
Mi ricordo un natale di quando ero piccola: non più di sei anni e una fede grande come tutto il mondo in Babbo Natale. Aspettavo di ricevere una casetta di Polly Pocket, che mia cugina più grande già aveva e di cui ero gelosissima. Ho qualche lampo di ricordi: le vecchie luci grosse e rotonde dell’albero, brillanti nella loro alternanza di colori caldi e freddi, i bulbi incrostati di neve artificiale; i miei genitori che sorridevano molto di più, mio papà con i baffi e dei bei capelli neri; soprattutto ricordo il profumo delle bucce d’arancia lasciate a scaldare sulla piastra del fornello, come usava fare mia mamma. L’inverno sembrava più freddo ed il buio della sera avrebbe nascosto qualsiasi magia: una bambina come me non doveva vederla, solo trovarla realizzata nella solida luce del mattino.
Con la faccia appiccicata al vetro della finestra, scrutavo fuori nella strada di fronte alla casa dove abitavamo allora.
Subito oltre un piazzale con poche macchine parcheggiate, lo sguardo si perdeva nell’oscurità della campagna circostante che diventava tutt’uno col cielo notturno, costellata di punti gialli, finestre lontane. Ogni luce di automobile, che si muoveva rapida e intermittente dietro ai filari degli alberi lungo la strada, aveva un che di magico e misterioso, perché la mia eccitazione di bambina non poteva che ricollegarle a Babbo Natale, alle incomprensibili dinamiche del suo movimento.
Ripenso spesso a quella sensazione, a quello sguardo nel buio con il suo carico di aspettativa.
È l’unico momento di cui ho ricordo in cui ho creduto veramente nell’esistenza di qualcosa di magico, con una fede autentica, di quelle che colorano il mondo con la loro certezza.
Ricordo un altro natale. Tredici o quattordici anni e già non credevo più nella magia, anche se forse c’era ancora in me la voglia, almeno, di sperare. Sai, l’idealismo assurdo di quell’età, che mantieni un po’ per sfida nei confronti di adulti che sembrano averlo ormai perso.
Ricordo la cantina di un amico, con mobili di legno massiccio che profumavano di lacca, e l’odore troppo dolce di quei profumi terribili che si trovavano nelle riviste per teenagers.
A Silvia, la mia migliore amica, piaceva Simone, che era già in terza superiore. A me stava simpatico Alessandro e fingevo con lei che mi piacesse sul serio, quando in realtà sia io che lui sapevamo di essere piuttosto indifferenti l’uno all’altra da quel punto di vista. Più che altro ci scambiavamo cd ed mp3, perché ci piaceva quasi la stessa musica. Daniele era l’elemento slegato di questa implicita doppia coppia, ma noi ragazze lo sopportavamo per rispetto di quella strana legge atomica che lo legava agli altri due elementi. Quella sera non successe niente di memorabile: nessun momento topico, come avrebbe richiesto la sceneggiatura di un film, nè un ricordo indelebile legato alla nascita di un soprannome; nessuno scherzo che ricordiamo ancora oggi. Neppure un memento, perché persino la consuetudine di scambiarsi un regalo fra noi sarebbe nata solo qualche anno più tardi. L’unica cosa che lega tutti i frammenti di memoria di quella vigilia è il ricordo, forse aggiunto a posteriori, di una sensazione di libertà. Sospesi nel tempo in un eterno presente, con la possibilità, ancora, di essere tutto. È anche questa una magia a cui credevamo, a quell’età.
È quasi la vigilia di Natale e guardo fuori dalla finestra adesso, nell’oscurità di un giardino poco curato e nella stasi di una stradina stretta e deserta, illuminata duramente dalla luce bianca dei lampioni, che le auto parcheggiate catturano e restituiscono indifferenti. Riflessi metallici di colori monotoni. Anche i muri delle vecchie case sono desaturati, pallide sfumature di grigi che conferiscono loro un’aria abbattuta. Le finestre chiuse o spente, come palpebre abbassate od orbite vuote.
Qua fuori, nella luce elettrica, non c’è rimasto più niente di magico. Concreti asfalto e mattone e metallo, e nessuna renna volante nascosta nella cappa buia del cielo, solo la nozione di un sottile guscio d’aria, e oltre, distanze incommensurabili di freddo assoluto. Persi nel vuoto senza fine non luci ma altri agglomerati di pietra e metallo, uguali al nostro, a vorticare velocissimi ma senza neanche accorgercene in un cosmo tanto vasto quanto indifferente.
Senza più magia veniamo riconsegnati a noi stessi, strani atomi animati brevemente da una scarica elettrica, che inventano regole perché troppo atterriti di fronte al vuoto di senso di tali immensità.
Sul vetro buio della finestra si riflettono le luci colorate del mio piccolo albero. Anche se vivo da sola e qui non viene quasi nessuno, lo faccio sempre, più che altro per me. Mi trasmette calore. Mi ricorda con nostalgia l’anticipazione per la magia autentica a cui credevo di assistere.
A quanto era bello non sapere niente, non aver ancora vissuto.