"Quartetto sovietico (adagio con brio)" - Racconto

06 gennaio 2025 ore 16:02 segnala



Mosca, aprile 1958

Essere disturbato mentre provava lo aveva sempre mandato su tutte le furie, ma quando ti manda a chiamare il segretario del Partito, un uomo per giunta fresco di nomina a Presidente del Consiglio dei Ministri dell’Urss, non ci sono molte storie da fare. Per questo David Oistrakh fendeva le navate dei corridoi del Cremlino con un fondo di soggezione mascherata dalla dignità che ti dà comunque l’essere uno dei violinisti più acclamati al mondo. E dalla serenità di essere un buon amico del potente tizio che ti manda a chiamare con urgenza un’ora prima di cena, il che non guasta.
Il soldato della guardia che lo accompagnava lo lasciò nella grande sala d’attesa che introduceva nell’ufficio del compagno Segretario, la cui porta era chiusa e il passo sbarrato da due guardie in grande uniforme che la piantonavano. Nella sala però stavo seduti sui divanetti, lontani tra di loro, due individui silenziosi. Il primo lo riconobbe subito, perché quella faccia occhialuta da burocrate dimesso apparteneva in realtà a uno dei più grandi geni della musica del suo tempo: Dimitri Shostakovich. Riconosciutolo, gli andò subito incontro a braccia aperte: «Shosty, che gioia rivederti! Ma che ci fai anche tu qui? Forse il segretario sta radunando un’orchestrina per la cena?». «Sempre allegro tu David, amico mio», rispose Shostakovich alzandosi in piedi e ricambiando l’abbraccio, proseguendo poi a voce sussurrata «Guarda lì chi c’è, Mikhailov…». Allora Oistrakh mise a fuoco l’altro personaggio, seduto in un divanetto parecchi metri più in là, e riconobbe il Ministro della Cultura dell’Urss. Sciogliendosi quindi velocemente dall’abbraccio del collega musicista andò incontro all’importante personalità, un ex giornalista prestante e belloccio, che nel frattempo si era già messo in piedi aggiustandosi la giacca, in attesa di ricevere l’omaggio del celebre violinista.
- «Compagno Ministro, perdonami ma non ti avevo riconosciuto subito. È un piacere rivederti, anche se di certo non mi aspettavo di farlo qui stasera. Sei stato convocato anche tu dal Segretario, come me?».
- «Io, assieme al compagno Shostakovich, ho chiesto udienza urgente al Segretario per una questione politica molto seria», risposte il Ministro dandosi un tono di gravità.
- «Allora non dev’essere la stessa cosa che riguarda me, cosa c’entro io con la politica?», rispose Oistrakh.
Il rumore della porta dell’ufficio del Segretario che si apriva interruppe la conversazione. Apparve sulla soglia, in mezzo alle guardie che facevano mezzo passo di lato per lasciare l’accesso, il Segretario del Pcus Nikita Krusciov: «Ah, siete già tutti qui. Entrate tutti e tre, compagni». Mikhailov si voltò verso Oistrakh mormorandogli: «La politica riguarda tutti, compagno».
I tre entrarono con circospezione, uno alla volta nell’ufficio del Segretario, che li accolse con viso serio e chiuse la porta alle spalle urlando di non essere interrotto per nessun motivo alle guardie sulla porta. Quindi con passo lento e scrutando i convenuti, si diresse verso la sua enorme scrivania affollata di pile di documenti, sulla cui più alta campeggiava un pregevole busto di bronzo di Lenin. «Vi prego compagni, prendevi liberamente qualcosa da bere dal mobile bar laggiù e poi accomodatevi pure dove più vi aggrada, voglio sia una conversazione tra amici». I tre ospiti andarono silenziosamente al carrello degli alcolici guardandosi negli occhi con circospezione e versandosi ognuno un bicchiere di liquore di proprio gusto. Poi Shostakovich andò a sedersi sulla poltrona alla sinistra della scrivania, mentre Mikhailov si accomodò su quella di destra, poggiando con ostentazione di familiarità il gomito sulla scrivania per sorseggiare il suo cognac francese. Oistrakh invece rimase in piedi, nel mezzo della sala con un bicchiere di vodka in mano pieno fino all’orlo, cercando di capirne di più sulla situazione prima di fare qualsiasi movimento imprudente.
«Dunque compagni – esordì il Segretario Krusciov – riassumiamo bene la situazione, se ho capito bene. Abbiamo organizzato questo grandioso Concorso musicale internazionale per giovani pianisti e violinisti intitolato a Tchaikovsky. Arrivano musicisti da tutto il mondo per celebrare il genio musicale russo. Ora, dopo dieci giorni di concerti è tempo di proclamare il vincitore e il qui presente Presidente della Giuria, l’illustrissimo Dmitri Shostakovich, riverito maestro nonché segretario della Lega dei Compositori Sovietici, insiste che il primo premio debba essere dato a un pianista americano. Ripeto: un americano. D’altra parte, il qui presente Ministro della Cultura, il compagno Nikolai Mikhailov, sostanzialmente dice che piuttosto che far vincere un americano preferirebbe farsi togliere tutti i molari senza anestesia. Ora io dico a voi: davvero non abbiamo giovani pianisti russi bravi abbastanza per fargli vincere questo concorso?»
«Certo che ne abbiamo – rispose Shostakovich senza indugio – ne abbiamo di bravissimi come Shtarkman, o Vlassenko. Ma questo americano, Van Cliburn si chiama, è più bravo di loro. I suoi concerti sono stati indiscutibilmente migliori, e la giuria è unanime in questo giudizio».
«Più bravo o meno bravo – lo interruppe il Ministro Mikhailov – questo a noi non importa. Il concorso ha come obiettivo l’esaltazione del genio creativo russo e deve far trionfare l’Unione Sovietica anche nell’esecuzione. L’anno scorso abbiamo mandato in orbita lo Sputnik, questo ci rende trionfatori nel campo della tecnologia nei confronti degli americani. Ma ora non possiamo permetterci di perdere il primato sull’arte, con un pianista americano, un texano lungagnone rosso di capelli e con la faccia allampanata poi. E lo chiamiamo a Mosca per farlo trionfare a casa nostra? Nossignore, non possiamo permettercelo. L’Unione Sovietica deve rimanere saldamente e indiscutibilmente il faro nelle arti per i popoli del mondo, e mi permetto di dire che per questa causa ben più importante è dovere di ogni buon comunista sacrificare il proprio gusto personale. E su questo sono sicuro che il Maestro Shostakovich dovrà essere d’accordo con me, lui che ha scritto fior di composizioni immortali per celebrare le imprese dell’Armata Rossa nella grande Guerra Patriottica…»
«E su questo il Ministro ha ragione – lo interruppe a sua volta Krusciov, tentando di stimolare una risposta altrettanto decisa e persuasiva da parte del musicista – Possiamo noi, in tutta coscienza, lasciare che il nostro gusto personale oscuri le finalità della rivoluzione socialista? Possiamo lasciar oscurare la grandezza dell’Unione Sovietica dalla vittoria di un americano a Mosca?»
«Compagno Segretario – rispose sorridendo Shostakovich – sapete benissimo che negli scorsi decenni i tirapiedi di Stalin mi hanno accusato ovunque di comporre musica retorica e apolitica, mi hanno dato del controrivoluzionario e di scrivere musica lontana dai gusti del popolo. Ora Van Cliburn ha già vinto, e lo ha scelto proprio il popolo. Alla fine dei suoi concerti in queste serate il pubblico lo ha ricoperto di calore con applausi come raramente ne ho sentiti, e vi assicuro che ne ho sentiti nella mia carriera. Provate a dire che Cliburn non è il vincitore, e ditelo a tutti i moscoviti che hanno lanciato fiori sul palco sommergendolo, facendo interrompere il concorso per mezz’ora per pulire tutto. È il popolo che ha scelto prima di noi giurati. E del resto come mai potremmo negarlo noi, che abbiamo visto per la prima volta Tchaikovsky eseguito su un palco non solo con la più alta tecnica, cui comunque i nostri pianisti non sono secondi a nessuno, ma con una passione e un trasporto che incantano e, soprattutto, che evoca in pieno il vero spirito del romanticismo russo, una cosa che lo farà volare nel mondo. E, signori, è questo invece il vero fine a cui dobbiamo guardare».
«Cliburn sconfigge la Russia – interruppe di nuovo Mikhailov, ribadendo di nuovo seccamente la frase sottolineandola nell’aria con un dito – Fissatevi bene in testa questa frase perché sarà questo il titolo della copertina del Time e di tutti i giornali occidentali la prossima settimana. Sarà così che lo spirito del romanticismo russo sorvolerà l’Occidente, se noi ci lasciamo fregare dai sentimenti. Del resto lo faremmo anche noi, a parti inverse. Ma proprio noi non possiamo essere così sciocchi da mettere i nostri nemici in posizione di vantaggio, altrimenti noi non avremo più sicurezze e loro invece prenderanno slancio. E dopo cosa dovremo aspettarci nel futuro, che gli americani arrivino sulla luna prima di noi? O che ci tolgano anche la corona di campioni del mondo di scacchi?»
Su questo interrogativo calò un silenzio infastidito che Oistrakh, ancora in piedi e senza aver nemmeno sorseggiato il suo bicchiere di vodka, ruppe timidamente rivolgendosi direttamente al Segretario: «Perdonami Nikita, ma io che ci faccio qui?»
«David, amico mio…» gli rispose Krusciov sconsolato, mentre guardava i due contendenti osservarsi ingrugniti. «Brutto ceffo di un ebreo ucraino che non sei altro, non ti vergoni a bere da solo? Portami un bicchiere e metti sulla scrivania la bottiglia della vodka». Rivitalizzato dalle affettuose angherie dell’amico, il violinista prese una bottiglia di Moskovskaya e la mise sulla scrivania, su cui posò anche il suo bicchiere intonso. «Bevi Nikita, dal bicchiere però, non dalla bottiglia. Non farti riconoscere per quel somaro di contadino ucraino che sei…» rispose Oistrakh disinvoltamente, tra le occhiate stupite di Mikhailov e Shostakovich. Al che Krusciov venne scosso da una risata fragorosa, afferrando la bottiglia, versandosene in gola davvero una robusta sorsata a collo e tirando fuori un forte sospiro di soddisfazione: «… questo sì che è comunismo, non come il cognac francese da aristocrazia decaduta che bevi tu, Mikhailov». Il Ministro, sentitosi colto in flagranza di controrivoluzione, poggiò il suo bicchiere sulla scrivania allontanandolo con circospezione. «Comunque David – riprese il filo il Segretario - tu sei qui perché tre anni fa ti abbiamo dato il permesso di andare negli Stati Uniti per un giro di concerti, e ci sei stato per tre mesi, quindi voglio sapere da te se gli americani saranno così stronzi da prendere una loro vittoria al Concorso Tchaikovsky come un nostro atto di debolezza. Tu li hai conosciuti, li ha visti da vicino…»
«Ecco compagni – cominciò timidamente il violinista – vi dirò: sono stronzi proprio come noi». La battuta suscitò l’ilarità fragorosa di Krusciov, e strappo un’imbarazzata risata anche a Mikhailov, mentre Shostakovich tentò di contenere il sorriso fingendo maldestramente di pulirsi gli occhiali. «Però vi dico una cosa – riprese con più sicurezza Oistrakh – E cioè che la musica non è un prodotto, non è granturco o rame, bensì una riflessione dello spirito umano che tende al sublime divino. La musica, come ogni arte, è il battere d’ali dell’uomo. È il mezzo che ogni uomo ha per volare oltre ogni vincolo di censo, di razza, di condizione, di religione, di pensiero politico. Se ingabbiamo la musica in un processo mentale razionale, o in materiali disegni terreni, la uccidiamo. Pertanto se avete intenzione di ucciderla continuando con questi discorsi, lasciatemi andare a casa a farmi confortare dal mio violino».
E nel silenzio che ne seguì, tutti guardarono Mikhailov sfidandolo a mostrare il coraggio di ribattere ad una riflessione così alta. Tuttavia, notando l’imbarazzo del compagno di governo, Krusciov gli riavvicinò il bicchiere di cognac: «Finiscilo il tuo bicchiere di cognac controrivoluzionario, che costa un occhio della testa all’erario». Poi si rivolse verso Shostakovich dicendogli con timbro risoluto: «Questo Cliburn è davvero il migliore? Allora fatelo vincere! Per il concorso di violino abbiamo problemi anche lì?». «No compagno – rispose soddisfatto il compositore – vincerà Klimonov, è bravissimo ed un allievo del qui presente maestro Oistrakh. Ora permettimi di andare, perché fra mezz’ora proclameremo i vincitori», e così dicendo si congedò stringendo le mani a tutti, per ultimo e più cordialmente allo sconfitto Mikhailov. Mentre Shostakovich usciva dalla sala, Krusciov si rivolse proprio a Mikhailov chiedendogli se avesse qualcosa in contrario in merito alla sua decisione. «Sei tu il capo, compagno – rispose il Ministro – Metteremo in atto una sorta di piano B: diffonderemo alla stampa la notizia che Van Cliburn ha studiato pianoforte alla Juliard da Rosina Lhevinne, che a sua volta si è formata al Conservatorio di Mosca, cosa del resto inoppugnabile. In questo modo faremo passare che l’influenza culturale russa è arrivata anche in America ed è venuta a mostrare i suoi frutti proprio a Mosca».
«Ottimo piano B – risposte Krusciov – sicuramente meglio del piano C», e così dicendo tirò fuori dal cassetto un fascicolo di fogli dattiloscritti intestati del Kgb che allungò sotto lo sguardo del Ministro. «Spero apprezzerai la delicatezza – proseguì Krusciov – Se li avessi tirati fuori davanti a Shostakovich, ti avrebbe accoltellato: dunque tu hai chiesto al comitato per la sicurezza la possibilità di mettere fuori causa questo pianista americano la serata finale facendogli rompere una mano, o addirittura ammazzandolo in un incidente stradale? Ti ricordo che le fotografie di Stalin le abbiamo tolte dai muri già da qualche anno. Non sono più quei tempi, a maggior ragione se andiamo a toccare una persona che è comunque un ospite nel nostro Paese, anche se americano. E comunque certe soluzioni devono passare da me, prima». Mikhailov iniziò a tremare dall’imbarazzo e gli sembrò una liberazione quando il Segretario lo congedò invitandolo a raggiungere la premiazione del Concorso Tchaikovsky portando gli auguri e i complimenti del governo sovietico ai vincitori. Quando il Ministro si chiuse la porta dell’ufficio alle spalle, Krusciov invitò finalmente a sedere il povero Oistrakh, che era rimasto in piedi tutta la sera.
- «Caro David, non sai che rogna sia il potere. A volte non capisco proprio perché ho complottato tanto per ottenerlo».
- «Nikita, a me non la racconti, avrà sicuramente i suoi vantaggi. Però si stava meglio una volta, ti ricordi la guerra? Eravamo più giovani. Ci siamo conosciuti a Stalingrado, nell’inverno del ‘42».
- «Io ero commissario politico. Bombardamenti e fame. Ti ricordi quella sera al teatro dell’opera, tu eseguivi il concerto per violino e orchestra di Tchaikovsky, e non ti sei fermato nemmeno quando hanno suonato le sirene dell’allarme aereo».
- «Non si è alzato nessuno nemmeno dal pubblico, eravate tutti immobili ad ascoltarci, io e l’orchestra. C’era solo la musica. Alla fine del mio assolo a metà del primo movimento, quando entra l’orchestra, ho alzato lo sguardo sul pubblico ed avevate tutti le lacrime agli occhi».
- «C’era davvero solo Tchaikovsky nell’aria. Ed eravamo tutti a un passo dalla morte. La musica fa proprio miracoli».
- «Davvero, caro Nikita. Noi eravamo a Stalingrado, ma il povero Shostakovich stava a Leningrado: 900 giorni di assedio a morire di freddo e a mangiare topi, quando se ne trovavano. E nonostante tutto questo va a comporre la sua Settima Sinfonia, la sinfonia di Leningrado. È davvero un grand’uomo quello lì».
- «Non che noi a Stalingrado banchettassimo col caviale... Ma sai David, invece quel dongiovanni di Mikhailov dov’era durante la guerra?»
- «No, dov’era?»
- «Qui, a Mosca. Faceva il segretario dell’Unione delle leghe dei giovani comunisti. Ha passato la guerra chiuso al caldo in un ufficio pieno di ragazzine in fiore che gli facevano da segretarie…»
- «E si è perso tutto il meglio della guerra. Si è sacrificato, poveretto».
E risero come matti rivangando il passato, tutta la sera.

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06/01/2025 16:02:39
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Bestia indomabile, l'amore

09 ottobre 2024 ore 19:41 segnala

Bestia indomabile, l'amore. E' come mettere la sella ad un cavallo selvatico, potrai anche metterglila, ma ogni tentativo di mettergli anche le redini non farà altro che imbizzarrirlo. L'amore decide per sé, e quindi anche per te, e lo fa senza logica. La scienza dice che le sue radici pare affondino in un anfratto del cervello, conosciuto come amigdala, una sorta di piccola mandorla demoniaca che alambicca le nostre emozioni secondo le sue regole. Amigdala, amore... siamo in mano a una banda di anarchici emozionali, e con poco a volte diventiamo assurde marionette in preda a stress emotivi imprevedibili. Basta poco per innescare traumi, ricordi, inibizioni, complessi che custodiamo in quel vaso di Pandora che è la mente di un individuo adulto. E quando un evento alza il soffio di un'emozione che è particolarmente forte da scoperchiare il vaso, lì avviene il dramma: il cavallo galoppa impazzito e calpesta con la sua furia tutto ciò che si para davanti, e non di rado il furore dell'amore travolge lo stesso soggetto amato.
Accade.
E quando accade, qualcuno si può ferire. Può ferirsi il cavallo imbizzarrito, può ferirsi il soggetto dell'amore travolto dalla sua foga, posso ferirsi entrambi in una caduta disastrosa, può anche morire l'amore a causa di questo fatale incidente, sul colpo o dopo una dolorosa agonia.

Questo cavallo indomabile è l'amore. Se ami, lo hai sotto il culo e rischi. Può essere un ronzino paziente o un puledro nervoso, ma comunque arriva un momento in cui può impazzire per un rumore improvviso, come quello di un fulmine nella notte o di un cuore che si spezza.

Ho una bestia nervosa sotto la sella del mio amore. Pericolosa perché snervata, ferita, insoddisfatta e impaurita. L'amore mio è una bestia da rinchiudere nella stalla, una stalla da serrare con un lucchetto di ferro la cui chiave è stata perduta durante l'ultima sua follia nei prati della vita.
Riposati vecchio cavallo stanco. Riposati fottuto bastardo e mastica la tua biada bagnata d'angoscia, che non sa di nulla.
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« immagine » Bestia indomabile, l'amore. E' come mettere la sella ad un cavallo selvatico, potrai anche mettergli la sella, ma ogni tentativo di mettergli anche le redini non farà altro che imbizzarrirlo. L'amore decide per sé, e quindi anche per te, e lo fa senza logica. La scienza dice che le sue...
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Cosa ho imparato.

02 aprile 2024 ore 18:42 segnala
Quando finisce un rapporto sentimentale, mentre dalle ferite esce il sangue della sofferenza, lentamente i bordi delle cicatrici si asciugano senza chiudersi mai. L'analisi incessante dei momenti del passato produce frutti già marci e amari da fiori che sembravano meravigliosi. Ci si trascina un fardello ricolmo di pensieri di consapevolezza e atroci lezioni imparate ingoiando domande retoriche.
Perciò dopo la batosta questo, a oggi, è quanto di nuovo ho imparato.
    - Mai più per chi non mi sceglie e non offre ciò che richiede. La reciprocità nei comportamenti, anche se nel rispetto del proprio carattere, è fondamentale.

    - Se una vocina dentro continua a metterti in guardia e a dirti una cosa, sempre la stessa: ascoltala, anche se quello che dice è sgradevole. E' il tuo cervello, che è pieno di dati chiari e nitidi, gli stessi che il tuo cuore diluisce nelle endorfine rendendoli inintelleggibili.

    - Se qualcuno ti toglie la felicità senza anestesia, senza consapevolezza della gravità dei suoi gesti, tu urli. Di dolore e di disperazione. Non c'è nulla di cui scusarti.

    - I patti non contano, se non è il cuore che li firma. Ma del resto pure quando il cuore mette una firma, pare faccia presto a cancellarla.

    - Nonostante ogni tipo di campanello d’allarme suonasse, sono riuscito a ignorare e tenere a bada la mia parte logica e autodifensiva. Ho tirato fuori un’intensità d’amore che non avevo mai vissuto e che non sapevo di possedere. E che mi guarderò bene dall'esibire di nuovo così liberamente.

    - Ho pensato e pronunciato parole importanti, molto significative. Nonostante il sordo tintinnare dei campanelli d’allarme di cui sopra. Le ho proclamate perché le pensavo dal profondo del cuore, ma mi pento molto che oggi siano come diamanti andati dispersi nel nulla dello spazio siderale.

    - Mi meritavo lei. Ma soprattutto lei si meritava me. Non riesco a capacitarmene e per questo a 46 anni ho imparato a conoscere l'insonnia.

    - E infine, ho imparato che dal dolore non si fugge. Gli si va incontro - che tanto prima o poi ti prende Lui - e lo si abbraccia. E poi ci si lascia divorare finchè Lui ha fame.
Su una strada che conosce a memoria la tua voce,
un cuore pietrificato piange lacrime di sabbia.
La solitudine non è più scelta, ma una condanna
a rivedere la realtà dell'errore. All'infinito.
Porterò a pisciare le mie malinconie, davanti a un'aiuola
ormai tutta fiorita, che non ha più il tuo nome.
Vino di luna, alzo il calice.
A un brindisi che non c'è mai stato.


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Quando finisce un rapporto sentimentale, mentre dalle ferite esce il sangue della sofferenza, lentamente i bordi delle cicatrici si asciugano senza chiudersi mai. L'analisi incessante dei momenti del passato produce frutti già marci e amari da fiori che sembravano meravigliosi. Ci si trascina un...
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Tracce di fatti d'amore

08 febbraio 2023 ore 17:02 segnala
Tracce di fatti d’amore, accuratamente selezionati e pazientemente stagionati con passione, entusiasmo e sofferenza. Esposti rigorosamente in ordine casuale. Troppe tracce? Non importa, non è una mia colpa sapermi emozionare così tante volte in una vita, semmai lo è saperlo mascherare, ma ognuno ha i propri talenti.
E comunque un bacio anche a chi amore non è stato, ma buon sentimento sì.

M.
Occhi azzurri che mi attraevano e una paura folle che lo si mi vedesse in faccia. Le prime parole d’amore scritte in blu, piegate in un foglio di quaderno, lette e custodite come fossero tesoro vergognoso da proteggere e nascondere, ancora oggi.
Libro: il primo sussidiario

S.
Sei apparsa un’estate, quella delle illusioni, della vita che fiorisce in un futuro pieno di interrogativi sorridenti. Mi hai fatto assaggiare la felicità con la grazia di una ballerina triste e bellissima che non ho saputo come ho preso, né come ho perso.
Libro: Stradario illustrato di Roma

M.
Leggevo tanto di quelle farfalle allo stomaco che dà l’amore: le ho provate con te, anima antica. Ti ho guardato e custodita, difesa e sopportata. Con te ho imparato a fare l’amore litigando e a insultarsi in silenzio.
Libro: “Molte vite, un solo amore”, B. Weiss

S.
Astrazione e disperazione totale, mi hai inciso l’arteria del romanticismo. Da quel giorno non ho più recuperato quella caparbietà, quell’audacia che mi sono illuso di avere. Ma eri il sogno per cui lottare, e avevo disperatamente bisogno di lottare per qualcosa.
Libro: “Peter Camenzind”, H. Hesse

G.
Perso nel tuo sorriso, stordito dalla tua risata, ubriacato dalla tua malizia. Non ho mai capito come poterti parlare di un trasporto di cui non conoscevo le parole, mentre mi sembrava solo di conoscere quelle della rinuncia, mentre i tuoi occhi mi dicevano tutt’altro.
Libro: “Memorie di Adriano”, M. Yourcenar

C.
Assetato d’amore, abbiamo bevuto a sorgenti rigogliose e acerbe sognando. Ho visto in te il sogno di una storia di una vita, un amore da raccontare ai figli, qualcosa a cui aspiravo senza volerlo davvero. La crudeltà dell’immaturità, senza sapere che stavo facendo.
Libro: “La rabbia degli angeli”, S. Sheldon

K.
Mai provata prima una sensazione di autodistruzione simile, sapevamo di farci male. Il desiderio di sanguinare appassionatamente ci ha avvolto, l’irrazionalità ci invadeva in brevi momenti in cui la follia sembrava felicità. Hai usato la crudeltà per liberarti, per liberarmi, uccidendo la follia con la lucidità, consegnandoti al rimpianto.
Libro: “Il maestro e Margherita”, M. Bulgakov

R.
Inizia per scherzo. Inizia forse sempre tutto per scherzo. Le cose si sono complicate per i pezzi che non riuscivano a combaciare mai: puzzle diversi, del tutto. Non ci siamo sforzati abbastanza. Ma salvarti la vita è stata la mia dichiarazione d’amore finale.
Libro: “Cronaca di una morte annunciata”, G. Garcia Marquez

M.
I tuoi occhi, la tua bocca, il tuo naso e la mia meraviglia. Nessuno ti guarderà come ti ho guardato io. Nessuno ci impedirà di pensarci. Le nuvole di lenzuola, la riva del lago, il camino, i morsi con cui abbiamo sbranato il sogno realizzato della quotidianità. Poi ti ho impedito di seguirmi, il mio gesto d’amore definitivo.
Libro: “L’amore ai tempi del colera”, G. Garcia Marquez

S.
Avevi bisogno di sentirti piccola, mi hai insegnato a diventare grande, a trovare la mia dimensione. Ma anche tante altre cose, tra cui che non puoi esistere l’odio tra chi si è amato. E la tua tazza che è sopravvissuta alla mia rabbia, non si romperà mai più.
Libro: “Il mio bambino difficile”, A. Hoffman
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Tracce di fatti d’amore, accuratamente selezionati e pazientemente stagionati con passione, entusiasmo e sofferenza. Esposti rigorosamente in ordine casuale. Troppo tracce? Non importa, non è una mia colpa sapermi emozionare così tante volte in una vita, semmai lo è saperlo mascherare, ma ognuno ha...
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08/02/2023 17:02:28
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Amare ancora

12 luglio 2021 ore 23:41 segnala
Ho vissuto gli ultimi tre giorni in un turbinio di apprensione e impazienza, in cui ho dovuto raddoppiare le energie per concentrarmi pienamente in quelli che erano i miei impegni. Nel tempo in cui la mia mente poteva rilassarsi, diventava preda di un tormento che mi segue silenziosamente da quasi due anni, che sala costantemente una ferita sanguinante e nascosta. La paura di aver fatto un passo affrettato, di una suggestione fuori tempo, il terrore paradossale che quella ferita si rimargini e che io possa dimenticare, l'ansia del semplice fatto di non essere ancora a casa, ma lontano. In questi tre giorni l'ansia ha divorato il mio sonno la notte, e il bruciore il mio stomaco durante il giorno.
Ieri sera l'idea che l'Italia si giocasse una finale era l'ultimo dei miei pensieri. Avevo bisogno solo di una, e una sola, emozione.
Oggi è diverso.
Ho ancora una ferita sul cuore di nome Juri. Ma è arrivato Nino.
Sono pronto a innamorarmi ancora. Lui mi guarda, scondinzola, e forse pensa la stessa cosa.
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Ho vissuto gli ultimi tre giorni in un turbinio di apprensione e impazienza, in cui ho dovuto raddoppiare le energie per concentrarmi pienamente in quelli che erano i miei impegni. Nel tempo in cui la mia mente poteva rilassarsi, diventava preda di un tormento che mi segue silenziosamente da quasi...
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Book challenge (attenzione: titolo acchiappaclic)

17 giugno 2021 ore 10:24 segnala
Suvvia, invece di continuare a fare scrivere stronzate al suggeritore automatico della vostra tastiera, che ne dite di indicarmi:

1 Il libro che tutti dovrebbero leggere per il loro bene
2 Il libro che è piaciuto a tutti ma non a te
3 Il libro che meglio racconta i vostri fantasmi
4 Il libro che un po’ vi vergognate a confessare che vi è piaciuto
5 Il libro in cui avreste voluto vivere
6 Il libro che vi ha dato un pugno nello stomaco
7 Il libro che avete riletto più volte
8 Il libro che avreste voluto scrivere voi
9 Il libro che amate come un grande amico

Per quanto mi riguarda, se vi interessa, le mie risposte sono:
1 “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee
2 “Gente di Dublino” di James Joyce
3 “Il Maestro e Margherita” di Mikhail Bulgakov
4 “Sottomissione” di Michel Houellebecq
5 “Il combattente” di Karim Franceschi
6 “Furore” di John Steinbeck
7 “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi
8 “L’Aleph” di Jorge Luis Borges
9 “L’amore ai tempi del colera” di Gabriel Garcia Marquez

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Suvvia, invece di continuare a fare scrivere stronzate al suggeritore automatico della vostra tastiera, che ne dite di indicarmi: 1 Il libro che tutti dovrebbero leggere per il loro bene 2 Il libro che è piaciuto a tutti ma non a te 3 Il libro che meglio racconta i vostri fantasmi 4 Il libro che...
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17/06/2021 10:24:20
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[racconto] Sfogo cieco

29 giugno 2020 ore 14:06 segnala

Dal momento in cui Alba aveva chiuso la porta del suo ufficio per dare una parvenza di riservatezza a quella discussione, i toni si erano alzati gradualmente ad ogni scambio di accuse fino a che le urla erano ormai diventate di dominio pubblico su tutto il piano. I colleghi di Alba e Giorgio non capivano esattamente le argomentazioni dei due, intercettando di tanto in tanto qualche raffica di parole sgranate con maggiore rabbia delle altre, ma nessuno pensava minimamente di intromettersi o di invitarli a moderare i toni. In ufficio le questioni si regolavano autonomamente, e se sfuggivano talvolta discussioni dai toni particolarmente accesi, pazienza. Si sarebbe discusso, sarebbero scappati degli insulti, ci si sarebbe accusati e poi guardati in cagnesco per qualche settimana, ma era così che le cose filavano sul lavoro, specie in settimane come quelle in cui si accavallavano le campagne di grossi clienti, che ingolfavano l’azienda di lavoro e minavano gli equilibri personali esistenti tra il personale dei vari uffici.
«Devi piantarla di scaricare colpe agli altri ogni volta che ti piantano una grana. Vedi di farti un esame di coscienza di tanto in tanto. Se la grafica di Greenwood non è pronta la colpa è di chi ha programmato il lavoro per la prossima settimana, ed è compito tuo farlo!» attaccava a muso duro Giorgio, che non riusciva più a stare seduto compostamente di fronte alla scrivania di Alba.
«Non ti azzardare a fare questioni: si era detto mesi fa che se slittava il pacchetto Transcorp, Greenwood passava in priorità. Se non siete in grado di tenere a mente direttive precise e avete bisogno di essere controllati quotidianamente, forse dovreste tornare all’asilo. Comunque da oggi in poi lo farò, e voglio vedere chi sarà il primo a lamentarsi con l’ufficio del personale di troppe ingerenze. Perché se poi vengo a saperlo – e sarai di certo tu a farlo – stavolta te la faccio pagare, intesi?» rispose a tono la donna, senza scomporsi troppo ma con nella voce il sibilo tagliente di un rasoio.
A quel punto Giorgio si alzò di scatto appoggiando le mani sulla scrivania e sporgendosi verso la donna con un indice che la puntava sul viso che pareva la canna di una pistola pronta a sparare. «Giuro che il vizio di minacciare la gente te lo faccio passare una volta per tutte. Questo cazzo di atteggiamento da troia prima o poi te lo rimangi con gli interessi, vedrai se non dico la verità. Vedi che bravo? Adesso comincio a minacciare pure io, e sono molto più bravo di te, perché una volta che mi incazzo davvero poi io faccio sul serio, e lo sai!»
Alba non era il tipo da tirarsi indietro se stuzzicata e rispose con la stessa violenza, rizzandosi in piedi e allontanando l’indice puntato di Giorgio con un irruento manrovescio: «Se non ti tira con l’amante o tua moglie non te la dà più, non è certo l’ufficio il posto giusto per venire a sfogarsi, capito coglione? O impari a fare il tuo lavoro, o cominci a impacchettare la tua roba perché ti garantisco che ti faccio sbattere fuori da quest’azienda in due giorni. Lo sai che mi basta una parola col direttore generale. Io non voglio più prendere merda a causa di coglioni lavativi che non sanno lavorare, chiaro?»
Al punto in cui si era Giorgio bolliva come una pentola a pressione e sapeva di non poter attaccare oltre, perché col suo carattere sarebbe passato alle vie di fatto, assestandole finalmente quel ceffone che da tanto tempo fantasticava di mollarle, e che l’avrebbe sicuramente messa a tacere per il resto della discussione (e probabilmente evitato discussioni a venire), ma che sarebbe davvero valso licenziamento e denuncia penale. Pertanto, senza aggiungere null’altro che un sibilo, girò su sé stesso e uscì dall’ufficio della donna sbattendosi la porta alle spalle. «Puttana bastarda…»
«Idiota testa di cazzo!» ribatté Alba con un urlo che accompagnò l’uomo fuori dall’ufficio. Quindi si lasciò cadere sulla poltroncina esausta per la tensione nervosa, dando un’occhiata all’orario sullo schermo del computer. «È ora di pranzo e per colpa di questo stronzo non avrò più appetito per il resto della giornata», penso mentre si alzò dirigendosi alla grande vetrata che dava sul parcheggio aziendale. Dalla grande porta automatica dell’ingresso uscivano alla chetichella gli impiegati che si apprestavano ad andare a pranzo e, tra questi, notò anche Giorgio che uscendo dall’edificio con falcate di toro al trotto, si chiuse nella sua Volvo station wagon e partì con una sgommata singhiozzante dovuta al nervosismo e sicuramente non ad un desiderio di virile e cafone esibizionismo. Il piacere di sapere rovinato anche l’appetito di quell’idiota non le fece passare il nervoso, ma le strappò comunque un mezzo sorriso isterico. Tuttavia non sopportava di rimanere in quell’ufficio un minuto in più. Aveva bisogno di una boccata di aria fresca, di andare a sfogare la propria rabbia fuori da lì, dove si sentiva addosso gli occhi di tutta l’azienda dopo quell’alterco che sicuramente era stato udito ovunque. Indossò quindi la giacca del tailleur azzurro di Chanel che indossava quel giorno, afferrò al volo la sua borsetta Louis Vuitton e si avviò verso l’uscita solcando i corridoi col passo sicuro e aggressivo di un’indossatrice, ignorando volutamente qualsiasi sguardo e dribblando qualsiasi cenno di saluto. Arrivata fuori dall’edificio le sembrò finalmente di riprendere fiato dopo un’apnea ma non si fermò, anzi, continuò a camminare con passo sostenuto e portamento arrogante in direzione delle zone più affollate del centro metropolitano: se qualche collega la stava osservando da lontano, non doveva ravvisare in lei il minimo segnale di cedimento. Solo dopo alcune centinaia di metri Alba si fermò a prendere fiato e a guardarsi in faccia nel riflesso della vetrina sfavillante di una boutique di Fendi. Lì, soffermandosi a lungo immobile, scrutava il suo viso teso e affilato di rancore, senza degnare di uno sguardo gli eleganti capi in mostra. Nella calca del centro all’ora di punta, voltarsi verso una vetrina e fingersi abbagliata dal desiderio degli acquisti era l’unico modo per sfogare occhiate di odio che avrebbero incenerito chiunque. Non avrebbe avuto senso sedersi al tavolino di un bar a sorseggiare una tisana, il suo sguardo e il suo atteggiamento avrebbero fulminato il cameriere, e l’ultima cosa di cui sentiva il bisogno era proprio di sentirsi addosso l’occhiata di un’altra persona che la considerava una stronza altezzosa ed arrogante. Si sentiva intrattabile, aggressiva e irrecuperabile in quel pozzo di rancore in cui la discussione in ufficio l’aveva precipitata al culmine dell’ennesima giornata da dimenticare sul lavoro. L’unica cosa di cui avrebbe avuto davvero bisogno era uno sfogo cieco e violento, in cui poter concentrare ogni tensione aggressiva. Togliersi le scarpe e spaccare quella vetrina di Fendi con quei maledetti tacchi da 12 poteva essere un’ottima soluzione, anche se l’ideale sarebbe stato rientrare di corsa in ufficio con una mazza da baseball e regalare un leggendario argomento di conversazione ai suoi colleghi da qui alla pensione.
Fortunatamente le venne subito in mente qualcosa di efficace e più sicuro per tutti. Persino di piacevole, a pensarci. E nessuno poteva sapere quanto Alba avesse bisogno di un sorso di piacevole libertà per mandare giù quel boccone di peloso nervosismo che la soffocava. Ricominciò a camminare per quella via, svoltando quasi subito sulla sinistra, su una via più stretta del corso principale, vuota e silenziosa, che sarebbe stata decorosa ed elegante, se non fosse per i suoi palazzi molto alti che la chiudevano e la ombreggiavano dandole un’atmosfera di tristezza. Allo scalpiccio dei suoi tacchi che risuonavano nella via solitaria, si aggiunsero subito dei passi lenti e pesanti. Un “Ehi, bellissima!” riecheggiò nella via. Alba si voltò senza fermarsi, notando che all’imbocco della via un figuro alto, piuttosto massiccio, abbigliato con una tuta sportiva volgare e alla moda e dall’aspetto decisamente sgradevole. Era uno degli inevitabili mandrilli da strada, appartenente a quell’incomprensibile categoria di maschi che considera lo starnazzo pubblico una forma di irresistibile corteggiamento. Alba continuò per la sua strada, accelerando leggermente il passo sentendo che quelli dell’uomo sembravano proprio seguirla. Fortunatamente l’obiettivo della sua passeggiata era ormai a una decina di metri. Verso la fine di questa lunga via vi era infatti un ampio e lussuoso salone di bellezza, con un’insegna in finto stile art decò che introduceva un locale tuttavia abbastanza antico – pare fosse stato inaugurato negli anni ’50 - ma gestito con eleganza e cura. Vi entrò introducendosi velocemente, soffermandosi per un istante sulla soglia con sollievo e scrutando dalla vetrata il ceffo che la seguiva in strada. Lo vide fermo sul marciapiede di fronte, che le sorrideva con le mani in tasca e che se ne tornava da dove era venuto con l’aria divertita di chi è uscito impunito dall’ennesima bravata, che probabilmente, in barba a qualsiasi presunto sfoggio di virilità, era il suo autentico fine ultimo.
Alba quindi entrò rassicurata nel salone, che era un posto molto tranquillo anche perché abbastanza isolato da altre attività commerciali, non particolarmente di moda ma molto ambito da un certo tipo di clientela di alto livello, ed i suoi prezzi erano naturalmente adeguati al contesto. Era il salone di riferimento di Alba da diversi anni, per questo la donna vi entrò sicura e soddisfatta della scelta che aveva fatto, dirigendosi dritta al bancone dell’accoglienza dove operava la titolare, una donna bionda molto appariscente e truccata, più in là della mezza età, a cui la sofisticazione dell’aspetto non donava nulla se non un filo di sottile volgarità.
«Buongiorno Alba, che sorpresa vederti oggi. O forse ho dimenticato di segnarti un appuntamento? Manicure, capelli, pulizia del viso?», le disse la proprietaria affrettandosi a consultare l’agenda delle prenotazioni, mentre il sorriso le si adombrava nel pensiero di aver commesso una negligenza.
«Buongiorno a te Carla», le rispose Alba stirando un sorriso cortese che mal celava il malumore. «Non preoccuparti, non avevo preso alcun appuntamento. Sono qui per la stanza», le disse abbassando leggermente il tono sulle ultime parole. «Ah, ma certo, nessun problema», le rispose la bionda proprietaria, chiudendo l’agenda e sollevando invece il ricevitore del telefono, su cui pigiò un numero che dove corrispondere ad un interno. «Ho qui una signora per una stanza. Ne abbiamo libere, vero? Molto bene, arriva subito». Quindi chiamò una collaboratrice che stava riordinando una vetrina con gli ultimi arrivi nel settore del balsamo per capelli. «Per favore Giada, accompagna la signora alle stanze», quindi si rivolse ad Alba con un sorriso complice e confortante: «Tutto a posto cara, e buon divertimento». Alba ebbe l’istinto di rispondere al suo augurio, ma le sembrò una cosa superflua e finta. Si limitò a rispondere al sorriso con uno analogo, molto più tirato e timido, quindi si accodò alla collaboratrice che già le indirizzava una strada in realtà non nuova. Non era la prima volta che noleggiava una stanza infatti; c’erano stati anzi periodi in cui se ne era servita quotidianamente per settimane, ma ora a ben pensarci mancava dal quel posto da più di un mese. L’ultima volta infatti era venuta per una semplice messa in piega, non aveva sentito il desiderio di noleggiare una stanza. La commessa le fece strada attraverso la scala a chiocciola che portava nel piano interrato, dov’erano gli spogliatoi del personale e il magazzino. Giunte qui sotto imboccarono un corridoio con alcune piccole stanze chiuse: quella con i comandi elettrici e termici, quella con la caldaia del sistema idraulico, altre senza alcuna targhetta che le identificasse. Alla fine del corridoio, lungo all’incirca 20 metri, a destra vi era la stretta rampa di una scalinata che saliva e da cui proveniva una musica ritmata, roba techno ad alto volume schermata dalle pareti della struttura. Le donne salirono i gradini spuntando su un altro corridoio molto più breve e fiocamente illuminato da lampadine a basso voltaggio all’altezza del battiscopa, su cui a destra stavano le porte di 5 stanze che si sarebbero detto molto piccole, a giudicare dalla distanza l’una dall’altra. Solo la porta dell’ultima stanza in fondo era aperta, e la commessa si fermò indicandola ad Alba con un luminoso sorriso. Anche lei le augurò “buon divertimento”, e stavolta la donna ringraziò in modo automatico, senza farsi nessun problema, perché la sua attenzione era ormai concentrata su altre cose. Alba entrò dunque nella quinta stanza in fondo, chiudendosi dentro a chiave appendendo immediatamente la borsetta ai ganci inchiodati sulla porta, quindi si tolse anche la giacca del tailleur poggiandola con cura al gancio accanto. Quindi si voltò alla sua destra, dove c’era un lungo specchio che la rifletteva a figura intera, dove per qualche secondo si guardò nuovamente. Stavolta era un riflesso che non mescolava al suo viso teso la luminosità e il lusso degli accessori di una casa di moda, come l’immagine che vide prima nella vetrina della boutique. Era un riflesso molto più scuro, nella penombra di quella piccola stanza illuminata debolmente come lo era il corridoio. Voltò le spalle allo specchio e ci si appoggiò, come se avesse trovato finalmente per la prima volta un punto su cui sfogare la sua fragilità. Quindi voltò la testa alla sua destra e sulla parte bassa della parete, a poco meno di un metro da terra li vide: due buchi circolari ampi quanto un pugno attraverso cui si vedeva solo buio, per ora.
La musica elettronica ritmata e dal volume ovattato che risuonava senza invadenza in tutto l’ambiente, lasciava comunque in primo piano il fruscio del movimento silenzioso delle persone nelle stanze, anche quelle oltre la parete. L’attesa e i misteriosi rumori che riusciva a intercettare inebriavano Alba di timore e frenesia, un miscuglio di sensazioni contrastanti che riusciva a sovrapporsi all’ansia nervosa che la possedevano fino a quel momento. Si accostò alla parete, osservando i buchi oscuri e vuoti. Proprio da lì sembravano provenire rumori confusi di movimenti, forse lo scalpiccio di scarpe, lo sfregare della stoffa di vestiti, respiri, l’improvviso tintinnio di oggetti metallici che sbattono tra loro. Inserì con lenta prudenza le dita di una mano dentro uno dei buchi, muovendoli. Non trovò nulla al tatto, ma non era questo che le interessava, voleva attirare l’attenzione e comunicare che c’era; quindi ritrasse le dita con la stessa lentezza con la quale le aveva inserite.
Dopo qualche secondo, dallo stesso buco, apparì un pene turgido, eccitato dall’inconsueto ma non famelico. Alba lo osservò senza sorpresa. Era di dimensioni normali, non l’avrebbe definito di carnagione bruna, ma olivastra sì. Quindi si accosciò davanti a quel membro, osservandolo per un momento, spingendo lo sguardo attraverso il buco fino a distinguere l’ordito dei peli del pube di colui che stava dall’altra parte della parete. Lo prese in mano senza stringerlo, ne valutò però il turgore. Non era durissimo, proprio come preferiva, perché piaceva a lei farli diventare davvero duri. Cominciò quindi a masturbarlo con lenta dolcezza, rimanendo quasi ipnotizzata dal glande che appariva e spariva tra le pieghe del prepuzio, che diventava sempre più liscio e lucente man mano che il pene le si intostava nella mano. Decise quindi di avvolgere la cappella con le labbra, passandoci sopra la lingua circolarmente e insalivandola. Le piaceva mappare con calma le dimensioni e la forma del glande quand’era gonfio, ogni volta che faceva sesso orale a un uomo. Questa cappella le piaceva, sentendola di forma elegantemente arrotondata eppur slanciata. Non le importava guardarla, perché amava che fosse la lingua a lavorare per lo sguardo della sua mente. Poi affondò con la bocca per prendere l’asta tutta in bocca, il più possibile, fino a farsi ostruire la gola dalla punta. Le piaceva sottoporsi per qualche secondo a quella sensazione di soffocamento, ma soprattutto amava decidere lei quando e per quanto tempo, mentre detestava quando gli uomini le premevano la testa verso di loro per imporglielo. Quella parete la proteggeva anche da quello, oltre che dallo sguardo di colui che offriva il suo membro. Non gli interessava lo sguardo, né l’identità, era interessata solo al cazzo. In quel modo era libera di adorare ed abusare in libertà dell’unica parte del maschio che davvero l’attraeva facendole perdere il controllo, almeno in quel momento. I pompini infatti erano l’unico modo in cui riusciva veramente e velocemente a scaricarsi da tensione, ansia e preoccupazioni. Ma era un hobby che la esponeva al pericolo di voci e giudizi calunniosi, che una donna nella sua posizione non poteva permettersi. Quando un giorno, nella ciarliera noia di una manicure, la sua amica Carla le parlò dell’idea che aveva avuto assieme al proprietario del sexy shop “Kataklisma” che aveva l’ingresso sulla via opposta, ma con cui condivideva i servizi del piano interrato, trovò la soluzione alle sue voglie inconfessabili. Avrebbe esclusivamente dovuto confessarle a Carla, e per forza di cose anche al suo staff da cui però non doveva temere indiscrezioni, perché inutili pettegolezzi mandati in giro potevano compromettere un’attività abbastanza lucrosa. Del resto una donna pagava duecento euro per quello sfizio segreto e sicuro in pieno centro cittadino, e agli uomini dietro le pareti probabilmente veniva chiesto altrettanto, se non di più. E quelle cinque stanzine coi buchi alle pareti erano in gran parte sempre occupate, a quel che sapeva, a tutti gli orari ma con picchi costanti all’ora di uscita dagli uffici.
Alba aveva completamente insalivato tutta l’asta, che ora si faceva scorrere agevolmente e con studiata lentezza dalle labbra alla gola, facendo sì che la lingua e le labbra che avvolgevano il membro fossero un morbido tappeto caldo su cui farlo scivolare. Poi le labbra si contrassero sigillando la circonferenza dell’asta, cominciando a scorrere il pene al massimo della sua eccitazione con sempre maggiore velocità, mentre la lingua frullava a carezzarne lo scorrimento con frenetica voluttà. Qualche decina di secondi di applicazione di questa tecnica solitamente era sufficiente a stroncare la resistenza del membro più tenace, ed anche stavolta Alba portò il misterioso maschio di turno al piacere. Sentì un fioco mugolio di libidine trapassare la parete, mentre la bocca le si inondava di sperma caldo e non particolarmente denso. Lo sputava quasi sempre, dopo qualche secondo in un fazzolettino di carta, ma stavolta il pompino non le era sufficiente: sentiva di desiderare anche la sensazione di calore del seme lungo la gola, fin allo stomaco. Lo ingoiò quindi senza volersi soffermare a valutarne il sapore. Nel frattempo, quel palo di carne e sangue che fino a poco tempo prima furoreggiava come un guerriero nel suo palato, ora si ritraeva dalla sua bocca timido, stravolto e infrollito, per sparire nel buio del buco.
La sensazione di potere che le dava portare un maschio all’orgasmo, e di conseguenza a quella condizione di ottundimento indifeso era un toccasana per l’umore di Alba. Era un piacere proibito che le provocava più di un piacere sessuale. Tutto ciò la lasciava infatti bagnata e desiderosa, ma era comunque se avesse vissuto un orgasmo mentale, o meglio ancora, come se gli orgasmi che causava le permettessero di succhiare forza, baldanza ed arroganza dal malcapitato, nutrendo in questo modo il suo lato più algido e mascolino che le era indispensabile esibire sul lavoro. Alba ora si sentiva una persona completamente diversa da quando era entrata in quella stanza; erano passati sì e no venti minuti, ma le erano stati sufficienti per far evaporare completamente ogni scoria di ira e negatività. Si rimise infatti la giacca con un sorriso soddisfatto in viso, quasi beffardo, ed uscì dalla stanza imboccando la scala che la portava al piano interrato e che l’avrebbe fatta sboccare nel salone del centro estetico. Con lo stesso sorriso salutò Carla all’uscita del salone, dopo averle saldato in contanti il noleggio della stanza. L’estetista incassò soddisfatta le banconote, ammucchiandole senza guardarle in un incavo separato del cassetto della cassa colmo di biglietti di grosso taglio. Carla si soffermò a notare, una volta di più, come ciascuna delle sue clienti non mancasse mai di uscir fuori da quelle stanzette senza un sorriso di sfida verso la vita dipinto in viso.
Con quello stesso sorriso Alba tornò verso l’ufficio fendendo la folla dell’ora di punta con sicurezza, sfidando gli sguardi di chi la osservava e compiacendosi di ogni luccichio di ammirazione che si vedeva addosso. Tornando al lavoro, attraversando il lungo corridoio che portava al proprio ufficio, guardò tutti negli occhi, distribuendo sorrisi, saluti e strizzate d’occhio. Le sembrò giusto offrire in pasto ai suoi colleghi gesti di distensione e serenità, dopo aver dato spettacolo della sua furia. Non era stata la prima volta, purtroppo conoscendosi non sarebbe stata l’ultima, ma poco male perché in fondo tutto passa.
Che tutto passa lo pensava pure Giorgio, mentre parcheggiava accuratamente la sua Volvo familiare dopo la pausa pranzo. Scendendo dalla vettura la chiuse schiacciando un pulsante sul telecomando. Dopo due passi si fermò e schiacciò di nuovo il pulsante del telecomando, nel dubbio che non si fosse chiusa al primo tentativo. Sorrise sentendo i crampi del suo stomaco, che non aveva ancora visto cibo per pranzo e aveva deciso di farsi sentire. Si sarebbe fermato a prendere qualcosa da sgranocchiare al distributore all’ingresso del palazzo. Mentre ritirava dalla macchinetta un pacchetto da quattro crackers alle olive, oltraggiosamente prezzato a due euro con la scusa di essere impreziosito dalla farina di kamut, Giorgio continuava a sorridere scioccamente. Pensava ancora al “Kataklisma”, da cui era appena uscito: “Siano donne, trans, froci, chi se ne importa. Siano benedette quelle bocche d’artista e il giorno in cui mi hanno parlato di quel posto”.
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29/06/2020 14:06:39
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La notte

04 maggio 2020 ore 23:54 segnala
Fiori esangui di bellezza nelle aiuole
che piangono alla luna il loro ultimo giorno,
e amanti insonni
che si palleggiano il buio alla luce degli schermi,
su un tappeto di vite addormentate
in attesa della loro ennesima seconda possibilità.
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Fiori esangui di bellezza nelle aiuole che piangono alla luna il loro ultimo giorno, e amanti insonni che si palleggiano il buio alla luce degli schermi, su un tappeto di vite addormentate in attesa della loro ennesima seconda possibilità.
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[racconto] Elaborazione del lutto

07 aprile 2020 ore 18:04 segnala

Il viale che portava all’interno della struttura era lungo ed ombroso, alberato su entrambi i lati con una vegetazione ad alto fusto piantumata sicuramente da molti decenni. Sfilavano parallele agli alberi due fitte file di croci di ferro, semplici, ciascuna col nome di un caduto della città morto al fronte durante la guerra del ‘15-’18.
Daniele aveva sempre percorso quel viale a piedi, nonostante lo si potesse tranquillamente percorrere in auto per giungere al parcheggio nei pressi del portale d’entrata. Era un cammino in cui il suo sguardo inquadrava una fila di croci e non lo mollava fino all’ultimo nome, come se fosse suo preciso dovere civico lustrare il ricordo anonimo di quei nomi lontani nel tempo. E al ritorno faceva la stessa identica cosa con la fila di croci dell’altro lato. Procedeva con le mani giunte dietro la schiena e passo misurato, una postura da anziano che non era, che solo la sacralità del luogo impediva apparisse palesemente ridicola.
Varcò l’enorme portale d’ingresso come se entrasse in un luogo familiare. E del resto lo era. Anche Adele sapeva dell’attrazione che lui aveva per i cimiteri, per questo quando le chiese di vedersi lì dentro non ebbe nulla da ridire, anche se l’idea non le dava di certo molto entusiasmo. E del resto era ormai da tempo che entrambi rifuggivano ogni accenno di attrito o di litigio, cercando di assecondarsi l’un l’altro in quelle ormai rare volte in cui si cercavano.
Camminava con lenta disinvoltura attraverso i viali che intersecavano i campi di sepoltura, ora con passo più sciolto rispetto a quello lento e legato con cui rendeva silenzioso omaggio ai caduti. Il cimitero era strutturato in quadranti adiacenti l’un l’altro, aggiunti nel tempo. Ogni campo rispecchiava le sepolture di un’epoca ben precisa e le epigrafi sulle tombe avevano stili ben precisi, e col tempo aveva imparato a riconoscerli tutti.
Daniele amava raccogliersi dentro i cimiteri, ma senza una particolare ossessività. Erano luoghi da vivere col massimo rispetto, in cui trovava la dimensione perfetta per ragionamenti e idee, e naturalmente perché riusciva a confidare i pronti sentimenti ai propri cari lì sepolti. Quegli stessi sentimenti che nella sua vita quotidiana riusciva ad esternare col contagocce: perlopiù rabbia e risentimento, null’altro di meglio.
La vide da lontano passeggiare nel campo principale, quello centrale e più grande di tutti gli altri. Passeggiava con le mani in tasca assorta nella lettura dei nomi delle sepolture. Aveva quell’espressione seriosa e grave di quando ci si impegna al massimo per comprendere situazioni ed emozioni. Adele era una donna molto tranquilla e riflessiva, anche lei, e del resto solo quelle qualità gli permisero di trascinare il rapporto con Daniele per quattro anni, fino a quel giorno al cimitero. Una donna diversa, appena più impulsiva, non avrebbe retto al quarto mese, una volta terminate le settimane dell’idillio sessuale.
Camminò verso di lei, senza fretta. Era sicuro che lei lo aveva già notato. Del resto in quel deserto coltivato a tombe, la minima cosa in movimento destava subito attenzione. Giunse fino a percorrere il viale che fronteggiava la fila di sepolcri che Adele stava lentamente passando in rassegna. Gli sguardi si incontrarono senza sorpresa e con un attimo di tenerezza da parte di lui, che la ringraziava di esserci. Senza fretta arrivarono a trovarsi uno accanto all’altra, entrambi con le mani in tasca, ed entrambi con una gran voglia che l’altro non esprimesse alcuna ulteriore manifestazione di affetto che non fosse lo scarno “ciao” del saluto reciproco.
«Questo posto. A quest’ora e in questa stagione, è incredibile. Sono arrivata dieci minuti fa e non si è vista anima viva. Eppure non è un posto lugubre. Sembra quasi che possa schizzarti davanti il Bianconiglio ansimante per il ritardo da un momento all’altro. Ammetto che quando me lo hai proposto però, non ero molto entusiasta», esordì Adele proseguendo la sua lenta passeggiata, mentre Daniele le si affiancava allo stesso ritmo.
«Ecco, ora capisci perché ti ho sempre detto che i cimiteri mi mettono dentro una certa serenità d’animo. Non accolgono solo la morte, ma distillano anche i sentimenti dalle anime dei vivi, acuiscono i sensi e i pensieri, ispirano i progetti, vivificano gli istinti», rispose l’uomo col tono di chi la sapeva lunga.
«Francamente non sono ancora arrivata a certe consapevolezze. Però ammetto che non è un posto dove mi sento a disagio. Almeno fin quando non calerà il sole, ma non penso resteremo qui così a lungo, vero?», le chiese allora Adele, iniziando a sondare il terreno per capire cosa Daniele volesse da lei e perché l’avesse invitata quel giorno proprio in quel posto.
«Oddio, proprio no! Non è un campeggio», le rispose l’uomo arcuando la bocca in un sorriso, quindi indicandole la parete più lontana del quadrilatero che componeva il campo in cui camminavano. «Visto quanti fiori laggiù? Vediamo se indovini quale celebrità è sepolta in quella tomba».
«Sì, lo so. Quel cantante di quel gruppo degli anni ’60… Oddio, non mi ricordo nessuno dei due nomi in questo momento».
«Non importa, era una curiosità ma vedo che la conoscevi già.»
Calò il silenzio su quella conversazione spinta a tentativi, nella quale nessuno dei due riusciva davvero a parlare. Solo le gambe sembravano muoversi autonomamente seguendo un percorso casuale nei sentieri tra le file di tombe. Entrambi si godevano un momento molto particolare, un momento senza discussioni, recriminazioni, accuse reciproche. Vivevano uno stato di pacifica ansia rispettosa del luogo, di una pace che riusciva a posarsi persino sul loro amore inacidito da mesi di contrasti violenti e che si trascinavano addosso mentre gli marciva dentro.
La voce flebile di Adele ruppe faticosamente il silenzio. «Posso azzardare un’ipotesi? Hai portato il nostro rapporto a morire qui, in un luogo dell’eterno riposo? Siamo qui a seppellire il nostro amore?»
«Che bella idea… lo dico senza ironia, te lo giuro. Sarebbe quasi il migliore gesto pietoso da fare. Bisognerebbe però dare il colpo di grazia a un moribondo prima di seppellirlo, e non sai quanto mi fa male parlare della nostra storia in certi termini. Ma no, non ti ho fatto venire per questo motivo». E si interruppe nuovamente, come per raccogliere energie. «Allora spiegami, ti prego», insistette lei preparandosi al sorgere di qualsiasi altra nuova tempesta, al fragore dello spezzarsi di quel filo di pace.
«No, vedi, volevo esattamente questo. Proprio quello che stiamo facendo. Volevo offrirti un gesto d’amore, come eravamo capaci di fare tempo fa. Ti ho portato in un posto che sapevo potesse imporci la serenità di questi momenti. Ti ricordi l’ultimo momento in cui siamo stati sereni insieme? Io francamente no. E poi, il cimitero è uno dei pochi posti in cui non ho mai fantasticato di suicidarmi, sai?»
L’ultima frase su Adele ebbe l’effetto di una pugnalata al ventre che le mozzò il fiato. Daniele non le aveva mai confessato pensieri suicidi, e venirlo a sapere in quel momento, in una frase che mescolava l’idea del suicidio a quello dell’amore per lei, le dava il capogiro. La parola “suicidio” però copriva tutto il resto: Daniele ne parlava con una disinvoltura che la impauriva. Tuttavia non le riuscì minimamente di voltarsi a guardarlo, di esibire un indizio di fragilità. L’unica crepa la manifestò rispondendogli con voce arrochita. «È tanto tempo che hai pensieri suicidi?»
«Da sempre, che io ricordi. Ma il pensiero di congiungersi alla morte penso faccia parte della vita. C’è chi ne fugge il pensiero, chi lo corteggia, chi si fa tormentare, chi finge di dimenticarlo… Io probabilmente sto elaborando il lutto della mia stessa morte da tutta la vita, lentamente, senza farmi dominare dal pensiero ma rendendola un’eventualità normale ed accettata. Siamo molto diversi anche in questo».
«E che ne sai? Non ti ho mai parlato delle mie vedute in questo campo», rispose Adele piccata, anche se in cuor suo gli riconosceva l’esattezza del concetto.
«Dici?», le rispose Daniele quasi beffardo. Ma oramai l’aveva portata dove lui voleva. Le prese le mani nelle sue facendola guardare attorno. «Riconosci dove siamo? Volevo offrirti un ultimo vero gesto d’amore e portarti davanti a quella tomba che ti angoscia tenendoti per mano, quella che mi hai sempre detto che non sei riuscita ad accettare, la tomba che non sei mai riuscita a venire a cercare, che ti fa singhiozzare in silenzio tante volte, e non credere che non me ne sia mai accorto…»
I due erano arrivati davanti a una tomba interrata come tante, con un nome comune ed un epitaffio che non brillava per originalità, ma che per la donna era da lunghi anni un pozzo di dispiacere infinito in cui non aveva mai avuto il coraggio di affacciarsi. Adele iniziò a singhiozzare connettendo il luogo alle proprie emozioni più profonde, profilando al suo sguardo inondato da una piena di lacrime, il nome sulla lapide della tomba a cui non era mai riuscita ad accostarsi. Ebbe bisogno di molto amore intorno, per andare ad inchinarcisi davanti e piangere anni di lacrime trattenute. Ma Daniele era lì proprio per quello.
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« immagine » Il viale che portava all’interno della struttura era lungo ed ombroso, alberato su entrambi i lati con una vegetazione ad alto fusto piantumata sicuramente da molti decenni. Sfilavano parallele agli alberi due fitte file di croci di ferro, semplici, ciascuna col nome di un caduto dell...
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07/04/2020 18:04:10
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Le parole a un cane che sta morendo

04 novembre 2019 ore 14:33 segnala

“Patatone, ma come stai? Visto chi c’è? Papone è tornato con te, sei contento? Sei stato tanto male oggi, vero? Ma adesso papone ti fa passare tutto, vedrai. Ti salutano tanto tutti, anche Gayatri, i gattacci, i cuginetti, ti vogliono bene tutti sai? Ti vogliamo tutti un bene infinito. Adesso vedrai che ti passa tutto. Questo bel cagnolone, facciamogli un bel po’ di coccole, a queste guanciotte, queste orecchiette… Cucciolone mio sei stato tanto male, ma ora sono con te. Solo una cosa ti chiedo: un giorno, quando morirò anche io, verrai a prendermi? Mi verrai incontro? Ti prego, così torneremo a passeggiare insieme. Adesso vuoi dormire con papone che ti coccola? Dormiamo cucciolone…”
Ho pensato a questo momento per anni, in certi periodi ogni giorno e più volte al giorno. In certi momenti era un pensiero ossessionante, man mano che l’età avanzava e i tuoi acciacchi non andavano di pari passo con i miei. Ho sempre saputo che doverti accompagnare al momento della morte sarebbe stato difficilissimo, ma sapevo anche che per nulla al mondo avrei rinunciato a stringerti a me mentre te ne saresti andato. Ti ho lasciato solo per oggi, in mano ai medici, ma ora siamo di nuovo insieme e basta così. Quando ho visto che ti portavano dentro questa stanza, su quel carrello, tu non mi vedevi, non ti ho detto nulla finché non ti hanno poggiato sul tavolo perché volevo farti una sorpresa. Magari avresti pensato che ti portavano a fare ancora un altro esame, e invece no, c’è papone! Chissà se eri contento come lo ero io. Ti conoscevo a menadito, parlavamo con gli sguardi, ma da due giorni non riuscivo più a comunicare con te. Ho faticato a scorgere in te un piccolo segnale di gioia, anche stavolta. Eppure, vedendoti, in me posso dirti che è evaporata tutta l’angoscia che sentivo solo pochi istanti prima per aver preso con Monica una decisione che avrebbe messo fine alla tua vita: sono stato davvero contento e sollevato di essere di nuovo con te. È bello essere felici negli ultimi minuti che si passano insieme. Chissà se lo hai avvertito, che ero felice. Eppure te lo garantisco, erano veri sorrisi di sollievo e gioia i miei. È vero, ad un certo punto ho iniziato a lacrimarti addosso, su quel faccione scuro e preoccupato, ma volevo che qualcosa di me ti restasse addosso, e che non fossero solo le mie parole e il mio odore. Mentre ti parlavo ci guardavamo negli occhi, quei tuoi occhi grandi e acquosi, dolcemente velati dall’età e dalla sofferenza degli ultimi giorni. Ma rimanevano comunque quegli occhi grandi che da sempre non finivano di scrutarmi ad ogni parola, ad ogni gesto che facevo, che mi assorbivano insaziabili di comprensione, ingordi di me e di attenzioni. In quella pupilla sgranata e scura avrei voluto sparire per un attimo, per alleviare quell’accenno di dolore che accennava ad esplodere in me attendendo solo un mio cedimento. Poi hai avuto un singulto alla pancia, un movimento delle zampe, e mi hai riportato alla mente le tue sofferenze che dovevano essere indicibili, e con essi la promessa che ti avevo appena fatto di farti addormentare e cancellare ogni tuo dolore. Mi sono alzato da te, sono andato ad aprire la porta, “Ora” ho detto solamente al primo medico che ho incrociato con lo sguardo. Poi siamo tornati insieme, e stavolta sarebbe stato fino alla fine. Ci siamo accucciati insieme e ti ho carezzato con le dita sul muso e tra gli occhi, come ti piaceva tanto che facessi per farti rilassare, ricordi? È vero, è entrato il medico, ma c’eravamo solo noi. No, non riaprire gli occhi, dormiamo. Il medico mi dice qualcosa, forse quello che via via sta facendo. Conosco già la procedura, i passi, ho vissuto questi momenti fin troppe volte, ma stavolta non distinguo le parole. Non mi importa però, sono concentrato sul tuo respiro e so che mi farai capire tu quello che succede. Dormi tesoro mio adorato, tu che puoi lasciati culare dal sonno che ti portano le mie carezze. So che sei addormentato profondamente, dolcemente, ora forse senti solo l’eco dei miei sussurri che si fanno forse più incerti e incrinati. Il medico mi dice che è l’ultima, questo l’ho capito. Ma stai già andando via, lo sento. Il tuo respiro diventa un rantolo che si replica delicatamente solo per due volte. So che è finita. Sei andato, mi sollevo da te ma non smetto di accarezzarti, almeno fino a che il medico non terminerà di auscultarti. Gli chiedo se sei morto, sapendo già che è così. Lui me lo conferma con una voce più strozzata ancora della mia. Ti bacio per l’ultima volta e prendo la porta.
Scusa Juri ma ora devo andare ad attraversare una tempesta di dolore, il mio e quello di mamma. La testa mi rimbomba da esplodermi, le lacrime oramai mi accecano, ma non piango ancora davvero. Aspetterò di dire a mamma che hai finito di soffrire. Poi dopo sarà l’inferno, l’inferno di dover giustificare al mondo perché si può soffrire così atrocemente per la morte del proprio cane, perché non gli si è voluto bene come un amico ma lo si è amato come un figlio. Arriveranno a dirti che ci sono cose più importanti, e ci sono sempre cose più importanti di qualsiasi cosa possa succedere, come se l’importanza proclamata di ben altri valori misteriosi servisse a tenere acceso un motore che non deve fermarsi un momento. Non sei più un bambino che piange per il pallone portato via dalla corrente del mare. O vuoi che il mondo lo pensi?
Ma qualora fosse, non si dovrebbe mai domandare a un bambino perché piange per la morte del suo cane. Nessuno potrà entrare nel suo mondo e comprenderlo veramente. Magari un altro bambino come lui. In realtà solo il suo cane avrebbe potuto farlo, ma è appena morto, e comunque nessuno avrebbe avuto orecchie per capirlo. Per questo il mistero delle lacrime disperate del bambino, mute testimoni nel tempo dei giorni, rimarrà per sempre il più intimo segreto tra lui e il suo cane.

A Juri
3/3/2007 – 2/1/2019
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« immagine » “Patatone, ma come stai? Visto chi c’è? Papone è tornato con te, sei contento? Sei stato tanto male oggi, vero? Ma adesso papone ti fa passare tutto, vedrai. Ti salutano tanto tutti, anche Gayatri, i gattacci, i cuginetti, ti vogliono bene tutti sai? Ti vogliamo tutti un bene infinito...
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