
Ricordo di aver visto la prima una sera, forse era già notte, ed è per questo che non le diedi importanza. In quel momento Murder Radio, la mia radio preferita, trasmetteva “Henry Lee” di Nick Cave e PJ Harvey, e questo sottolineò la suspence. Ma, nella penombra, pensai fosse soltanto un’illusione ottica. Inoltre il mattino seguente dovevo alzarmi molto presto. Quindi non indagai oltre. Ma è innegabile che la situazione era già in grado di impressionarmi. Era piccola, rossiccia ma ben delineata. Una piccola impronta. Singola. Sembrava lasciata da un piede nudo, probabilmente femminile. Si trovava su un gradino delle scale che congiungono i due piani del mio appartamento. E proprio per questo l’impronta era inspiegabile. Mi chiamo Caderna, ho trentadue anni, vivo da solo e nessuno era venuto a trovarmi negli ultimi giorni. Neppure la donna delle pulizie, che era ammalata. E allora, chi aveva lasciato quell’impronta? E perché era soltanto una? E, soprattutto, era davvero insanguinata? Inoltre, da qualche giorno, in casa mia si verificava uno strano fenomeno: le lampadine si fulminavano a ripetizione, senza un motivo apparente.
Nei giorni che seguirono, la storia si ripetè in modo preoccupante. Quasi ogni giorno trovavo una lampadina fulminata ed un’impronta. Sempre del piede sinistro. E sempre sulle scale, che peraltro sono di marmo di Carrara - quasi bianco con venature chiare - per cui il colore rossiccio risaltava e mi faceva venire i brividi, perché sembrava sempre più evidente che si trattasse proprio di sangue.
Mentre facevo queste riflessioni, mi accorsi che avevo finito il fumo. Mi fiondai in strada sotto una pioggia battente in cerca di Willy, il mio pusher di riferimento. Era un ragazzo, che la vita aveva condannato sulla carrozzella, che rimediava con questa attività illecita, alla latitanza da parte dello Stato in fatto di assistenza sociale. Ed io cercavo di aiutarlo un po’. Ora non vorrei che fraintendeste! No, no, le impronte non erano sicuramente frutto di allucinazioni da fumo. Diciamo che ogni tanto mi faccio una canna, ma come tanti, del resto!
Nel giro di due settimane le impronte si moltiplicarono. Ormai erano tantissime, su ogni scalino, e questo mi spingeva a scartare decisamente l’ipotesi di una svista, una coincidenza o una suggestione. O perfino di manie di persecuzione, come aveva detto inizialmente Paola, la mia ragazza, deridendomi. Lo stesso trattamento mi riservarono amici e conoscenti, accusandomi di vedere troppi films horror. Eppure le impronte erano lì, le potevano vedere tutti. E aumentavano ogni giorno in modo, starei per dire, minaccioso! Fu allora che mi sembrò di poter risolvere l’enigma: si trattava di uno scherzo. Ma si! Era solo uno scherzo, non c’era da preoccuparsi! Non poteva essere altrimenti. Qualcuno si divertiva a mettere quelle strane impronte in mia assenza, per poi vedere le mie reazioni. Forse era proprio Paola, che infatti aveva anche un doppione delle chiavi di casa. Ma presto dovetti escludere anche quell’ipotesi. Conosco bene Paola. Di piede calza 41, mentre le impronte erano molto minute, direi inferiori a 35. Che fossero le impronte di un bambino? La cosa cominciava ad assumere una piega raccapricciante. Ricordo che quella notte Murder Radio trasmise “Emmilou” di Massimo Bubola e questo mi provocò un brivido lungo la schiena. E nello stesso istante un’altra lampadina si fulminò. Allora decisi di lavare via tutto. Come se avessi visto quelle impronte in un incubo. Basta! Pensai, da domani saranno soltanto un brutto ricordo! Non fu facilissimo cancellarle. Non bastava il mocio, infatti dovetti cancellarle una per una, con la spugnetta abrasiva. Le macchie avevano una consistenza molliccia e quasi viscida. Appiccicosa. Ed avevano anche un loro minimo spessore. Alcune non si erano ancora essiccate del tutto, ma riuscii a venirne a capo. Finalmente le scale tornarono pulite.
Ma niente! Dal giorno successivo le impronte ricominciarono ad apparire sempre più numerose. Ero ormai esasperato e decisamente intrattabile. Per un paio di notti evitai di rincasare. Mi ospitò Paola. Grazie a lei riuscivo ad andare in paradiso senza bisogno di morire eppure neanche questo mi permetteva di dimenticare il mio enigma. Infatti quando rientravo a casa trovavo sempre le scale piene di impronte. Feci caso solo allora che andavano tutte in una direzione, come se salissero verso l’alto. Allora pensai che ci dovesse essere una specie di spiegazione metafisica. Non ne potevo più, avevo perso anche il sonno, ero terrorizzato. Ma mi rifiutavo di accettare nuovi inviti di Paola per convincermi a dormire ancora da lei. Mi sembrava un segnale di resa. Io arrendermi a un’impronta? Mai e poi mai! Anzi, visto che non riuscivo a dormire, mi alzavo improvvisamente e mi affacciavo di colpo sulle scale, come a voler sorprendere il proprietario delle impronte. E…. zac! Non c’era mai nessuno. Ma in compenso c’erano ancora nuove impronte. Finchè mi capitò di riascoltare un vocale da me registrato sullo smartphone, tempo addietro. Lo facevo spesso, per fissare idee, considerazioni, appunti, da quando mi ero messo in testa di scrivere un libro. Non inviavo quelle registrazioni a nessuno. Mi servivano soltanto per non perdere degli spunti, strada facendo, visto che ho una pessima memoria. Con voce turbata, quasi sussurrando, dicevo di vedere delle ombre, con la coda dell’occhio, alternate a dei fasci di luce che tagliavano improvvisi il buio attorno a me. Come una porta che si socchiude e lascia filtrare un fascio di luce accompagnato da un cigolio sinistro. Sembrava parlassi di qualcosa che stavo vivendo davvero! Quando l’avevo registrato? E a cosa cazzo mi riferivo?
Intanto, nel quartiere, ormai le voci giravano incontrollate. C’era chi giurava che quelle impronte le mettessi io stesso per uscire dalla mia emarginazione e destare interesse presso qualcuno più solo e disperato di me. Ma erano soltanto delle malelingue! Mi tornò in mente un vecchio film di Polanski “L’inquilino del terzo piano” in cui, con una escalation agghiacciante, il protagonista viene travolto da una serie di situazioni ambigue, al limite dell’irreale, fino ad arrivare a suicidarsi per sfuggire alla carogneria del vicinato. Non sarebbe stato lo stesso per me, mi rassicurai! La sera successiva Murder radio trasmise “Sere feriali” delle Luci della centrale elettrica, uno strano pezzo che parla di “gatti con l’aids”. Fu come avere un flash improvviso: soltanto allora mi ricordai di Gildo. Ma certo, poteva essere stato lui! È capace di tutto, mi dissi. Devo provare ad osservarlo a distanza. Senza che se ne accorga. Ma lui, proprio come Gatto Sivestro, salendo svelto le scale in punta di piedi, si limitò ad annusare qualche impronta, come fanno tutti i felini. Poi si voltò verso di me e disse: Miao! Sei sulla strada sbagliata, amico, non è di me che devi sospettare! Quindi continuò a salire le scale zompettando tranquillo e mormorando che gli parevo un tipo davvero molto strano. Così mi sembrò di capire che Gildo conoscesse la verità su quelle maledette impronte! Chi poteva avergliela detta? Il rebus diventava sempre più complesso ed inestricabile.
Allora corsi di sopra per chiedergli come potevo rimediare e soprattutto se quello che sembrava sangue lo fosse realmente. Lo trovai disteso sul divano, che fumava un sigaro cubano. Mi disse, fratello tu hai una mente troppo contorta, spesso le cose sono molto più semplici di come sembrano. Ma ero ancora al punto di partenza, cioè a zero. Che voleva dire? Come per aumentare la tensione, in quell’istante si fulminò un’altra lampadina e la radio trasmise “Murder in the red barn” di Tom Waits. Sembrava lo facessero apposta! Fu allora che Gildo mi prese sottobraccio e mi spiegò che le impronte erano di tutte quelle persone che erano passate nella mia vita senza neppure riuscire a fermarsi il tempo necessario ad appoggiare entrambi i piedi. Un po’ perché io le avevo in qualche modo rifiutate, un po’ perché non avevano ritenuto utile o interessante o opportuno restarci. Mi tornarono in mente ragazze, amici, conoscenti, colleghi di università che non ero riuscito a conoscere per davvero, a trattenere nella mia vita. Con i quali non si era andati oltre un rapporto formale e superficiale. Si trattava anche di persone che mi erano sembrate interessanti, colte, controcorrente e quindi compatibili col mio modo di essere, ma che la fretta e la superficialità a cui siamo abituati oggi, mi avevano fatto perdere per strada.
Rividi nella mia mente un vortice di volti: Ornella, Tina, Teresa, Donato, Tiziana, Alfredo, Michela. Chissà in quale angolo di mondo si trovavano in quel momento e se ancora si ricordassero vagamente della mia esistenza! Mi sembrò di barcollare. Ero come ubriaco. Intanto la programmazione di Murder Radio era passata a trasmettere “Canzone dell’assenza” di Massimo Bubola. Decisi di telefonare a Ornella, era la sola della quale conservavo, ancora dopo tanti anni, il numero sulla mia rubrica, forse nella speranza inconscia di riuscire, prima o poi, a ristabilire i contatti.
311 355 2384
“Informazione gratuita. Attenzione, il numero composto è inesistente. Si prega di verificare prima di tornare a chiamare.”
Fu allora che l’ennesima lampadina si fulminò e restai a brancolare disperato, cercando di scendere quelle maledette scale nel buio gelido della mia solitudine.