora con violenza. Invece di godersi il
riposo di cui aveva bisogno, non fece altro che richiamare alla
memoria le più crudeli riflessioni. Tutte le circostanze
dell'infedeltà della regina si ripresentavano così vivamente alla sua
mente da farlo uscire di sé. Infine, non potendo dormire si alzò e,
abbandonandosi interamente a pensieri tanto tristi, sul suo viso
apparve un'ombra di tristezza che il sultano non mancò di notare. "Che
cosa ha dunque il sultano di Tartaria? - si diceva. - Chi può causare
questo dolore che gli vedo in viso? Forse ha motivo di lamentarsi
della mia accoglienza? No: l'ho ricevuto come un fratello che amo, e
su questo punto non ho niente da rimproverami. Forse rimpiange di
essere lontano dai suoi Stati o dalla regina sua moglie. Ah! se è
questa la ragione del suo tormento, è necessario che gli offra subito
i doni che gli ho destinato, perché possa partire quando vuole per
ritornare a Samarcanda". Infatti, fin dal giorno dopo, gli inviò una
parte di quei doni, costituiti da tutto quello che le Indie producono
di più raro, di più ricco e di più singolare. Non tralasciava, però,
di cercare di divertirlo ogni giorno con nuovi piaceri; ma le feste
più belle, invece di rallegrarlo, riuscivano solo ad accrescere le sue
pene.


Un giorno Shahriar aveva ordinato una grande caccia, a due giorni di
distanza dalla capitale, in un paese in cui si trovano soprattutto
molti cervi. Shahzenan lo pregò di dispensarlo dall'accompagnarlo,
dicendogli che lo stato della sua salute non gli permetteva di essere
della partita. Il sultano non volle forzarlo, lo lasciò libero e partì
con tutta la sua corte per quel divertimento. Dopo la sua partenza, il
re della Grande Tartaria, vedendosi solo, si chiuse nel suo
appartamento e si sedette vicino a una finestra che si affacciava sul
giardino. Quel bel posto e il cinguettio di un'infinità di uccelli che
ne avevano fatto il loro rifugio, gli avrebbero procurato piacere, se
fosse stato capace di provarlo: ma, sempre straziato dal funesto
ricordo dell'infame azione della regina, fissava i suoi occhi sul
giardino meno spesso di quanto li alzava al cielo per lamentarsi del
suo infelice destino.
Tuttavia, anche se in preda ai suoi tormenti, vide ugualmente un
oggetto che attirò tutta la sua attenzione. All'improvviso si aprì una
porta segreta del palazzo del sultano e ne uscirono venti donne in
mezzo alle quali camminava la sultana (2) con un'aria che la faceva
distinguere facilmente. Questa principessa, credendo che il re della
Grande Tartaria fosse anch'egli alla caccia, si spinse decisamente fin
sotto la finestra dell'appartamento di quel principe, che, volendo
osservarla per curiosità, si sistemò in modo da poter vedere tutto
senza essere visto. Notò che le persone che accompagnavano la sultana,
per bandire ogni ritegno, si scoprirono il viso, fino ad allora
coperto, e si tolsero le lunghe vesti che indossavano sopra altre più
corte. Il suo stupore fu immenso quando vide che in quella compagnia.
che gli era sembrata tutta composta da donne, c'erano dieci negri,
ognuno dei quali prese la propria amante. La sultana, per parte sua,
non restò a lungo senza amante: batté le mani gridando: "Masud,
Masud!" e subito un altro negro scese dalla cima di un albero e corse
verso di lei con molta premura.
Il pudore non mi permette di raccontare tutto ciò che avvenne tra
quelle donne e quei negri, ed è un particolare che non serve
descrivere. Basta dire che Shahzenan ne vide abbastanza per giudicare
che suo fratello non era meno da compiangere di lui. I piaceri di
quella comitiva amorosa durarono fino a mezzanotte. Si bagnarono tutti
insieme in una grande vasca che costituiva uno dei principali
ornamenti del giardino; dopo di che, avendo indossato di nuovo i loro
vestiti rientrarono attraverso la porta segreta nel palazzo del
sultano, e Masud che era venuto dall'esterno scalando il muro del
giardino, se ne ritornò per la stessa strada.

Poiché tutte queste cose erano successe sotto gli occhi del re della
Grande Tartaria, esse gli diedero modo di fare un'infinità di
considerazioni. "Come sbagliavo, - diceva, - credendo che la mia
disgrazia fosse così singolare! E' sicuramente l'inevitabile destino
di tutti i mariti, poiché il sultano mio fratello, il sovrano di tanti
Stati, il più grande principe del mondo, non ha potuto evitarlo.
Stando così le cose, quale debolezza è la mia di lasciarmi consumare
dal dolore! Certamente il ricordo di una disgrazia così comune, ormai
non turberà più il mio riposo". Infatti, da quel momento, smise di
tormentarsi, e poiché non aveva voluto cenare per osservare tutta la
scena che si svolgeva sotto le due finestre, ordinò di servire, mangiò
con appetito migliore di quanto non aveva fatto dalla sua partenza da
Samarcanda, e ascoltò anche con un certo piacere un grazioso concerto
per voci e strumenti con il quale fu accompagnato il pranzo.

Il giorno dopo fu di ottimo umore, e quando seppe che il sultano era
di ritorno, gli andò incontro e gli fece i suoi complimenti con aria
allegra. Shahriar non fece, in un primo momento, attenzione a quel
cambiamento; pensò solo a lamentarsi cortesemente del rifiuto di
Shahzenan ad accompagnarlo alla caccia; e, senza dargli il tempo di
rispondere ai suoi rimproveri, gli parlò del gran numero di cervi e di
altri animali che aveva preso, e infine del piacere che aveva provato.
Shahzenan, dopo averlo attentamente ascoltato, prese a sua volta la
parola. Non avendo più dispiaceri che gli impedivano di far mostra di
tutto il suo spirito, disse mille cose piacevoli e divertenti.
Il sultano, che si era aspettato di trovarlo nello stesso stato in cui
l'aveva lasciato, fu felice di vederlo così allegro.
- Fratello mio, - gli disse, - rendo grazie al cielo del felice
cambiamento che si è prodotto in voi durante la mia assenza; ne sono
proprio contento, ma devo rivolgervi una preghiera e vi scongiuro di
accordarmi ciò che sto per chiedervi.
- Che cosa potrei rifiutarvi? - rispose il re di Tartaria. Voi potete
tutto su Shahzenan. Parlate: sono impaziente di sapere che cosa
desiderate da me.
- Da quando siete alla mia corte, - riprese Shahriar, - vi ho visto
immerso in una cupa malinconia che inutilmente ho cercato di dissipare
con ogni specie di divertimenti. Ho immaginato che il vostro dolore
derivasse dal fatto di essere lontano dai vostri Stati; ho anche
creduto che dipendesse in buona parte dall'amore, e che forse la
regina di Samarcanda, che avete dovuto scegliere di perfetta bellezza,
ne fosse la causa. Non so se mi sono ingannato nella mia ipotesi: ma
vi confesso che proprio per questa ragione non ho voluto importunarvi
su questo argomento, temendo di dispiacervi. Tuttavia, senza che io vi
abbia contribuito in nessun modo, vi trovo al mio ritorno del miglior
umore possibile e con l'animo completamente sgombro da quella nera
inquietudine che ne turbava tutta l'allegria. Ditemi, di grazia,
perché eravate così triste e perché ora non lo siete più.
A questo discorso, il re della Grande Tartaria restò per un momento
pensieroso, come se stesse cercando di rispondervi. Infine replicò con
queste parole:
- Voi siete il mio sultano e il mio padrone, ma dispensatemi, ve ne
supplico, dal darvi la soddisfazione che mi chiedete.
- No, fratello mio, - replicò il sultano, - dovete accordarmela: la
desidero, non rifiutatemela. - Shahzenan non poté resistere alle
insistenze di Shahriar.
- Ebbene, fratello, - gli disse, - vi accontenterò poiché me lo
chiedete. - Allora gli raccontò l'infedeltà della regina di
Samarcanda; e, quando ebbe finito il racconto, aggiunse: Ecco la
ragione della mia tristezza; giudicate se avevo torto di
abbandonarmici.
- Oh, fratello mio, - esclamò il sultano, con un tono che manifestava
quanto fosse preso dal dolore del re di Tartaria, che orribile storia
mi avete raccontato! Con quanta impazienza l'ho ascoltata fino in
fondo! Vi lodo per aver punito i traditori che vi hanno fatto un così
grave oltraggio. Non vi si potrebbe rimproverare la vostra azione: è
giusta e, quanto a me, confesso che al vostro posto sarei forse stato
più severo di voi. Non mi sarei accontentato di togliere la vita a una
sola donna, credo che ne avrei sacrificato più di mille alla mia
rabbia. Non sono affatto stupito del vostro dolore: la causa era
troppo viva e troppo mortificante per non lasciarvisi andare. O cielo!
che avventura! No, credo che non sia mai successo a nessuno niente di
simile di ciò che è capitato a voi. Ma, insomma, bisogna lodare Dio
per avervi dato una certa consolazione; e poiché non dubito che essa
sia ben fondata, abbiate ancora la cortesia di farmela conoscere, e
confidatevi interamente.
Shahzenan su questo punto fece maggiori difficoltà di prima, a causa
dell'interesse che suo fratello vi aveva; ma dovette cedere alle sue
nuove insistenze.
- Poiché lo volete assolutamente, - gli disse, - vi ubbidirò. Ho
paura che la mia ubbidienza vi procuri maggior dolore di quanto ne ho
avuto io; ma dovete prendervela soltanto con voi stesso, poiché
proprio voi mi costringete a rivelarvi una cosa che vorrei seppellire
in un eterno oblio.
- Quanto mi dite, - interruppe Shahriar, - altro non fa se non
eccitare la mia curiosità; affrettatevi a rivelarmi questo segreto, di
qualunque genere esso sia.
Il re di Tartaria, non potendo più sottrarsi, raccontò con tutti i
particolari quello che aveva visto sul travestimento dei negri, sulle
dissolutezze della sultana e delle sue ancelle, e non dimenticò Masud.
- Dopo essere stato testimone di queste infamie, - aggiunse, pensai
che tutte le donne vi fossero portate per natura e che non potessero
resistere alla loro inclinazione. Giunto a questa conclusione, mi
sembrò una gran debolezza per un uomo quella di far dipendere il
proprio riposo dalla loro fedeltà. Questa riflessione mi spinse a
farne molte altre, e alla fine, pensai che la cosa migliore che
potessi prendere era quella di consolarmi. Mi è costato fatica, ma ci
sono riuscito; e, se date retta a me, seguirete il mio esempio.
Sebbene questo consiglio fosse giudizioso, il sultano non riuscì ad
apprezzarlo. Diventò persino furioso.
- Come! - disse, - la sultana delle Indie è capace di prostituirsi in
un modo così indegno! No, fratello mio, aggiunse,- non posso credere a
quello che mi dite, se non lo vedo con i miei propri occhi. I vostri
devono avervi ingannato; la cosa è abbastanza importante da meritare
che me ne assicuri personalmente.
- Fratello, - rispose Shahzenan, - se volete esserne testimone, non è
molto difficile. Dovete soltanto organizzare delle altre giornate di
caccia: quando saremo fuori città con la vostra corte e la mia, ci
fermeremo sotto i nostri padiglioni e la notte torneremo soli nel mio
appartamento. Sono sicuro che il giorno dopo vedrete quello che ho
visto io.
Il sultano approvò lo stratagemma e immediatamente ordinò una nuova
caccia in modo che quello stesso giorno i padiglioni furono innalzati
nel luogo stabilito.

Il giorno dopo i due principi partirono con tutto il loro seguito.
Arrivarono dove si dovevano accampare e vi restarono fino al cader
della notte. Allora Shahriar chiamò il suo gran visir e, senza
svelargli il suo piano, gli ordinò di prendere il suo posto durante la
sua assenza e di non permettere a nessuno di uscire dal campo per
nessuna ragione. Appena ebbe dato quest'ordine, il re della Grande
Tartaria e lui salirono a cavallo, passarono in incognito attraverso
il campo, rientrarono in città e andarono al palazzo dove risiedeva
Shahzenan. Si coricarono e il giorno dopo, di buon mattino, andarono a
sistemarsi alla stessa finestra dalla quale il re di Tartaria aveva
visto la scena dei negri. Per un po' di tempo si godettero il fresco,
non essendo ancora sorto il sole e, mentre chiacchieravano, giravano
spesso gli occhi verso la porta segreta. Finalmente questa si aprì e,
per dirla in breve, apparve la sultana con le sue ancelle e i dieci
negri travestiti; ella chiamò Masud e il sultano vide più di quanto
serviva per essere pienamente convinto della sua vergogna e della sua
disgrazia.
- Oh Dio! - esclamò, - che cosa indegna! che orrore! La sposa di un
sovrano come me può essere capace di simile infamia? Dopo questo,
quale principe oserà vantarsi di essere perfettamente felice? Ah!
fratello mio, - continuò abbracciando il re di Tartaria, - rinunciamo
tutti e due al mondo, la buona fede ne è bandita; se da una parte esso
lusinga, dall'altra tradisce. Abbandoniamo i nostri Stati e tutto lo
sfarzo che ci circonda. Andiamo in regni stranieri a trascinare una
vita oscura e a nascondere la nostra disgrazia.
Shahzenan non approvava questa risoluzione, ma non osò ostacolarla
vedendo il furore di cui era preda Shahriar.
- Fratello, - gli disse, - non ho altra volontà fuorché la vostra;
sono pronto a seguirvi dove vorrete. Ma promettetemi che, se riusciamo
ad incontrare qualcuno più disgraziato di noi, torneremo.
- Ve lo prometto, - rispose il sultano, - ma dubito molto di trovare
qualcuno che possa esserlo.
- Quanto a questo non sono della vostra opinione, - replicò il re di
Tartaria; - forse non viaggeremo neppure a lungo.
Dicendo ciò, uscirono segretamente dal palazzo e presero una strada
diversa da quella da dove erano venuti. Camminarono finché ci fu
abbastanza luce per andare avanti, e passarono la prima notte sotto
gli alberi. Allo spuntare del giorno si alzarono e ripresero il
cammino finché non arrivarono a una bella prateria in riva al mare,
dove, ogni tanto, spuntavano grandi alberi molto fronzuti. Si
sedettero sotto uno di questi alberi per riposarsi e prendere il
fresco. L'infedeltà delle principesse loro mogli fu l'argomento della
loro conversazione.

Dopo un po' di tempo che si intrattenevano così, sentirono non molto
lontano un orribile rumore che veniva dalla parte del mare e un grido
spaventoso che li riempì di paura. Allora il mare si aprì e ne venne
fuori una specie di grossa colonna nera che sembrava perdersi fra le
nuvole. Questa visione raddoppiò il loro terrore; si alzarono di
scatto e si arrampicarono sull'albero che sembrò loro più adatto a
nasconderli. Ci erano appena saliti quando, guardando verso il punto
da dove veniva il rumore e dove il mare si era aperto, notarono che la
colonna nera avanzava verso la riva fendendo l'acqua. In un primo
momento non riuscirono a capire di che cosa si trattasse, ma ne furono
ben presto informati.
Era uno di quei geni maligni, malefici e nemici mortali degli uomini.
Era nero e disgustoso, aveva la forma di un gigante di altezza
prodigiosa e portava in testa una gran cassa di vetro. chiusa da
quattro serrature di acciaio sottile. Si addentrò nella prateria dove
spuntava l'albero sul quale stavano i due principi che, conoscendo
l'estremo pericolo nel quale si trovavano, si ritennero perduti.
Intanto il genio si sedette vicino alla cassa e, dopo averla aperta
con quattro chiavi che portava legate alla cintura, ne fece uscire una
dama vestita molto riccamente, di statura maestosa e di perfetta
bellezza. Il mostro la fece sedere accanto a sé e, guardandola con
amore, disse:
- Signora, perfetta più di tutte le signore ammirate per la loro
bellezza, creatura affascinante, voi che ho rapito nel giorno delle
vostre nozze e che da allora ho sempre amato con tanta perseveranza,
permettetemi di dormire qualche minuto vicino a voi; il sonno da cui
sono oppresso mi ha spinto a venire in questo posto per riposare un
po'.
Dicendo queste parole, lasciò cadere la sua grossa testa sulle
ginocchia della dama; poi, dopo aver allungato i piedi che arrivavano
fino al mare, non tardò ad addormentarsi, e quasi subito cominciò a
russare in un modo tale da far rimbombare la riva.

La dama alzò per caso gli occhi e, scorgendo i principi in cima
all'albero, fece cenno con la mano di scendere senza rumore. Il loro
terrore fu enorme quando si videro scoperti. Supplicarono la dama, con
altri cenni, di dispensarli dall'ubbidirla. Ma lei, dopo aver tolto
dolcemente dalle sue ginocchia la testa del genio ed averla poggiata
leggermente a terra, si alzò e disse loro a bassa voce, ma animata:
- Scendete, è assolutamente necessario che veniate da me. - Essi
tentarono inutilmente di farle capire ancora con i loro gesti che
avevano paura del genio. - Scendete dunque, - replicò la dama con lo
stesso tono, - se non vi affrettate ad ubbidirmi, lo sveglierò, e io
stessa gli chiederò la vostra morte.
Queste parole spaventarono tanto i principi, che essi cominciarono a
scendere con tutte le precauzioni possibili per non svegliare il
genio. Appena a terra, la dama li prese per mano e, allontanatasi uno
po' sotto gli alberi, fece loro liberamente una proposta molto audace.
All'inizio essi rifiutarono, ma la dama li costrinse con nuove minacce
ad accettarla. Dopo aver ottenuto da loro quello che desiderava,
avendo notato che ognuno dei due portava un anello al dito, glieli
chiese. Appena li ebbe tra le mani, andò a prendere una scatola dal
pacco che conteneva i suoi oggetti personali; ne tirò fuori un filo
nel quale erano infilati altri anelli di ogni tipo e, mostrandoli ai
principi, disse:
- Sapete che cosa significano questi gioielli?
- No, - risposero, - ma sta a voi farcelo sapere.
- Sono, - riprese la dama, - gli anelli di tutti gli uomini ai quali
ho concesso i miei favori. Ce ne sono novantotto ben contati e li
conservo per ricordarmi di loro. Vi ho chiesto i vostri per lo stesso
motivo e per arrivare a cento anelli. Così dunque fino a oggi ho avuto
cento amanti, - aggiunse, nonostante la vigilanza e le precauzioni di
quest'orribile genio che non mi lascia mai. Ha un bel chiudermi in
questa cassa di vetro e tenermi nascosta in fondo al mare, inganno
ugualmente i suoi accorgimenti. Vedete che, quando una donna ha
stabilito qualcosa, non c'è marito o amante che possa impedirglielo.
Gli uomini farebbero meglio a non costringere le donne, sarebbe il
solo mezzo per renderle virtuose.
Dopo aver pronunciato queste parole, la dama infilò i loro anelli
nello stesso filo dov'erano gli altri. Poi si sedette come prima,
sollevò la testa del genio che non si svegliò affatto, se la rimise
sulle ginocchia e fece segno ai principi di ritirarsi.
Essi ripresero il cammino da dove erano venuti; e, appena ebbero perso
di vista la dama e il genio, Shahriar disse a Shahzenan:
- Ebbene, fratello mio, che pensate dell'avventura che ci è capitata?
Il genio non ha forse un'amante molto fedele? E non siete d'accordo
con me sul fatto che niente è paragonabile alla malizia delle donne?
- Sì, fratello, - rispose il re della Grande Tartaria. - E dovete
anche convenire che il genio è più da compiangere e più disgraziato di
noi. Perciò, visto che abbiamo trovato quel che cercavamo, torniamo
nei nostri Stati, e questo non ci impedisca di sposarci. Quanto a me
so con quale mezzo pretenderò che la fedeltà dovutami mi sia
inviolabilmente conservata. Ora non voglio spiegarmi su questo punto,
ma un giorno ne avrete notizia e sono sicuro che seguirete il mio
esempio.
Il sultano fu del parere del fratello e, continuando a camminare,
arrivarono al campo sul finire della notte, tre giorni dopo esserne
partiti.


Diffusasi la notizia del ritorno del sultano, i cortigiani andarono di
prima mattina davanti al suo padiglione. Egli li fece entrare, li
ricevette con aria più sorridente del solito, e fece a tutti dei
complimenti. Fatto ciò, dopo aver dichiarato di non voler proseguire,
ordinò loro di salire a cavallo, e in poco tempo ritornò a palazzo.
Appena arrivato, corse nell'appartamento della sultana. La fece legare
sotto i suoi occhi e la consegnò al gran visir, con l'ordine di farla
strangolare: cosa che il ministro del sultano eseguì senza informarsi
sul crimine da lei commesso. Il principe irritato non si accontentò di
questo. Con le proprie mani tagliò la testa a tutte le ancelle della
sultana. Dopo questo rigoroso castigo, convinto che non esistesse una
sola donna onesta, per prevenire le infedeltà di quelle che avrebbero
preso nel futuro, decise di sposarne una ogni notte e di farla
strangolare il giorno dopo. Essendosi imposta quella legge crudele,
giurò di metterla in atto subito dopo la partenza del re di Tartaria,
che si congedò ben presto da lui e si mise in viaggio, carico di
magnifici doni.

Partito Shahzenan, Shahriar non mancò di ordinare al suo gran visir di
portargli la figlia di uno dei suoi generali di armata. Il visir
ubbidì: il sultano si coricò con lei e il giorno dopo, riconsegnandola
nelle mani del visir per farla morire, gli ordinò di cercargliene
un'altra per la notte seguente. Sebbene il visir sentisse una grande
ripugnanza a seguire quegli ordini, poiché doveva cieca ubbidienza al
sultano suo padrone, era costretto a sottomettervisi. Gli portò perciò
la figlia di un ufficiale subalterno, e anche questa fu fatta morire
il giorno dopo. Poi, toccò alla figlia di un borghese della capitale;
insomma ogni giorno c'era una ragazza maritata e una sposa morta.
L'eco di questa inumanità senza pari provocò generale costernazione
nella città. Si sentivano solo grida e lamenti. Qui c'era un padre in
lacrime che si disperava per la perdita della figlia; là c'erano madri
affettuose che, temendo la stessa sorte per le loro, facevano
risuonare in anticipo l'aria con i loro gemiti. Così, invece delle
lodi e delle benedizioni che il sultano si era attirato fino a quel
momento, tutti i suoi sudditi altro non facevano se non imprecare
contro di lui.

Il gran visir che, come si è già detto, era suo malgrado il ministro
di una così orribile ingiustizia, aveva due figlie: la maggiore si
chiamava Sherazad (3) e la più giovane Dinarzad (4), Quest'ultima non
mancava di pregi, ma l'altra era dotata di un coraggio superiore al
suo sesso, di una grande intelligenza unita ad una meravigliosa
sottigliezza d'ingegno. Era molto istruita e aveva una memoria così
prodigiosa, che non le era sfuggito niente di quanto aveva letto. Si
era applicata con successo alla filosofia, alla medicina, alla storia
e alle arti; componeva versi meglio dei più famosi poeti del suo
tempo. Oltre a questo, era di straordinaria bellezza, e una fortissima
virtù coronava tutte queste belle qualità.
Il visir amava appassionatamente una figlia così degna del suo
affetto. Un giorno, mentre stavano conversando, lei gli disse:
- Padre mio, devo chiedervi una grazia; vi supplico umilmente di
accordarmela.
- Non ve la rifiuterò. - rispose il visir, - purché sia giusta e
ragionevole.
- Per essere giusta, - replicò Sherazad, - non può esserlo di più, e
lo potrete giudicare dal motivo che mi spinge a chiedervela. Ho in
mente di fermare il corso di questa barbarie che il sultano esercita
sulle famiglie di questa città. Voglio dissipare la giusta paura che
provano tante madri all'idea di perdere le proprie figlie in un modo
così funesto.
- La vostra intenzione è molto lodevole, figlia mia, - disse il visir,
- ma il male al quale volete porre rimedio mi sembra senza scampo.
Come credete di venirne a capo?
- Padre mio, - replicò Sherazad, - poiché, il sultano celebra ogni
giorno un nuovo matrimonio con la vostra mediazione, vi scongiuro per
il tenero affetto che avete per me, di procurarmi l'onore del suo
letto. - Il visir non riuscì ad ascoltare questo discorso senza
provare orrore.
- Oh Dio! - interruppe con impeto, - avete perso la ragione, figlia
mia? Potete rivolgermi una preghiera così pericolosa? Voi sapete che
il sultano ha giurato sulla propria anima di coricarsi con la stessa
donna una sola notte e di farla uccidere il giorno dopo; e volete che
io gli proponga di sposarvi? Avete pensato bene a che cosa vi espone
il vostro zelo indiscreto?
- Sì, padre mio, - rispose la virtuosa fanciulla, - conosco tutto il
pericolo al quale vado incontro, e non potrebbe spaventarmi. Se muoio,
la mia morte sarà gloriosa; e, se riesco nella mia impresa, renderò un
importante servigio alla mia patria.
- No, no, - disse il visir, - qualunque cosa possiate dirmi per
indurmi a permettervi di gettarvi in quest'orribile pericolo, non
pensate che io vi acconsenta. Quando il sultano mi ordinerà di
affondarvi il pugnale nel seno, ahimè! dovrò ubbidirgli. Che triste
compito per un padre! Ah! se non temete la morte, temete almeno di
procurarmi il mortale dolore di vedere la mia mano colorata dal vostro
sangue.
- Ancora una volta, padre mio, - disse Sherazad, - vi prego di
accordarmi la grazia che vi chiedo.
- La vostra ostinazione, - replicò il visir, - provoca la mia collera.
Perché voler correre spontaneamente verso la vostra rovina? Chi non
prevede la fine di un'impresa pericolosa, non saprebbe uscirne
felicemente.
- Padre mio, - disse allora Sherazad, - non dispiacetevi, di grazia,
se insisto nei miei sentimenti. D'altronde, perdonatemi se oso
dirvelo, voi vi opponete inutilmente: quand'anche la tenerezza paterna
rifiutasse di esaudire la mia preghiera, andrei io stessa a
presentarmi al sultano.
Infine il padre, messo alle strette dalla fermezza della figlia, si
arrese alle sue insistenze; e, sebbene molto addolorato per non essere
riuscito a dissuaderla da una così funesta decisione, andò
immediatamente a trovare Shahriar per annunciargli che la notte
seguente gli avrebbe condotto Sherazad.
Il sultano fu molto stupito del sacrificio che il suo gran visir gli
faceva.
- Come avete potuto, - gli disse, - decidervi a darmi la vostra
propria figlia?
- Sire - gli rispose il visir, - ella si è offerta spontaneamente. Il
triste destino che l'aspetta non è riuscito a spaventarla, e, alla sua
vita, preferisce l'onore di essere per una sola notte la sposa di
Vostra Maestà.
- Ma non vi illudete, visir, - riprese il sultano, - domani,
riconsegnando Sherazad nelle vostre mani, pretendo che le togliate la
vita. Se non lo farete, vi giuro che farò morire anche voi.
- Sire, - replicò il visir, - il mio cuore gemerà certamente
ubbidendovi. Ma la natura avrà un bel protestare: sebbene padre. vi
garantisco un braccio fedele. - Shahriar accettò l'offerta del suo
ministro e gli disse che poteva portargli la figlia quando avesse
voluto.

Il gran visir andò a portare la notizia a Sherazad che l'accolse con
tanta gioia come se fosse stata la più piacevole del mondo. Ringraziò
il padre di averle fatto questo gran favore e, vedendolo prostrato dal
dolore, per consolarlo gli disse che sperava che lui non si sarebbe
pentito di averla maritata al sultano e che, anzi, avrebbe avuto
motivo di rallegrarsene per il resto della sua vita.
Da quel momento la fanciulla pensò solo a prepararsi a comparire
davanti al sultano. Ma, prima di partire, chiamò in disparte la
sorella Dinarzad, e le disse:
- Cara sorella, ho bisogno del vostro aiuto in una faccenda
importantissima; vi prego di non rifiutarmelo. Mio padre sta per
portarmi dal sultano per essere sua sposa. Non vi spaventate per
questa notizia. Ascoltatemi soltanto con pazienza. Appena sarò davanti
al sultano, lo supplicherò di permettermi che voi dormiate nella
camera nuziale, affinché io goda per questa notte della vostra
compagnia. Se, come spero, riuscirò ad ottenere questa grazia,
ricordatevi di svegliarmi domani mattina, un'ora prima dell'alba, e di
rivolgermi queste parole: "Sorella mia, se non state dormendo, vi
supplico, mentre aspettiamo l'alba che spunterà fra poco, di
raccontarmi uno di quei bei racconti che voi conoscete". Comincerò
subito a raccontarvene uno e, con questo mezzo, spero di liberare
tutto il popolo dalla costernazione in cui si trova. Dinarzad rispose
alla sorella che avrebbe fatto con piacere quello che le chiedeva.
Arrivata l'ora di coricarsi, il gran visir portò Sherazad a palazzo e
si ritirò dopo averla introdotta nell'appartamento del sultano. Appena
il principe fu solo con lei, le ordinò di scoprirsi il viso e la trovò
così bella che ne rimase incantato. Ma, accorgendosi che stava
piangendo, gliene chiese il motivo.
- Sire, - rispose Sherazad, - ho una sorella che amo teneramente come
ne sono riamata. Desidererei che lei passasse la notte in questa
camera per vederla e dirle addio ancora una volta. Volete accordarmi
la consolazione di darle quest'ultima testimonianza della mia
amicizia?
Shahriar acconsentì e mandò a chiamare Dinarzad che venne
sollecitamente. Il sultano si coricò con Sherazad su un palco molto
alto alla moda dei sovrani d'Oriente, e Dinarzad in un letto che le
avevano preparato ai piedi del palco.

Un'ora prima dell'alba, Dinarzad, che si era svegliata, non dimenticò
di fare quello che le aveva raccomandato la sorella.
- Cara sorella, - esclamò, - se non dormite, vi supplico, mentre
aspettiamo l'alba che spunterà fra poco, di raccontarmi uno di quei
bei racconti che voi conoscete. Ahimè! forse sarà l'ultima volta che
avrò questo piacere.
Sherazad, invece di rispondere alla sorella, si rivolse al sultano e
gli disse:
- Sire, Vostra Maestà vuol permettermi di dare questa soddisfazione a
mia sorella?
- Molto volentieri, - rispose il sultano. Allora Sherazad disse alla
sorella di ascoltare e poi, rivolgendo la parola a Shahriar, cominciò
a raccontare così.

continua...


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« immagine » MILLE E UNA NOTTE. Le cronache dei Sassanidi, antichi re di Persia, che avevano esteso il loro impero nelle Indie, nelle grandi e piccole isole che dipendono da esse, e molto più oltre, al di là del Gange fino alla Cina, dicono che c'era una volta un re di quella potente dinast...
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07/10/2013 22:52:24
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Di rondini, uccellini, topi di campagna e di città.

03 ottobre 2013 ore 17:24 segnala


VIII - La Rondine e gli Uccellini




Molte cose una Rondine vedute
ne' suoi viaggi avea di là del mare.
Viaggiando c'è sempre da imparare
e tanto ben la nostra rondinella
apprese a strologare il cielo e i venti,
che ai naviganti indizio
era di tempo bello o di procella.

Venne il tempo che getta le sementi
della canape in terra il contadino.
Vedendo questo disse: - State attenti,
uccelli, non mi va questa faccenda;
per voi semina insidie quella mano.
Per me, se c'è pericolo,
saprò bene volarmene lontano.

Da quei solchi vedrete uscir gl'inganni,
trappole e reti e panie ed altri affanni
come dire la morte o la prigione.
Dunque, - aggiunse la Rondine prudente, -
codesti grani subito mangiate -.
Ma gli Uccelli risposero a fischiate.

Essi risero poi della balorda,
che mentre era sì ricca la stagione
e pieno il campo d'ogni altra pastura,
volesse, profetessa di sventura,
costringerli a mangiar roba indigesta
e cruda come questa.
Fossero stati mezzo milione,
non bastavano ancora a ripulire
una provincia di quell'erba dura.

- Uccelli, non mi va questa faccenda, -
la rondinella ritornava a dire, -
mal'erba cresce presto e non vi attenda
di non aver creduto il pentimento.
Quando la neve coprirà la terra,
sarà divertimento
di tanta gente in ozio agli uccellini
il far con lacci e trappole la guerra.

Voi non potete come è dato a noi,
e come fan le gru, fan gli stornelli,
passar del mar, dei monti oltre i confini.
Altro dunque per voi
non rimane che starvene al sicuro
dentro i crepacci d'un cadente muro -.

Seccati di sentirla predicare,
a far rumor cominciano gli Uccelli,
come i Troiani usavano di fare
se la bocca Cassandra appena apria.
Così per questi come accadde a quelli,
quando rimaser presi
pur troppo s'avverò la profezia.

Anche fra noi succede tal e quale,
che non sentiam che il sentimento nostro.
Se non è sopra, non si crede al male.




IX - Il Topo di città e il Topo di campagna

Un Topo campagnol venne invitato
con molta civiltà
a un pranzo di beccacce allo stufato
da un Topo di città.
Seduti su un tappeto di Turchia
coi piatti avanti a sé,
mangiavan quella grassa leccornia
felici come re.

Se il trattamento e il piatto
fu cortese e squisito io non dirò.
Ma solo avvenne un fatto
che sul più bello il pranzo disturbò.

Voglio dir che alla porta
s'intese tutto a un tratto un gran rumor,
l'un scappa che il diavolo lo porta
e scappa l'altro ancor.

Passato quel rumor torna al suo posto
il Topo cittadin,
e vuole che del pranzo ad ogni costo
si vada fino in fin.

- No, basta, - disse il Topo di campagna, -
vieni diman da me.
Non si mangia seduti in pompa magna
ghiottonerie da re,

ma si mangia e nessuno t'avvelena
il pane ed il bicchier.
Senza la pace anche una pancia piena
non gusta il suo piacer -.


J, De La Fontaine
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03/10/2013 17:24:33
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